Domenica 30 novembre ci sono le primarie del centrosinistra in Puglia, snodo fondamentale per capire cosa resta della lunga stagione inaugurata nel 2005 dalla prima giunta di Nichi Vendola.
Primavera pugliese. Nel periodo di maggiore fortuna del movimento nato intorno a Sinistra ecologia e libertà (Sel), qualcuno (l’enfasi dei giornalisti locali più che la scaltrezza dei politici, l’ansia di fare cassa degli operatori turistici più che l’imprudenza del governatore) si arrischiò a parlare addirittura di “Rinascimento pugliese”. Se la distanza tra una buona amministrazione e Lorenzo il Magnifico saltava agli occhi degli ottimisti della volontà, quella parola (Primavera) avrebbe meritato la guardia alta di chiunque ce l’avesse a cuore. Da una parte, perché il disastro in cui stava culminando la precedente Primavera meridionale risultava lampante (quella di Antonio Bassolino in Campania, e prima ancora quella siciliana successiva al 1992), dall’altra per la natura temporanea del campo semantico cui la parola stessa appartiene. Dopo la primavera segue per forza di cose l’estate, altrimenti sono piccole vampe fuori stagione. O peggio è la scintilla che, malgrado la sua bellezza autonoma, via via che si allontana per la curva del tempo è letta come un ritardo di uno di quei periodi di riflusso insopportabilmente lunghi che rappresentano la stagione standard (una sorta di inverno tropicale con pachino) dell’Italia repubblicana.
D’accordo, qui sono troppo severo. Ma a parlare è il timore di perdere un treno che non ripasserà. Se è indubbio (per parafrasare il titolo di un libro di Franco Tatò) che la Puglia sotto Vendola non è diventata la California, la Primavera pugliese non è stata il fallimento di quella di Bassolino o di Leoluca Orlando. Ma proprio perché il protagonismo della regione meridionale che in questi anni più l’ha meritato non è riuscito a “sfondare”, leggerne i difetti attraverso pregi non trascurabili è un buon esercizio per tentare un rilancio prima che sia tardi.
Una piccola rivoluzione culturale che prendeva forza dalla tradizione. Questa fu, per certi versi, la prima elezione di Nichi Vendola a governatore della Puglia. La sua vittoria del 2005 contro Raffaele Fitto era imprevedibile soltanto un anno e mezzo prima. Dopo avere sconfitto alle primarie l’economista Francesco Boccia (uomo della sinistra riformista e prodiana, l’unica che gli osservatori consideravano abbastanza matura per assumere responsabilità di governo), Vendola si affermò contro il rappresentante del potere che – pur con tutte le sue mutazioni – aveva l’abitudine di amministrare la Puglia da quando le regioni furono istituite come enti nel 1970.
Undici governi democristiani, due socialisti (vicini a Bettino Craxi), altri due di Forza Italia. Questa era stata, per trentacinque anni, la mappa del potere in Puglia, assecondando una tradizione che andava avanti dall’immediato dopoguerra. Lo sparigliamento dei giochi non si limitò all’insediamento del primo governo schiettamente di sinistra che si fosse mai visto dalle nostre parti. Nell’epoca della personalizzazione del potere (l’elezione diretta di sindaci e presidenti di regione era arrivata da poco) la figura stessa di Vendola risultava rivoluzionaria, tanto sembrava improponibile a chi, persino da sinistra, pesava la mentalità dei propri corregionali.
Democristiani. Socialisti vicini a Craxi e ancora più a Rino Formica. Berlusconiani guardinghi e berlusconiane entusiaste. Missini di destra “non fascisti né antifascisti” (così si definiva Giuseppe Tatarella). Prudenti benché energici riformatori. Poi, sull’altro capo (al tavolo dei bambini, per così dire), i rossi. Dalle nostre parti nessuno ha mai sprecato la propria fantasia sognando i cavalli dei cosacchi fermi ad abbeverarsi sulle acque del Tavoliere. Al massimo (Desa da Copertino insegna) vedevamo i santi in volo sul Salento. L’ipotesi che un bell’uomo di quarantasei anni, comunista (tendance Pasolini, con un pizzico d’affettazione) e dichiaratamente omosessuale potesse diventare presidente di regione non impensieriva i suoi avversari, li faceva ridere. Eppure Nichi Vendola vinse (49,84 delle preferenze contro il 49,24 di Fitto), e l’Italia che soffriva sotto il terzo governo Berlusconi si sorprese a pensare – sembra passata un’epoca – che un cambiamento vero fosse possibile.
Ma come aveva fatto Nichi Vendola a trionfare? L’esito del Gay Pride barese del 2003 era stato un primo indizio. A parte alcuni cretini isolati, la cittadinanza offrì in quel caso una grande prova di maturità, accogliendo la manifestazione con la serenità olimpica che, molti chilometri più a nord, avrebbero potuto avere Helsinki o Stoccolma. Questo scrissero diversi giornali. Ma questo non è del tutto vero, perché Bari accolse invece il Gay Pride con la solare e morbida empatia di una vera città meridionale.
In sostanza, per il suo progetto di emancipazione Vendola non aveva bisogno di attingere da lontano. Perché guardare Berlino o Stoccolma, se avevamo già in casa le risorse culturali per ribaltare il tavolo? A Vendola bastò (cosa che fece per amore e non per calcolo, altrimenti non avrebbe funzionato tanto bene) scavare nella migliore tradizione meridiana per trovare la spinta del rinnovamento. Sul piano dei costumi (anche sessuali) si poteva attingere a un passato di tolleranza anteriore al bigottismo democristiano – per non tacere di quello comunista – e al machismo fascista, una predisposizione verso le diversità che apparteneva al proletariato (si pensi solo alla benevolenza verso i “femminielli” da parte del popolino dell’ottocento napoletano), come a una certa aristocrazia, come alle sopravvivenze del paganesimo diffuse ovunque al sud, per non parlare dell’eredità della Magna Grecia. A questo si aggiungeva che – sul capo opposto – gli elettori più giovani erano già intrisi di una cultura cosmopolita. Anni prima di avere diritto al voto, tutti avevamo messo innumerevoli volte sotto la puntina i dischi dei Bronski Beat, di Boy George, di Frankie Goes to Hollywood, per non parlare di David Bowie e di Lou Reed. (Non così probabilmente il presidente di regione medesimo, ma questo lo racconterò tra poco).
Un occhio al pensiero meridiano, l’altro alla Silicon valley. Cosa mancava, alla Puglia, per diventare la California del Mediterraneo?
Costumi a parte, il capolavoro di Vendola fu comunque ritrovare il bandolo di una ben determinata identità politica, e prima ancora culturale, sopravvissuta come movimento carsico. Non l’eredità di Togliatti, ma quella di Giuseppe Di Vittorio. Non il socialismo dei roaring eighties, ma quello di Rocco Scotellaro, che fu sindaco di Tricarico nel 1946 all’età di ventitré anni, si scelse come maestro Carlo Levi e come compagna (uno dei più struggenti amori della storia letteraria del novecento) una poetessa del calibro di Amelia Rosselli. Non il clericalismo dei vescovi neri o di certi chierici rosati, ma don Tonino Bello. Non il popolo di piccoli capaci (e non di rado rapaci) imprenditori che avevano fatto di Bari la “Milano del Sud”, ma il “popolo di formiche” cantato da Tommaso Fiore.
Non soprattutto la Puglia ridisegnata dai tristi quadri di Botteghe Oscure, ma la sinistra italiana come una delle possibili sponde attraverso cui far rivivere, e rinnovare, una tradizione e una cultura ben più profonde e radicate. Fu questo il colpo vincente del vendolismo. Fu il motivo per il quale – faccio un esempio personale abbastanza rappresentativo – mentre il ramo minoritario della mia famiglia fedele a Forza Italia puntò su Fitto, quello (numericamente più consistente) che si sentiva orfano della Democrazia Cristiana (coltivatori diretti con un forte senso dello stato, che odiavano Berlusconi perché li aveva costretti a votare per Massimo D’Alema, considerato prima e dopo un “pericoloso comunista”, ma pur sempre uomo delle istituzioni rispetto al partito di Marcello Dell’Utri) votò compatto per Vendola.
Ovviamente, tutta questa tradizione doveva essere la fionda per proiettarci prepotentemente nel ventunesimo secolo. Gaetano Salvemini da Molfetta nel cuore, vivevamo già al tempo di internet e dell’e-commerce. Un occhio al pensiero meridiano, l’altro alla Silicon valley. Cosa mancava, alla Puglia, per diventare la California del Mediterraneo?
Un primo effetto (direi immediato) di questo cambio di paradigma fu l’abbandono, sul piano culturale, della più pesante zavorra che la Puglia aveva avuto negli ultimi trent’anni per la rappresentazione di se stessa dentro e fuori i confini regionali. Vale a dire il folklore. L’insopportabile folklore che ci spingeva a presentarci al mondo come la terra delle cime di rapa e di Lino Banfi (grande rispetto per l’attore, e molto meglio la scuola dell’avanspettacolo che il facchinaggio dell’autorialità, ma era la banfizzazione forzata della Puglia che trovavo insopportabile), anziché come la patria anche di Carmelo Bene, di Pino Pascali, di Andrea Pazienza, di Eugenio Barba, di Domenico Modugno. Il folklore (stella polare ferocemente inseguita da tanti assessori alla cultura) non era altro che una violenta manifestazione di debolezza, cioè l’altra faccia – uno sberleffo presentabile – del complesso di inferiorità del provinciale. La dittatura di quel tipo di folklore, a un certo punto, si affievolì. Diventò minoritaria, con gran dispetto di chi (a cinema, a teatro, ma soprattutto tra i banchi dei consigli regionali e comunali) usava il vernacolo e le patate riso e cozze non tanto quali normali segni identitari, ma come strumenti di guida e di consenso.
Il tramonto del folklore come segno del comando fece emergere spontaneamente il protagonismo di almeno due generazioni di pugliesi che fino a quel momento (per formazione e immaginario) si erano sentite escluse a vita dai giochi che contavano. Erano quelli che, pochi anni dopo, avrebbero animato le “Fabbriche di Nichi”. Laureati in lettere, in lingue, in informatica, in ingegneria, studenti di cinema, musicisti. Ragazze e ragazzi molto aggiornati, che preferivano Murakami ai libri di Bruno Vespa (e magari non avevano mai letto Tanizaki), Caparezza a Al Bano (senza passare per Abbado), che andavano ai concerti degli Arcade Fire o li guardavano su YouTube, che alla parola “bio” sapevano cosa rispondere, che utilizzavano E-Dreams per viaggiare, conoscevano i locali di Kreuzberg, e quando ripassavano per l’ennesima volta dal Centre Pompidou si domandavano come fare per portare qualcosa di anche lontanamente simile nel proprio paese. Non magari in assoluto la meglio gioventù, ma la migliore sulla piazza: ragazze e ragazzi del ventunesimo secolo in un paese fermo all’89 (era il periodo, per intenderci, in cui Berlusconi chiamava Google “gogol”), pronti a offrire competenze e entusiasmo al nuovo progetto politico.
Forse, se non la California, la Puglia poteva trasformarsi in una costellazione di distretti tra i quali ci sarebbe potuta essere una “Manchester del Sud”, una “Seattle sul Mediterraneo”. Il che, abbastanza chiaramente, non è successo. Non siamo tornati ai terribili anni ottanta, ma non abbiamo fatto neanche il salto in avanti che a un certo punto era sembrato possibile.
Non tutti i conti tornavano perfettamente sin dall’inizio, in verità, nemmeno nella figura del presidente di regione. Per esempio era forse un po’ eccessiva la pretesa di essere non un “fenomeno” ma un “epifenomeno” (nel già allora forbito lessico del Presidente, la circostanza vale a dire di incarnare il cambiamento, non di esserselo inventato; dunque di essere, umilmente, solo un prodotto del popolo pugliese).
Così, finita la sbornia delle elezioni, alla prima occasione utile mi infilai in un treno e mi diressi a Bari per intervistarlo. Lo avevo visto qualche volta alla Taverna del Maltese (un locale dove la sinistra alternativa barese andava a bere, oltre che ad ascoltare concerti, seminari e presentazioni di libri), ma non ci avevo mai parlato. Volendo cavalcare ulteriormente l’effetto spiazzamento delle elezioni, non andai a intervistare Vendola per conto di un quotidiano nazionale, ci andai per Rolling Stone.
L’appuntamento (potevano essere le otto di una serata di fine estate, il buio era calato morbidamente sul lungomare Nazario Sauro da pochi minuti) era nel nuovo, davvero inedito (chi l’avrebbe immaginato?) luogo di lavoro di Vendola, vale a dire il palazzo della Presidenza.
Non dimenticherò mai, non tanto quell’intervista, ma i minuti che la precedettero: io che infilo il portone del civico 33, e mi dirigo verso l’ascensore, passando dal piano terra (dove c’erano i dipendenti della regione, assunti a tempo indeterminato da generazioni) all’ultimo piano (dove c’era lo staff appena insediatosi di Vendola, e lui medesimo). Il balzo culturale – e anagrafico – mi sembrò stupefacente, oltre che piacevole, e un tantino comico. Da una parte, i dipendenti pubblici che avevo sempre visto. Vestiti come tramvieri degli anni settanta (o come organizzatrici a riposo della festa della Madonna del Pozzo). Intenti a fare poco, a chiacchierare tra di loro, se non a giocare a carte o a fumare dove non era consentito. Eppure solidi, in grado di risolvere in un modo tutto loro i problemi quotidiani del lavoro, portatori di una saggezza da genius loci che dovrebbe (e spesso non lo fa) compensare un’altrettanta naturale inclinazione all’indolenza, a una filosofica affermazione della vanità del tutto. E, inspiegabilmente, tutti ancora lì alle otto di sera.
Mi accolse un ragazzo sui quaranta che avrebbe potuto essere il manager (o lo stilista) dei Depeche Mode. Tutto vestito di bianco, in perfetta forma fisica
Chiesi del presidente (“devo intervistare Vendola”, feci dandomi impercettibilmente un tono) e uno di loro indicò l’ascensore con un cenno molto vago della mano (la postura semiaccavallata di pollice, indice e medio su un polso slanciato verso l’alto che rende mimicamente il concetto di sic transit gloria mundi).
Quando arrivai all’ultimo piano, la situazione cambiò completamente. Prima ancora che le porte dell’ascensore si aprissero, sentivo già il rumore di corpi in movimento. Gente che entrava e usciva dagli uffici. Dita che battevano sulle tastiere dei portatili. Uomini e donne (belli, efficienti, dinamici) tutti molto indaffarati. Alcuni dei quali, pur di non gravare sulle linee telefoniche pubbliche, parlavano dai propri cellulari. In italiano, inglese, francese, terlizzese. Insomma, poteva essere un’azienda del terziario avanzato piegata finalmente ai bisogni del welfare.
“Nicola Lagioia?”.
“Sono io”.
Mi accolse un ragazzo sui quaranta che avrebbe potuto essere il manager (o lo stilista) dei Depeche Mode. Tutto vestito di bianco, in perfetta forma fisica, con una piccola foglia d’argento al lobo dell’orecchio destro. Lo confesso, per qualche attimo mi sentii galvanizzato: se non dei Depeche Mode, ero pur sempre un figlio dei New Order. Mi offrirono un succo di frutta. Mi fecero accomodare in un piccolo ufficio. Mi dissero che “Nichi” sarebbe stato a mia disposizione nel giro di dieci minuti. Per un istante (ma proprio una frazione di secondo) pensai che una buona domanda da fare per Rolling Stone al nuovo governatore della Puglia poteva essere: “Come reagisti alla notizia del divorzio tra Morrissey e Johnny Marr ai tempi degli Smiths?”
Poi Vendola entrò in scena e capii che non sarebbe stato il caso.
Una bella stretta di mano. Implicito l’uso del tu reciproco. Uno di fronte all’altro, a parlare per un’ora del futuro della nostra regione.
Non posso dire che uscii deluso da quell’incontro. Tornando a casa, però, non potevo neanche dirmi del tutto soddisfatto. Mi aspettavo di parlare con l’erede di Scotellaro, mi ritrovai di fronte un politico in gran forma. Forse troppo in forma. Molto competente. Diverso da quasi tutti gli uomini politici che si erano visti in Puglia da tempo. E tuttavia uno che, appena acceso il registratore, entrò nella trance agonistica in cui la maggior parte dei personaggi pubblici italiani si immerge quando deve parlare (Rolling Stone all’epoca faceva una discreta tiratura) a più di tre persone contemporaneamente.
Nichi Vendola aveva una risposta per ogni mia domanda. Risposte belle, convincenti, retoricamente impeccabili (io: “Più di una volta hai parlato della natura intrinsecamente oscena del potere. Oggi sei un uomo di potere. Come pensi di salvarti?”. Lui: “Io attraverso il potere, lo abito, e cerco di evitare che mi attraversi e che mi abiti. Provo a spogliarlo, a svuotare il nucleo duro della sua autoreferenzialità. Vivo la mia nuova situazione mutuando le parole di San Paolo: io sono nel potere, non sono del potere”). Tuttavia io, per lui (ebbi l’impressione mentre la chiacchierata andava avanti) più che un interlocutore ero un bussolotto pieno di quesiti da sciogliere nel modo migliore. Non c’era niente che potessi fare, non dico per metterlo in difficoltà, ma per innescare un minimo cortocircuito nei suoi discorsi. Mi guardava. Fumava una sigaretta dopo l’altra. Teneva la distanza che si osserva nelle gare di scherma. Non c’era niente che avesse la curiosità di chiedermi. Certo, lo stavo intervistando per un giornale, e questo rischiava di definire un po’ troppo già in partenza i rispettivi ruoli. Eppure, prima ancora ero un pugliese che era stato costretto a lasciare la sua terra, e un elettore di sinistra che ragionava pubblicamente da qualche anno sui destini della regione. Seguendo la campagna elettorale di Vendola, mi ero probabilmente convinto di dover essere automaticamente al suo cospetto un portatore di istanze, o (meglio ancora) di contraddizioni che potessero essergli utili per capire cose che fino a quel momento gli erano sfuggite, o che aveva letto sempre sotto la stessa luce. Non successe. E questo, al netto del mio orgoglio un po’ malconcio, per uno che pretendeva di essere l’epifenomeno del popolo pugliese mi sembrò un piccolo controsenso.
A un certo punto (lo stavo pur sempre intervistando per Rolling Stone) decisi di allentare i toni. Così gli chiesi: “Che musica ascolti?”
Lui rispose. Io ero convinto di non aver capito bene.
Lo ripeté. Povia. “Quando i bambini fanno oh!, la canto sempre sotto la doccia”. Quello stesso Povia che, anni dopo, avrebbe presentato a San Remo una canzone omofoba. Benché i tempi di Luca era gay fossero lontani, Povia non era propriamente un beniamino dei lettori di Rolling Stone già allora. Così, per una sorta di strategia compassinevole (Vendola aveva pur compiuto un’impresa eccezionale, eravamo all’inizio del suo governatorato e non era il caso di esporlo al pubblico ludibrio su temi tanto futili) quella fu l’unica risposta che espunsi dalla mia intervista. Autocensura. Volevo evitargli una brutta figura, anche perché avrebbe significato che (oltre a scrivere poesie poco più belle di quelle di Bondi) Vendola non sapeva leggere gli arcani del pop.
Lo vidi di persona qualche altra volta. Una nel 2010, ospiti entrambi di Gad Lerner a L’Infedele. Lui (guest star) aveva appena vinto di nuovo le elezioni regionali. Poi nel 2012, a poche settimane dalle primarie nazionali del centrosinistra. Ricevetti un invito da Sel a un incontro pubblico (Roma, zona Ponte Milvio) dove Vendola avrebbe parlato alla presenza di altri scrittori, nonché di editori, produttori, operatori teatrali e cinematografici, dei problemi legati a chi lavora nel campo della “creatività” e della “conoscenza”. Anche qui, a un certo punto, ebbi la stessa impressione dell’intervista di sette anni prima. Vendola fece un lungo discorso (più interessante di qualunque discorso potessero fare diversi suoi omologhi) sullo stato del cinema e dell’editoria, ma non sembrava interessato a quello che poteva ribattere chi lo ascoltava. Questo mi sembrò più grave di ciò che non era successo durante l’intervista a due per Rolling Stone, perché qui gli esperti in materia eravamo noi. Nessuno, meglio di un redattore, di uno scenografo, di un editor, di un montatore sapeva quali erano i problemi che, fuor di massimi sistemi, stavano attraversando il cinema e le case editrici. Nichi Vendola (a parte lodare l’esperienza del Valle, e compiacersi giustamente per il fatto che un film finanziato dall’Apulia Film Commission era stato preso in concorso a Venezia l’anno prima) non sembrava andare troppo oltre il generico. Ciò nonostante, non chiese niente. Non ci fece domande. Eravamo forse anche meno di quaranta, sarebbe stato facile.
Qualche settimana dopo, su Sky Tg24, lo vidi confrontarsi con i suoi avversari per le primarie del centrosinistra (quelle che avrebbe vinto Bersani) in una strana atmosfera televisiva che poteva ricordare X Factor. Alla domanda: “Qual è per lei un simbolo della sinistra?” mi aspettavo che Vendola rispondesse Giuseppe Di Vittorio, Rocco Scotellaro, l’eretico Pasolini (da giovane ci aveva scritto su la tesi di laurea, e già sarebbe stato un po’ retorico puntare sul regista di Accattone), al limite Antonio Gramsci.
Renzi rispose: “Nelson Mandela, e l’attivista tunisina Lina Ben Mhenni”.
Tabacci ricorse a De Gasperi. Puppato a Tina Anselmi.
Un indeterminato “papa Giovanni” per Bersani.
Nichi Vendola rispose: “Il cardinal Martini”.
Nel 2014 la Puglia è, tra le regioni italiane, al quartultimo posto per pil pro capite (dopo ci sono Sicilia, Calabria e Campania). Allo stesso posto si trova per ciò che riguarda gli indici di lettura (più precisamente, secondo l’Istat, nella “percentuale di persone di 6 anni e più che hanno letto almeno un libro durante l’anno”), a dimostrazione che – nonostante la bontà delle iniziative pubbliche – reddito e consumi culturali restano difficilmente scindibili. La sanità (uno dei punti controversi dell’amministrazione Vendola) presenta un quadro frastagliato. A strutture funzionanti (in certi casi molto ben funzionanti) si alternano ospedali e reparti non certo d’eccellenza. È vero che l’intera sanità italiana è in difficoltà, ma ho visto in Puglia reparti di oncologia organizzati in modo da ribadire in modo per nulla piacevole la vecchia voragine tra sud e Nord. L’Ilva: basta la parola. Ambiente: c’è chi dice che un rischio “terra dei fuochi”, seppure in scala, non sia da escludere. Non ci sono, in Puglia, università d’eccellenza, ma è anche vero che da tempo ormai nessuna università italiana compare nella top 100 mondiale. Il turismo ha fatto registrare affluenze molto buone negli ultimi anni, benché ci sia da capire quanto si siano messe al passo le strutture ricettive. La Puglia, nel mondo, è finalmente diventata un marchio spendibile. Eppure, come reagireste alle statistiche secondo cui il solo Veneto attira, ogni anno, più turisti di Puglia, Campania, Sicilia, Marche, Calabria, Sardegna e Basilicata messi insieme?
Certo, i numeri sono spesso più ingannevoli di quello che si crede. La Puglia degli ultimi dieci anni (tenendo conto della crisi che ha colpito l’intero paese) ha fatto ciò di cui non era stata capace nei precedenti venti, e sono abbastanza certo che nessuna amministrazione di destra (quella di un Berlusconi all’apice della megalomania, e poi in declino) avrebbe raggiunto risultati analoghi. Eppure, mi sembra altrettanto indubbio che il processo di rinnovamento sia a un certo punto entrato in una fase di stagnazione. Il preludio, appunto, di un possibile riflusso.
Quand’è che si è inceppato il meccanismo?
Prendo sempre Vendola come pietra di paragone (benché le primarie del 30 si giochino tra Michele Emiliano, Guglielmo Minervini e Dario Stefàno) perché credo sia da irresponsabili non considerare un terreno comune (e farsi venire la tentazione di smantellarlo) il buono che è stato fatto. Anche se, ho la sensazione, il buono – nel passaggio dal primo al secondo mandato – è stato più detto e sempre meno fatto. Questo, non solo per l’abitudine della politica a promettere l’impossibile (o a inseguire aquiloni lanciati troppi passi in là dalla propria personale capacità di fiato e gambe). È proprio che, una retorica virtuosamente avvinghiata alla sostanza delle cose, a un certo punto mi pare abbia iniziato a divorare se stessa.
Parto dal piano linguistico; mi è più congeniale, ma credo sia un’ottima cartina di tornasole. Chi ha seguito (e meglio visto dal vivo) i comizi di Vendola non può non essersi accorto della differenza tra quelli immediatamente precedenti al primo mandato, quelli di qualche tempo dopo (meno belli ma forse la quadratura del cerchio: era il periodo in cui il Partito democratico di Massimo D’Alema si rifiutava di fare le primarie per la paura, fondatissima, che le vincesse il leader di Sel), e quelli degli anni successivi. Ampollosità, magniloquenza, e un radioso vittimismo appena percepibile, che all’inizio erano le pagliuzze a fior di corde vocali, son diventati piano piano l’architrave dei suoi discorsi, sempre più prevedibili benché non di rado condivisibili nella sostanza, come se, impossibilitato a trarre forza e suggestioni dall’esterno, il discorso si costringesse a ripiegare su se stesso. Questa involuzione linguistica, era ovviamente il segnale di altro. Ma cosa?
A un certo punto, la Primavera pugliese (davvero troppo presto, tenuto conto delle ambizioni) ho l’impressione che non si sia più sottoposta volentieri a verifica. Era anzi un piccolo sgarbo, da sinistra, pretendere che la verifica fosse costante e necessaria. Persino sollevare dubbi estetici sul revival della taranta (nel frattempo diventata un piccolo business) non era visto bene. Scrittori e registi nati in Puglia ma formatisi altrove (costretti magari in tempi non sospetti ad andare via da ragazzi per cercare le occasioni che non trovavano a casa) venivano obtorto collo presentati come “prodotti” della Primavera pugliese. Per non parlare dell’enogastronomia nell’epoca di Eataly. Ci eravamo liberati delle folkloristiche sagre della braciola. Solo che quelle stesse braciole (e le patate riso e cozze, il vino, l’olio extravergine d’oliva) adesso si erano trasformate in un indispensabile portato culturale. Tutto a un certo punto è diventato culturale così come tutto era politico negli anni settanta. Questo non ha iniziato ad accadere per una precisa disposizione politica, non è stato un atto di volontà di Vendola o dei suoi. Questo, è stato il messaggio che a un certo punto l’intero contesto prodotto dalla Primavera ha cominciato a effondere nell’aria. La cultura – proprio la testa d’ariete, o il cavallo di battaglia, del vendolismo – da trampolino di lancio rischiava di diventare un piccolo ricatto.
Eppure, nessun governo regionale ha provato a fare altrettanto per la cultura. E nessun altro si è rivolto ai giovani allo stesso modo. Da questo punto di vista, resta emblematica l’esperienza di Bollenti spiriti, il progetto di imprenditoria giovanile messo a punto da Guglielmo Minervini quando era assessore alle politiche giovanili durante il primo governo Vendola. Un progetto ambizioso, i cui frutti più succulenti è difficile si colgano nell’immediato – nel migliore dei casi, come avrebbe detto Alcide De Gasperi tracciando la differenza tra politici e statisti, si è guardato alle prossime generazioni più che alle prossime elezioni. Dunque, vedremo.
E poi, come una doccia fredda, la diffusione della telefonata di Vendola a Girolamo Archinà. Lì si è toccato il punto più basso della Primavera pugliese
Detto questo, la Puglia non si è trasformata in un distretto culturale di strepitosa rilevanza. Prendiamo il cinema. Siamo diventati un polo d’attrazione per produzioni anche internazionali. Si è creato lavoro, formate maestranze e professionalità. Non è poco, si tratta anzi di un vero atto fondativo. Ma non c’è stato un produttore cinematografico come Domenico Procacci che sia riuscito a inventarsi una Fandango made in Puglia. E ancora, l’editoria. C’è molto movimento, un’ammirevole vitalità, ma non è che sia nata nel frattempo qui la nuova casa editrice Sellerio. O il teatro: a sprazzi cose interessanti, a volte ottime, e tuttavia nulla di paragonabile a ciò che accadde negli anni novanta tra Cesena, Rimini e Ravenna, quando con Motus, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe eccetera si sviluppò una delle scuole di ricerca più importanti d’Europa. Stessa cosa per la musica.
Ci si tiene volentieri quel che si è ottenuto, soprattutto perché sarebbe potuto non succedere niente. Ma, viste le premesse, non era lecito aspettarsi di più? E siamo certi che, in non pochi casi, la mancanza di un ulteriore salto qualitativo non abbia innescato una dinamica autoreferenziale? Se non riesci ad andare avanti, inizia a parlarti addosso.
E poi, come una doccia fredda, la diffusione della telefonata di Vendola a Girolamo Archinà. Lì si è toccato il punto più basso della Primavera pugliese. In quel colloquio, che risale al luglio del 2010, diffuso dal Fatto Quotidiano tre anni dopo con un sensazionalismo autocompiaciuto, il presidente della regione veniva colto a scherzare in modo imbarazzante con l’addetto alle relazioni esterne dell’Ilva.
Archinà è una delle personalità più oscure e discutibili tra le non poche (oscure e discutibili) che hanno prestato servizio alla corte dei Riva. Pochi giorni prima di quell’intercettazione, aveva brutalmente strappato il microfono di mano a un giornalista locale che incalzava Emilio Riva sui rischi per la salute dell’impianto industriale. Al telefono, Vendola aveva riso con Archinà, complimentandosi per il gesto (definito uno “splendido scatto felino” dal presidente). A quell’epoca i dati sul disastro dell’Ilva non erano ancora noti in via ufficiale. E Vendola (diversamente da ciò che aveva riportato in modo scellerato certa stampa) non aveva affatto riso del rischio tumori. Aveva però riso però con un potente, e si era burlato di un giornalista che faceva con coraggio il suo mestiere. Aveva dimostrato, soprattutto, una confidenza con i Riva (o meglio, una complicità emotiva) che nessuno avrebbe osato immaginare. Vendola avrebbe poi ammesso di vergognarsi per il modo con cui si era fatto beffe del giornalista. Ma, nella sostanza, aveva aggiunto, la sua sudditanza emotiva era stata strumentale, strategica, un modo per “riprendere i contatti” con i Riva dopo un periodo di silenzio, per “indorare la pillola”, una captatio benevolentiae da sfruttare subito dopo per difendere posti di lavoro, e per trattare sull’abbattimento delle emissioni di benzoapirene.
È possibile, come ha dichiarato Vendola (e tuttavia costantemente da sottoporre a verifica visto il baratro in cui è precipitata Taranto) che nella sostanza nessuno abbia fatto quanto lui per ridurre l’inquinamento dell’Ilva. Ma la forma? Possibile che uno con il suo passato, una volta diventato presidente di regione, si sia sentito costretto a umiliarsi in quel modo davanti al peggiore dei potenti? Una delle conquiste di Giuseppe Di Vittorio non era forse consistita nel convincere i braccianti che non dovevano più togliersi il cappello quando passava il padrone?
Cosa c’entra il non aver “sfondato” nel mondo della cultura (non essere riusciti a diventare, seppure magari in tono minore, ciò che per il nord è stata una regione come l’Emilia-Romagna), con i gravi infortuni – come minimo formali – nella gestione del caso Ilva, con i problemi della sanità, con il pil pro capite così poco incoraggiante?
Non ho un osservatorio privilegiato nella stanza dei bottoni – ammesso che, per le forze che governano oggi il mondo, un accesso del genere serva a capire davvero la politica; è anzi possibile che, nel ventunesimo secolo, sia vero ciò che non lo era ancora del tutto quando Pietro Nenni, dopo la prima volta dei socialisti al governo nel 1963, ebbe a constatare: “Ci accorgemmo che, nella stanza dei bottoni, non c’erano bottoni”. Ma dall’intersezione di diversi scenari, usando come reagente la temperatura emotiva che li circonda, è magari possibile ricevere sensazioni almeno in parte veritiere. Mi sono così fatto l’idea che la Primavera pugliese abbia rallentato colpita alle gambe da una serie di concause. Elencherò prima le meno gravi. O, meglio, quelle consequenziali al problema che invece mi sembra principale, e che non riguarda solo la Puglia.
Uno. Il narcisismo. La certezza che essere migliori dei propri avversari politici (cosa probabilmente vera) sollevasse se stessi dal migliorarsi ulteriormente, cui è seguita la convinzione di avere poco da imparare da chi viveva fuori dall’acquario della politica. Questo, da parte dei vendoliani. Ma a un certo punto Vendola stesso deve aver creduto di essere un predestinato. Il contrario dell’epifenomeno di cui parlava anni prima. In maniera sana, tuttavia, mi pare abbia reagito inizialmente a questa falsa impressione più con spavento che con vanagloria. Ciò nonostante, il sospetto della predestinazione in qualche modo gli è rimasto addosso. E (pur smarcandosi dalla megalomania nella quale per fortuna non è mai caduto) ha cominciato a trasformarsi in vittimismo e agitazione – e in conseguente richiamo dei propri nei ranghi – quando le cose hanno preso a girare politicamente meno bene. Effetto prodotto: lo scambio tra fuori e dentro si è affievolito sempre più.
Due. Iniziare a chiudersi in se stessi, preferendo i fedeli non tanto ai bravi (non mancano nello staff di Vendola) ma ai diversi da sé che, per forza di cose, iniziano lì fuori a moltiplicarsi se governi tanto a lungo. Dopo il secondo mandato, il malumore degli esclusi dalle politiche di palazzo ha cominciato a farsi rumoroso. L’accusa strisciante era di aver sostituito lentamente una nomenklatura con un’altra. Prima al potere c’erano i vernacolieri delle orecchiette con le cime di rapa. Adesso rischiavano di esserci gli esegeti della taranta, dell’eolico, del negroamaro e delle start up. “Vanno avanti solo gli amici del circoletto”. Trovo odiosa l’abitudine italiana di giustificare la propria immobilità (o, più frequente, la mancanza di un talento spendibile) con le presunte colpe di un potere (partito politico, giornale, cricca…) che non ha voluto spezzare con noi il pane al tavolo istituzionale. E tuttavia, questi malumori, pur provenendo in gran parte da singoli che in un contesto migliore avrebbero comunque avuto un ruolo subalterno, un fondo di verità l’hanno lasciato. Altrimenti non si capisce come un indubbio aumento di qualità non si sia mai trasformato (la parola fantasma di questi anni, tanto più invocata quanto più diventa il sesso degli angeli) in vera eccellenza.
Tre, ma più importante. I pugliesi. La società civile. O forse meglio ancora la classe dirigente. E, più precisamente, una possibile futura classe dirigente che non se l’è sentita di giocarsi il tutto per tutto. Un aspirante Adriano Olivetti. Un’aspirante Peggy Guggenheim. Un aspirante Enzo Ferrari. Un aspirante Giangiacomo Feltrinelli. Magari facendo tutte le debite sproporzioni, misurando la distanza non solo geografica tra Ivrea e Cisternino. È vero che alla chiamata alle armi (e alle arti) dell’imprenditoria giovanile hanno risposto in tanti. Ma si trattava di gente che poteva mettere sul tavolo il proprio talento, non i propri capitali. Chi li aveva se li è tenuti, o non li ha buttati tutti sul piatto. Questa prudenza affligge l’Italia intera. Il non volersi mettere in gioco fino in fondo temo sia uno dei nostri peggiori mali di questi anni. Ma se c’era una regione – forse non solo a sud – in cui avrebbe dovuto succedere, questa era la Puglia. Colpevole una parte della società civile a non aver accettato quella che sarebbe dovuta essere la sfida della vita (o dentro, o fuori). Colpevole l’amministrazione Vendola a non averla a convinta in pieno a farlo.
La conseguenza è, da una parte, la chiusura di cui dicevo prima (cui segue un naturale isolamento, in mancanza del quale non ti saresti forse sentito così sguarnito da rivolgerti in quel modo ad Archinà/Riva), la cui ulteriore conseguenza – sul piano retorico – è il rischio di un passaggio da vera progettualità a storytelling. Dall’altra, nella società civile, non un rilancio o un segnale di protagonismo come avviso e monito a chi governa, ma un vittimismo di rimando, oppure il rancore (e anche questa, purtroppo, è la nostra eredità) di chi si sente sconfitto in partenza.
Così, se almeno una parte della diagnosi tocca qualche ferita aperta, cosa ci offrono queste primarie?
Da una parte Michele Emiliano, ex sindaco di Bari, per i sondaggi il favorito. Tra i tre pretendenti, sembra quello più voglioso di smantellare – semplicemente trascurandola – ciò che resta della Primavera. Troppo fumo e poco arrosto, agli occhi di un decisionista come lui. A Emiliano l’appellativo di “sceriffo”, come lo chiamavano a Bari, in fondo non dispiace. In campagna elettorale ha ribadito di immaginare il suo lavoro “non diverso da quello di un padre o una mamma, di un capo di azienda”, dunque non un primus inter pares. Mentre era sindaco, Emiliano si è fatto amare da una fetta di baresi cui assomiglia per pragmatismo e un mix di bonomia e grevità padronale considerati da alcuni garanzia di mani salde sul timone. Per dire: tempo fa, insultato da uno studente via twitter, Emiliano rispose con prontezza (”u’ chiù trmon di tutt sì tu”, insulto cui l’omologo italiano più vicino è “sei una sega”) e venne salutato da una lunga serie di retweet di concittadini in tripudio. Tanto che poté dichiarare subito dopo tutto gongolante: “Noi pugliesi siamo culturalmente egemoni in questo momento storico, e la parola ‘trmon’, questo atto di autoerotismo barese, è ormai un cult universale!”.
@crazyfor5sos_ u' chiú trimon di tutt sì tu, vid ce va alla scol sfalzin! E mittet u cappid che sta u sol!
— Michele Emiliano (@micheleemiliano) 3 Dicembre 2013
Non che Emiliano – come il Vendola di Archinà – si sia fatto mancare cadute di stile anche sul piano politico. Ad esempio, quando nominò assessore la ventiseienne Annabella De Gennaro, rampolla di una delle due più potenti famiglie di costruttori della città, la stessa famiglia da cui il sindaco accettò imprudentemente la famosa fornitura di pesce al centro del “cozza gate”.
Su quello che è stato uno dei core business della gestione Vendola (la cultura), Emiliano rischia comunque di essere un ritorno al passato. Cioè al folklore. La cultura non come strumento di emancipazione (e magari di un business veramente moderno), ma di consenso, al massimo divertimento. Il modo improvvisato con cui Emiliano cercò di candidare Bari a capitale europea della cultura (il Petruzzelli all’epoca era paralizzato, l’auditorium Nino Rota chiuso per lavori, idem il museo archeologico e il teatro Margherita, il tutto senza una biblioteca comunale e soprattutto senza che ci fosse un assessore alla cultura) temo sia emblematico.
A ogni modo Emiliano non nasconde (oltre a un flirt con l’Udc) l’inclinazione a considerare la cultura una vocazione secondaria. Credo immagini se stesso come un De Gaulle di sinistra per il quale i mandati Vendola son stati per certi versi un piacevole quarto d’ora di ricreazione, durante cui si sono preferiti i “frizzi e lazzi” alla soluzione di problemi più importanti come la sanità o la razionalizzazione del ciclo dei rifiuti. Non so se nell’epoca in cui l’industria immateriale è diventata egemone, certi panorami siano proprio da sottovalutare. Detto questo, per altri versi Bari sotto Emiliano è stata amministrata secondo molti in modo soddisfacente (cioè senza grossi danni), il che – su scala regionale – è già un biglietto da visita.
Guglielmo Minervini è il candidato che più dovrebbe sentire vicino chi rimpiange il meglio della Primavera pugliese. Allievo di don Tonino Bello, ha molto lavorato nel mondo del volontariato. Ha fatto egregiamente il sindaco di Molfetta dal 1994 al 2000. Ma soprattutto, come si diceva, da assessore regionale Minervini ha ideato le forme più originali di sostegno all’imprenditoria, la cultura e la formazione giovanili. Progetti indicati a esempio da tutte le amministrazioni italiane di sinistra come Bollenti Spiriti, Laboratori Urbani, Principi Attivi, Laboratori dal Basso, Ritorno al Futuro, sono sue creature.
La scommessa vinta da queste iniziative è consistita nel dare una possibilità a chi non immaginava neanche di averne diritto. Ragazze e ragazzi che rischiavano di non provarci neppure, potenziali neet del “tanto comunque il lavoro non c’è”, o peggio “c’è solo per chi ha amici nei posti giusti”, si sono ritrovati a presentare i loro progetti. I più convincenti hanno ricevuto finanziamenti che li hanno trasformati in piccolissimi imprenditori nel campo dell’agricoltura, della cultura, dell’informatica, della tutela del paesaggio. Ciò a cui i bandi puntavano, era favorire soprattutto un cambio di mentalità. Dare fiducia e soldi ai migliori (”Non ho idea dell’orientamento politico dei tanti che hanno vinto, né so per chi voteranno alle primarie. Questo non ha la minima importanza, dal momento che abbiamo dato un’occasione anche ai cosiddetti figli di nessuno”, ha detto di recente Minervini), ha significato per forza di cose scaraventare all’improvviso questi ragazzi giù dalla condizione d’immobilismo che, soprattutto al sud, gioca alle tre carte con il rancore e la disillusione, costringendoli finalmente adaffrontare, e risolvere – dal giorno dopo la vittoria del bando – un mucchio di problemi pratici.
Adesso, con diverse strategie, una simile iniezione di fiducia Minervini vuole provare a darla alle piccole e medie imprese che rappresentano la linfa del tessuto economico della regione, le quali – se solo fosse offerta loro una base di sviluppo favorevole, come la riduzione dell’irap, o un miglior accesso al credito – potrebbero magari decollare.
Meno d’impatto rispetto a Vendola sul piano mediatico, Minervini mi sembra però più equilibrato, e anche più affidabile sul lungo termine. Ha dato prova di inventiva, è culturalmente solido. Così come Emiliano punta sulla leadership robusta (renziano prima di Renzi), Minervini – per storia personale – è più incline all’inclusività. O questa battaglia la si vince tutti insieme o niente, potrebbe essere il suo motto. Il dilemma è se la società civile sia davvero pronta a rispondere alla chiamata. Ma è possibile oggi salvarsi accontentandosi di qualcosa di meno?
Su paesaggio, turismo e territorio la Puglia si è giocata in questi anni parte della sua immagine e della sua sostenibilità
Infine, Dario Stefàno. È lui il candidato di Sel. L’uomo scelto da Vendola per succedergli. Nato in provincia di Lecce, docente di economia all’università del Salento, Stefàno mosse politicamente i primi passi nella Margherita. Nel 2009, in seguito a un rimpasto della prima giunta Vendola, diventò assessore alle Risorse agroalimentari, e in questo ruolo è stato confermato anche per il secondo mandato. Nel suo programma si punta molto di conseguenza proprio sullo sviluppo dell’agroalimentare (tanto più che la Puglia è un marchio ormai riconoscibile anche all’estero) e sulla difesa del territorio. “Oggi nel mondo l’agricoltura sta addirittura svanendo”, ha dichiarato in campagna elettorale, “secondo l’Oms nei prossimi cinquant’anni la popolazione mondiale non sarà più in grado di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare. Dunque, o ci toccherà mangiare i computer o ci converrà tornare a produrre cibo. Nell’incontro che ho avuto a Confindustria ho detto che il modello di sviluppo di casa nostra dobbiamo sceglierlo noi. Ma per farlo dobbiamo capire che ambiente, cultura e turismo sono i capisaldi del sistema paesaggio. Non intendiamo escludere l’industria in questo quadro, ma gli impianti non devono soffocare il territorio e la sua vocazione”.
Stefàno si è più volte schierato contro lo Sblocca Italia che, a vantaggio del governo centrale, toglierebbe alle amministrazioni locali il potere di decidere sul destino del proprio territorio (”sono pronto ad assumere tutte le iniziative utili per tutelare le nostre coste oggi messe a rischio da campagne di trivellazioni rese più semplici con il decreto di Renzi”).
No dunque a multinazionali come Global Med e Schlumberger che vorrebbero trivellare il Salento alla ricerca degli idrocarburi, e alle quali lo Sblocca Italia spianerebbe la strada nonostante il parere contrario (oltre che degli scienziati preoccupati per la devastazione dell’ecosistema) anche dei comuni pugliesi direttamente interessati.
Su paesaggio, turismo e territorio la Puglia si è giocata in questi anni parte della sua immagine e della sua sostenibilità. Stefàno porta dunque avanti una battaglia condivisibile. Però. Però mi sembra anche che Stefàno sia il risultato di una scelta strategica degli ultimi mesi più che di una evoluzione che sarebbe dovuta durare anni. Il segno di un ritardo. La manifestazione, cioè, dell’incapacità di Vendola (al pari di tanti leader di altri schieramenti) di fare in modo che durante i due mandati crescesse al proprio fianco un erede naturale in grado a un certo punto anche di metterlo in difficoltà. A guardar bene, per statura e autorevolezza, se c’era uno che poteva fargli ombra questo era proprio Minervini, il quale forse non a caso corre da solo.
Una scelta, infine, quella di Stefàno da parte di Vendola, che – dopo il pasticcio della lista Tsipras alle europee – non aiuta quelli come me a capire benissimo in cosa si stia oggi trasformando Sel.
Scegliersi il proprio leader è la responsabilità cui domenica saranno chiamati – stando alle previsioni – circa sessantamila pugliesi. C’è da sperare che, comunque vada, i candidati collaborino in maniera sensata tra di loro in vista delle elezioni vere e proprie nel 2015. I tempi sono cambiati rispetto a quando Vendola vinse la prima volta, c’è la tempesta della crisi in cui avanzare limitando i danni. È una crisi così grave che farsi venire la tentazione di smantellare (anziché correggere, e rilanciare) il laboratorio che la Puglia è stata durante la sua piccola Primavera, potrebbe essere il deficit d’ambizione che la sinistra – senza rendersene completamente conto – è chiamata a superare per dare un segnale all’intero paese.
Con tutti i suoi limiti, e le imperfezioni, questo decennio ha avuto il merito di tirare definitivamente fuori la Puglia – con tutti i conseguenti rischi oleografici – dal cono d’ombra in cui ha riposato per tanto tempo. Eravamo talmente confinati alla periferia dell’immaginario nazionale, che Domenico Modugno dovette fingersi siciliano per poter lavorare. Forse non ce ne rendiamo conto, ma aver ritrovato l’orgoglio di essere pugliesi (la provincia per il tutto, non il provincialismo come inutile zavorra) è una delle conquiste per nulla scontate della cosiddetta Primavera. Significa anche sentirsi più italiani. Provinciali non solo, dunque, come Domenico Modugno da Polignano a Mare, ma come Federico Fellini da Rimini, come Giuseppe Fenoglio da Alba, come Adriano Olivetti da Ivrea, come Leonardo Sciascia da Racalmuto. È la ritrovata consapevolezza di questa identità – ma sempre fragile, la consapevolezza, ancora bisognosa di cure – la nostra risorsa migliore. Dimenticarsene, o fingere di farlo, sarebbe un crimine per tutti i pugliesi di destra e di sinistra.
Nicola Lagioia è uno scrittore. Nato a Bari nel 1973, si è trasferito a Milano nel 1997, e a Roma nel 1998. Ha vinto il premio Viareggio-Rèpaci nel 2010 con il romanzo Riportando tutto a casa. Il suo ultimo romanzo è La ferocia (Einaudi 2014)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it