Quando, il 9 agosto 2014, il diciottenne afroamericano Michael Brown è stato ucciso da un agente di polizia mentre, disarmato, camminava per le strade di un sobborgo di St. Louis – un altro agente a Phoenix ha ucciso il 2 dicembre il trentaquattrenne Rumain Brisbon, afroamericano, anche lui disarmato; stesso destino per il dodicenne afroamericano Tamir Rice, ucciso dalla polizia di Cleveland il 22 novembre mentre giocava a guardie e ladri con una pistola finta, ennesima vittima della secolare lotta degli Stati Uniti contro il proprio cuore di tenebra –, il pensiero di chi fruga nelle viscere della grande letteratura per avere una profonda interpretazione del presente è volato con troppa fretta al Buio oltre la siepe.
Al centro del capolavoro di Harper Lee c’è la vicenda di un afroamericano accusato ingiustamente di aver stuprato una ragazza bianca. Solo che – al contrario dei recenti fatti di cronaca – al termine del romanzo il vero colpevole viene smascherato, la pace sociale riconquista la cittadina dell’Alabama che fa da sfondo alla vicenda, l’indimenticabile Atticus Finch (il saggio avvocato antirazzista, padre dell’io narrante Scout) si candida a coscienza futura di un paese in cui saranno sempre meno le persone come miss Gates, maestra nella scuola di Scout, fervente antinazista (il romanzo è ambientato negli anni trenta) e tuttavia contraria all’uguaglianza tra bianchi e neri. Il buio oltre la siepe è un piccolo pilastro del novecento in cui la grazia della narrazione confonde a volte il reale con l’auspicabile.
Ecco allora che non l’ombra della pur maiuscola Harper Lee si allunga sul presente, ma quella – ancora più vasta, meravigliosamente ambigua, e più difficile da gestire – di William Faulkner. Con la forza dei suoi racconti, la prosa ricchissima, i paradossi ancora più difficili da digerire in tempi corrosi da nuove barbarie e vecchio politically correct (il costante ritrovare, proprio in fondo al pozzo del Male, conferme preziose sull’indistruttibilità dell’uomo) è William Faulkner il convitato di pietra di molte tra le narrazioni più interessanti degli ultimi anni.
L’attualità di uno scrittore inattuale
Dopo un periodo di lieve eclissi (la latenza in cui entrano i classici per consentirci, tempo dopo, di capire all’improvviso quanto il paesaggio circostante sia modellato dal loro movimento sotterraneo, cosicché ci sorprendiamo ad abitare ancora una volta il loro mondo, ma in maniera diversa dai lettori che ci hanno preceduto), è almeno dall’inizio dei novanta che quasi tutti i grandi scrittori contemporanei nei quali vibri una corda epica ammettono con gioiosa serenità il loro debito nei confronti di Faulkner. Ma anche film, serie televisive, album musicali continuano a trarre alimento dalla fonte di questo gigante. E sulle pagine culturali dei quotidiani, sulle riviste specializzate, il suo nome viene citato ormai come un modello quasi impossibile da raggiungere, e tuttavia indispensabile per chi voglia ritrovare la strada delle grandi narrazioni.
Ma a cosa si deve la travolgente attualità di questo scrittore così inattuale?
Da una parte il racconto della provincia, non solo meridionale.
Molti anni prima del Faulkner’s revival, fu Gabriel García Márquez a confessare quale importanza ebbe per lui la scoperta dello scrittore di New Albany. Poco più che ventenne, il giovane Gabriel non riusciva a trovare la propria voce. Scriveva racconti che ricalcavano le parabole di Kafka, ma tutto ciò che usciva dalla macchina da scrivere aveva un sapore poco autentico. Fino a quando (siamo all’inizio degli anni cinquanta) due eventi concomitanti sbloccarono la situazione: la lettura di Luce d’agosto e Assalonne Assalonne!, e il fatto di accompagnare la mamma in visita ad Aracataca, paesino in cui García Márquez era nato.
Lì, finalmente, la rivelazione: “Era come se quello che vedevo fosse già stato scritto, e tutto quello che dovevo fare era sedermi e copiare quanto era già lì, e che io stavo solo leggendo. Per ragioni del tutto tangibili ogni cosa si era trasformata in letteratura: le case, la gente e i ricordi. Solo una tecnica come quella di Faulkner mi avrebbe consentito di scrivere quello che vedevo. L’atmosfera, la decadenza, il calore del piccolo villaggio erano più o meno le stesse di quelle che avevo provato in Faulkner”. Senza Yoknapatawpha (la contea immaginaria nello stato del Mississippi in cui Faulkner ambienta le sue storie) non sarebbe mai nata Macondo.
Non è un caso se certe albe cineree venute fuori dalla penna di Faulkner quasi cent’anni fa sono quelle che attendiamo con paura in certe notti insonni controllando l’ora sul telefonino
Chi voglia emanciparsene, tradisce con coraggio i suoi maestri sulle corde dell’inclinazione personale – di contro, i detrattori del “realismo magico” considerano Macondo una sorta di Faulkner senza caffeina. Sin troppa durezza ci ha messo invece Cormac McCarthy, forse lo scrittore che negli ultimi anni meglio ha sfidato Faulkner sulla punta più vertiginosa del suo terreno: calare le Scritture, la provincia e un certo arcaismo in una lingua letteraria (e un sentimento) di estrema complessità, col risultato di scaraventare ciò che altrimenti suonerebbe antiquato in una dimensione futura, più avanzata rispetto a ciò che succede ogni giorno tra i grattacieli di New York, Hong Kong, Dubai – in La Strada non è un caso che Genesi e romanzo di fantascienza si incrocino di continuo; e meno ancora è un caso se certe albe cineree venute fuori dalla penna di Faulkner quasi cent’anni fa (”Il giorno albeggiava squallido e freddo, una mobile muraglia di luce grigia che veniva da nord-est e che, invece di sciogliersi nell’umidità, pareva disintegrarsi in granelli minuti e velenosi”) sono quelle che attendiamo con paura in certe notti insonni controllando l’ora sul telefonino.
Il premio Nobel cinese Mo Yan dichiara spesso nelle interviste che Faulkner (e in seconda battuta García Márquez) è lo scrittore che in assoluto l’ha influenzato di più. E l’ultimo Nobel statunitense per la letteratura, Toni Morrison, continuamente accostata a Faulkner, potrebbe essere la discendente ormai del tutto emancipata di Dilsey, l’autorevole domestica afroamericana della disastrata famiglia Compson in L’urlo e il furore. Ammiratore di Faulkner era Roberto Bolaño (il suo Messico popolato da scheletri danzanti, come quello di Malcolm Lowry, condivide l’oscura radice dalla quale fioriscono alcuni inquietanti personaggi del nostro), così allo stesso modo da Faulkner ha dovuto smarcarsi (altro premio Nobel) Alice Munro, la quale si è guadagnata la propria inconfondibile voce frapponendo tra sé e l’austera – e a volte comica – ieraticità protestante che risale tra i glicini di Yoknapatawpha, il cattolicesimo di Flannery O’Connor.
Se si passa dalla pagina scritta allo schermo, il Mississippi di Faulkner è evidente nella Lousiana di True Detective. Per non parlare di cos’è stata la New Orleans riletta da David Lynch in Cuore selvaggio. E il miglior Clint Eastwood degli ultimi vent’anni (Gli spietati, Mystic River) non ha dovuto anche lui pagare un simile tributo?
In tutto questo si può leggere un riflesso del declino delle metropoli in molte delle più influenti narrazioni (non solo letterarie) degli ultimi vent’anni anni. Alice Munro, Mo Yan, Bolaño, McCarthy, Toni Morrison, Elizabeth Strout: raccontano tutti la provincia, o al massimo i margini delle metropoli. Sembrano molto lontani i tempi di Colazione da Tiffany o di Manhattan Transfer (e ancor più la Chicago bizantina di Bellow, la Parigi di Balzac e Benjamin, la Berlino di Döblin, la Vienna si Musil; così come, tornando negli Stati Uniti, Newark o i villaggi sperduti del New England, e non New York, alimentarono il periodo magico di Philip Roth). L’ultimo cantore di New York come centro del mondo è forse allora il Bret Easton Ellis di American Psycho, ma lì c’è anche un punto di non ritorno.
Cosa può essere successo?
Rivelatorio, in tal senso, è un articolo che David Byrne pubblicò nel 2013 sul Guardian. Secondo l’ex cantante dei Talkng Heads, New York starebbe perdendo l’energia creativa avuta per oltre un secolo perché sta diventando sempre più sfrenatamente una città per ricchi. Gli artisti non possono più abitarci, la middle class ne è espulsa, il centro cittadino è più un luogo consacrato alla pubblicità e allo shopping che non a una vera esperienza di vita, o all’incontro tra diversi. Il concetto vale per altre città. Il potere, che in tante metropoli aveva giocato una partita appassionante con chi ne era ai margini, dando vita a inesauribili narrazioni (scontri, scalate sociali, mescolamenti, promiscuità, ribaltamenti), è come se in determinati contesti si fosse preso tutta la scena. È la logica dell’1 per cento così vincente in questo primo scorcio del ventunesimo secolo. E il potere, quando manca di contraltari, è simile all’occhio del ciclone che travolge tutti gli altri: vale a dire un luogo di stasi, un posto morto in cui non accade nulla che la letteratura ritenga degno di essere raccontato.
Ovviamente anche nelle metropoli si consumano le passioni di sempre. Solo, la griglia narrativa attraverso cui dovrebbero prendere corpo risulta depotenziata quanto più le variabili (la corsa verso il successo di Julien Sorel in Il rosso e il nero è più difficile in tempi di mobilità sociale ridotta al lumicino; allo stesso modo nessuno può lottare per la sopravvivenza in un luogo dove si entra solo con carta di credito senza limiti di spesa) crollano via via che il centro del potere non ammette contaminazioni. Il teatro della vita si sposta altrove, la letteratura non può che inseguirlo. Ecco allora che giganti come William Faulkner torniamo a vederli come fratelli maggiori.
Scossi da sentimenti, ambizioni, e paure che in certi contesti non trovano più le sponde necessarie ad acquisire la dimensione (per esempio letteraria) che ci consentirebbe di viverli fuori dall’angoscia di un’emotività priva di forma, sentiamo prossime storie in apparenza lontanissime. Non siamo avventurieri come il Thomas Sutpen di Assalonne, Assalonne! (il quale arrivò a Jefferson facendosi precedere da un carico di “negri nudi e selvaggi” che sconvolsero i residenti con la loro semplice presenza, pronto a costruire dal nulla il proprio impero sul più oscuro e inconfessabile dei segreti); non condividiamo il destino di Christmas, nero di pelle bianca, in fuga dalle proprie origini in Luce d’agosto; non abbiamo né avremo mai il problema di trasportare su un carrettino malmesso, insieme a tutta la famiglia, la nostra mamma appena deceduta per condurla verso l’ultima destinazione in un viaggio avventuroso nel cuore di un luglio torrido, sconvolto da terribili inondazioni; né mai saremo ossessionati come il Quentin Compson di L’urlo e il furore – forse il miglior epigono di Amleto mai apparso a tre secoli dall’originale –, il quale “amava non il corpo della sorella ma un certo concetto di onore dei Compson precariamente e (lo sapeva bene) solo provvisoriamente sostenuto dalla piccola e fragile membrana della sua verginità come una copia in miniatura dell’intero vasto globo della terra può stare in equilibrio sul naso di una foca ammaestrata. Che amava non l’idea dell’incesto che non avrebbe commesso, ma un certo concetto presbiteriano della sua eterna punizione”, tanto da arrivare a uccidersi per questo.
Il Mississippi del 1930, insomma, non ci appartiene. La contea di Yoknapatawpha (che di quel Mississippi è la trasfigurazione faulkneriana) invece sì, e in maniera potente – cambiato negli ultimi anni con violenza il paradigma su cui le nostre vite sono costrette a regolarsi, esattamente come l’Harry di Palme selvagge ci sentiamo chiamati a dover scegliere ogni giorno tra il dolore e il nulla.
A questo concorre anche la fine del postmoderno. Il tramonto di un mondo in cui il proliferare delle interpretazioni può fare a meno di una verità (poiché la verità, con la sua terribile forza, può a volte anche ingannarci restando in via del tutto temporanea in una dimensione sospesa, com’è accaduto almeno in parte in Europa occidentale e Stati Uniti tra gli anni ottanta e la fine dei novanta), ma soprattutto l’assenza di speranze di un mondo che molti grandi scrittori postmoderni hanno letto per errore con le lenti di una sorta di marxismo privo di escatologia (un mondo cioè perfettamente mappabile ma non modificabile, nemmeno attraversabile in verticale; insomma, una visione che in modo involontario presta il fianco all’Avversario) ha fatto sì che narrazioni come quella di Faulkner (e delle Toni Morrison, dei Roberto Bolaño, dei Cormac McCarthty… così tragiche e spinose ma così umane) ci ridessero di nuovo respiro e prospettiva, oltre che dignità.
Solo chi ha un sentimento così tragico dell’esistenza, può avere altrettanta fiducia nel nucleo irriducibile dell’uomo
In questo modo, tornando per esempio alla questione degli afroamericani, il mondo di Faulkner è più simile alla realtà rispetto a quello di Harper Lee. È molto più ambiguo e angosciante, perché non traccia una separazione netta tra razzisti e antirazzisti. Molti abitanti bianchi della contea di Yoknapatawpha disprezzano i neri nella misura in cui provano per essi meraviglia e stupore, fin quasi – proprio nel fondo dell’odio – a riconoscere dentro gli sguardi degli ex schiavi un elemento di superiorità e di bellezza intollerabile, e in se stessi una brama spaventosa di possesso o annientamento. È da qui che nasce il sentimento di paura che alla fine di Assalonne, Assalonne! porta persino un personaggio tranquillo come Shreve a fare un discorso in cui, in maniera paradossale, viene quasi profetizzato l’arrivo di un personaggio come Obama: “Io penso che col tempo i Jim Bond finiranno di conquistare l’emisfero occidentale. Certo non sarà proprio la nostra epoca e certo mentre si diffonderanno verso i poli sbiancheranno daccapo alla maniera dei conigli e degli uccelli, in modo che non spiccheranno tanto nettamente sulla neve. Ma saranno sempre Jim Bond; e così in poche migliaia di anni, io che ti guardo sarò disceso anch’io dai lombi di re africani. Adesso voglio che tu mi dica solo un’altra cosa. Perché odi il sud?”.
È questo, l’altro grande argomento di William Faulkner. Non tanto il sud in sé, ma una terra e una comunità che (come quasi tutti i Sud del mondo) sembra dover scontare in eterno le conseguenze di una ferita originaria. Per la terra di Faulkner questa ferita era anche una colpa e una vergogna e una sconfitta irreversibile – vale a dire la guerra di secessione (”Anni fa noialtri del sud facemmo delle nostre donne altrettante dame. Poi venne la guerra e fece delle dame altrettanti spettri. E così che altro possiamo fare noi, da gentiluomini che siamo, se non ascoltare loro, da spettri che sono?”).
In Faulkner i vivi e i morti dialogano continuamente tra di loro, e i fantasmi sono di casa. In certe pagine si ha addirittura l’impressione che lo scrittore parli da dopo morto, tanto è vasta la sua voce (”Da un po’ dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfìeld chiamava ancora l’ufficio perché così l’aveva chiamato suo padre – una buia stanza calda senz’aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati perché quand’era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l’aria mossa portassero calore e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che (come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di scrostarsi dalle persiane e sospinta all’interno come dalla forza del vento”). Ma, esattamente come accade con Edipo al cuore della letteratura tragica, è proprio una colpa e una ferita originaria a donare (oltre al dolore e alla vergogna) una consapevolezza e una profondità di visione che i fortunati abitatori dei mondi senza peccati imperdonabili non hanno. E questo, la letteratura del politicamente corretto (o del più stupido nichilismo, che ne è l’altro lato della medaglia) non arriva purtroppo a comprenderlo.
Infine. Solo chi ha un sentimento così tragico dell’esistenza, può avere altrettanta fiducia nel nucleo irriducibile dell’uomo. Il breve commovente discorso con cui Faulkner accettò il Nobel nel 1950 è emblematico. “Mi rifiuto di accettare la fine dell’uomo”, scrisse a un certo punto, “è fin troppo facile dire che l’uomo è immortale perché destinato a resistere: che quando l’ultimo din don del giudizio universale risuonerà svanendo dall’ultima inutile rupe sporgentesi sull’assenza di mare, nell’ultima sera rossa e morente, anche allora un suono resterà: quello della sua flebile ma inesausta voce che continua a parlare. Mi rifiuto di accettarlo. Io credo che l’uomo non si limiterà a resistere: egli prevarrà. Egli è immortale, non perché solo tra tutte le creature ha una voce che non si esaurisce, ma perché ha un’anima, uno spirito capace di compassione, di sacrificio e di resistenza. Il compito del poeta, dello scrittore, è di scrivere di queste cose”.
A chiunque, figlio di nessun tempo, convinto che disprezzo e sarcasmo siano le credenziali da incidere sulla linea tratteggiata dei documenti per avere cittadinanza del ventunesimo secolo, consiglio di volgere lo sguardo altrove. Chiunque, figlia o figlio del ventunesimo secolo, ritenga che nessun tempo meriti di negare all’uomo almeno una speranza, troverà in William Faulkner una splendida compagnia.
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