“Quando si guarda ai dati, l’immagine che ne emerge è incontrovertibile: i lavoratori stranieri, in particolare quelli arrivati in Italia da paesi che non fanno parte dell’Unione europea per svolgere lavori poco qualificati, hanno sofferto più di tutti la crisi di questi anni”, spiega Francesco Fasani, che alla Queen Mary University di Londra studia le conseguenze economiche e sociali dell’immigrazione. Lo ha certificato anche l’Istat: a fine 2014 il tasso di disoccupazione dei lavoratori stranieri era al 16,8 per cento, in aumento di sette punti percentuali rispetto al 2004, quando si fermava al 9,8 per cento, e cresciuto di oltre cinque punti dall’inizio della crisi.
Secondo Andrea Stuppini, rappresentante delle regioni nel comitato tecnico nazionale sull’immigrazione, “la contrazione è stata concentrata soprattutto nell’industria, mentre nel settore servizi alla persona l’occupazione ha sostanzialmente tenuto, anche grazie allo smaltirsi di richieste di regolarizzazione fatte in anni precedenti”. Tra gli uomini, solitamente impiegati proprio nell’industria, la crescita dei disoccupati è stata a due cifre: dal 5,6 per cento del 2004 al 16,1 per cento del 2014. Il doppio dell’aumento registrato tra gli italiani.
La ragione di questo divario sta nel fatto che, in Italia, uno straniero ha una probabilità sette volte più bassa di trovare un’occupazione qualificata rispetto a un italiano con le stesse caratteristiche educative e la stessa esperienza, mentre è quattro volte più probabile che questo lavoro sia a tempo determinato.
Per le donne straniere le cose vanno ancora peggio: trovare lavori qualificati è per loro nove volte meno probabile rispetto a donne italiane con uguali caratteristiche. Così il 59 per cento degli stranieri che lavorano finisce per vivere con meno di mille euro al mese, contro il 27 per cento degli italiani. I lavoratori stranieri formano insomma una sorta di “cuscinetto” per gli imprenditori: poiché lavorano con contratti spesso precari, e comunque a basso costo, sono i primi a essere licenziati nei periodi di difficoltà.
L’andamento trimestrale dei tassi di occupazione conferma che il numero di stranieri impiegati varia a livello stagionale in misura molto maggiore rispetto a quella degli italiani. Ma l’effetto è macroscopico per gli immigrati irregolari, che sfuggono alle rilevazioni e lavorano in nero, senza godere di alcuna protezione. Tra gli irregolari che a Milano si sono rivolti al portello di assistenza del Naga, la percentuale di disoccupati è aumentata dal 40 per cento del 2009 al 61 per cento del 2013. Più di venti punti percentuali in quattro anni.
“È certo che, dentro questa platea, ci sono anche immigrati regolari che hanno perso il lavoro e a cui, per gli effetti della legge Bossi-Fini, è scaduto il permesso di soggiorno”, spiega Fasani. “In principio questi lavoratori dovrebbero rientrare nel proprio paese e cercare da lì una nuova occupazione in Italia, ma il modo in cui oggi sono strutturati i decreti flussi rende molto più conveniente rimanere illegalmente sul territorio e sperare in una regolarizzazione”.
Con l’effetto collaterale rappresentato dalla marginalizzazione di una fetta crescente di lavoratori stranieri, spinti ad accettare occupazioni via via più precarie: sempre secondo il Naga, tra gli irregolari i tre quarti hanno lavori saltuari o ambulanti, mentre la quota di lavoratori che percepiscono il proprio rapporto come permanente è dimezzata: dal 52 per cento del 2008 a meno del 25 per cento del 2013. Una situazione che non solo ha ripercussioni sociali negative, ma che è persino inefficiente dal punto di vista economico. Perché il contributo fiscale netto dei lavoratori stranieri alle casse dello stato italiano è di circa 3,9 miliardi di euro l’anno e quello al pil pari a 123 miliardi: un piccolo tesoretto che si aggiunge ai risultati di un recente studio statunitense, e che mostra come l’integrazione di un lavoratore straniero nel sistema produttivo generi 1,2 nuovi lavori, contribuendo a un aumento dei salari nell’economia locale.
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