“I greci stanno spendendo i nostri soldi” è stato ripetuto durante le lunghe settimane che hanno condotto alla chiusura del secondo bailout di Atene, al referendum del no, alla capitolazione di Tsipras e alle nuove elezioni del 20 settembre.

È in questi termini che si è incolonnata una narrazione, quella della crisi europea con epicentro ellenico, che ha contribuito a trasformare la crisi da fatto economico e finanziario in allegoria moralistica in cui personaggi sono diventati caricature di se stessi: i tedeschi risparmiatori, gli ingordi mediterranei, i greci spendaccioni che pagano le baby-pensioni con i denari prestati dai contribuenti degli altri paesi.

Una descrizione confermata dai governi e che è rientrata nei discorsi fatti per giustificare delicate scelte politiche compiute nella recente storia dell’Unione europea. Ma che cosa c’è di vero? La risposta è: poco.

Settimane di copertura mediatica della vicenda hanno convinto l’opinione pubblica che la Grecia “ci deve” 40 miliardi di euro, 46 alla Francia, 60 alla Germania.

Eppure i bilanci dei paesi dell’eurozona hanno risentito pochissimo del peso del secondo salvataggio di Atene, e del terzo ancora in attuazione. Anzi, l’architettura dei salvataggi è tale per cui, salvo catastrofi impreviste, il saldo finale sul bilancio dei singoli stati nazionali – escluso quello greco – potrà essere addirittura positivo.

Primo salvataggio: i prestiti bilaterali del 2010

Come ha spiegato Roberto Perotti, docente di economia politica all’università Bocconi e consigliere economico del premier italiano Matteo Renzi, il programma internazionale di aiuti del 2010 si basò su prestiti bilaterali, perché l’Europa, colta di sorpresa, non aveva ancora a disposizione un meccanismo per intervenire in maniera centralizzata contro possibili crisi finanziarie dei paesi membri.

In quel caso, l’Italia contribuì al “prestito agevolato alla Grecia” con dieci miliardi di euro, raccolti attraverso emissioni decennali di titoli di debito pubblico – che aumentò quindi in maniera proporzionale, proprio come accaduto per gli altri 13 paesi che parteciparono al salvataggio. “Ma anche gli attivi dello stato italiano aumentarono dello stesso ammontare”, spiega Perotti, “pari al credito risultante verso la Grecia”.

Il fondo europeo di stabilità finanziaria doveva avere carattere temporaneo

Ovviamente, i titoli di stato italiani rendono ai sottoscrittori un interesse che, in quel periodo, oscillava tra il 4 e il 7 per cento – mentre la Grecia restituirà all’Italia un importo con tassi d’interesse più bassi.

Questo significa che il “costo” per i contribuenti italiani, come per gli altri che vivono nei paesi dell’eurozona che hanno concesso prestiti bilaterali, sarà – al netto della differenza nei tempi di scadenza di questi debiti – pari alla differenza tra i rendimenti dei due titoli. Una cifra comunque molto lontana dagli oltre 107 miliardi totali comunemente contabilizzati come “prezzo” del primo salvataggio greco.

Secondo salvataggio: la partecipazione al fondo salvastati

Il secondo salvataggio, cominciato il 14 marzo 2012 e scaduto il 30 giugno scorso, ha avuto un ammontare pari a 164,5 miliardi di euro. Di questi, 19,8 sono stati forniti dal Fondo monetario internazionale e 144,7 dai paesi membri dell’eurozona, non più attraverso prestiti bilaterali diretti ma tramite il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fefs).

Il Fefs era nato nel 2010 come strumento intergovernativo dal carattere emergenziale e temporaneo, con il compito di prendere denaro a prestito dai mercati finanziari internazionali sulla base di garanzie emesse dai 17 stati dell’eurozona.

La sua capacità finanziaria era di 440 miliardi di euro, e il fondo ha emesso obbligazioni per 180 miliardi (avendo partecipato anche ai salvataggi di Portogallo e Irlanda). La quota italiana – pari al 19,22 per cento – ha fatto sì che il debito pubblico italiano sia aumentato di 34 miliardi ma, ancora una volta, “gli attivi sono aumentati nella stessa misura”.

Infatti, a fronte di un debito nei confronti del mercato finanziario contratto attraverso il Fefs, a bilancio è stato aggiunto un credito, da riscuotere dalla Grecia attraverso il fondo. Niente come questo esempio rende più chiara la differenza tra “spese vive” e “garanzie”: la somma delle garanzie massimali messe a disposizione del Fefs dai paesi dell’eurozona era infatti di 779,8 miliardi, 211 dei quali provenienti dalla Germania.

Nel 2012 questa cifra avrebbe rappresentato il 70 per cento di tutto il bilancio del governo federale tedesco. Ecco di quale ordine di grandezza si sbaglia chi parla dei “nostri soldi spesi dai Greci”. In questo caso, eventuali costi si materializzerebbero nella misura in cui il castello di debiti dovesse improvvisamente crollare in maniera disordinata.

Ma proprio questo rende reciproco l’interesse a ripetere i salvataggi ed evitare la catastrofe – da parte dei creditori ancor prima che da parte del debitore greco.

Terzo salvataggio: il meccanismo di stabilità europeo

Il terzo programma di salvataggio è partito con l’accordo del 14 agosto 2015 e prevede prestiti alla Grecia fino a 86 miliardi di euro tra il 2015 e il 2018. Questi saranno mobilitati attraverso il meccanismo di stabilità europeo (Esm), il fondo permanente chiamato anche salvastati. L’Esm è un fondo con capitale proprio, e la parte versata dagli stati è pari a 80 miliardi di euro.

Questi soldi arrivano all’Esm sotto la forma di “paid-in capital”, cioè il denaro che di solito un’azienda riceve dai suoi soci o azionisti per realizzare il suo mandato: la quota italiana di 14 miliardi pesa dunque sul debito pubblico italiano, mentre, all’attivo, la contabilità statale mette le quote di azioni dell’Esm.

Altro che perdita, il salvataggio greco rischia di essere un affare

Ed è questo meccanismo a rendere l’Esm diverso dagli esperimenti precedenti. Proprio in virtù del suo capitale, infatti, l’Esm acquista sul mercato finanziario titoli a condizioni molto severe, ma senza più relazione con i conti pubblici dei paesi membri. I debiti accesi dall’Esm hanno un rating a tripla A presso molte agenzie internazionali.

Così, la differenza tra il tasso di interesse pagato ai mercati (molto basso) e quello ricevuto dagli stati membri dal fondo sui propri prestiti (più alto) crea una differenza positiva redistribuita agli azionisti: se i prestiti saranno ripagati in toto, l’Italia potrebbe anche guadagnarci.

Inoltre, i 58 miliardi di aumento totale del debito, sempre a fronte di crediti contabilizzati, causato dalle operazioni sopra descritte, ha contribuito – insieme agli interventi della Bce – a stabilizzare, seppure temporaneamente, l’eurozona nel suo complesso, quindi a diminuire la percezione del rischio-contagio e, così, ad abbassare i tassi di interesse sul debito pubblico di tutti i paesi membri, e generando grandi guadagni per le finanze pubbliche.

Altro che perdita, il salvataggio greco rischia di essere un affare. Riconoscere questa realtà contabile potrebbe aiutare a uscire dalle gabbie ideologiche e stimolare riflessioni su soluzioni realistiche alla crisi, volte a rendere sostenibile la posizione finanziaria di Atene all’interno di un’Europa più solidale, dove creditori e debitori capiscano di navigare le stesse acque o, perfino, di essere di fatto la medesima entità.

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