Una sessantina di anni fa, in una rivista di antropologia, lo studioso statunitense Horace Miner descrisse gli esotici costumi dei nacirema, un popolo famoso per i suoi rituali rivolti a negare l’inevitabilità della morte.
In ogni casa, spiegava Miner, c’era un piccolo altare: una cassetta attaccata al muro piena di “amuleti e pozioni magiche” per prolungare la vita, e due volte all’anno i membri della tribù si recavano in visita ai “santoni della bocca” che avevano il potere di far ringiovanire i denti. I nacirema mostravano una “diffusa avversione per l’aspetto naturale del corpo e le sue funzioni” e avevano inventato procedimenti come quello “per ingrandire il seno delle donne che lo avevano piccolo e rimpicciolire quello delle donne che lo avevano grande”.
Forse vi chiederete che genere di individui verrebbe fuori da una cultura che nega in questo modo la realtà, almeno fino a quando non avrete capito lo scherzo (provate a leggere il nome al contrario). Ma il problema non sono solo i nacirema (o americani). Tutti noi, presunti esseri razionali moderni, costruiamo la nostra vita in modo tale da illuderci il più a lungo possibile che non moriremo. Almeno questa è l’impressione che si ha leggendo The worm at the core, sintesi di decenni di ricerche sulla “teoria della gestione del terrore” (Tmt). Questa teoria analizza tutti gli stratagemmi che usiamo per poter sopportare l’idea di essere mortali. Gli autori del libro sono i pionieri della Tmt: Sheldon Solomon, Jeff Greenberg e Tom Pyszczynski.
È abbastanza facile capire come il motivo dietro la religione, l’arte, la procreazione e la ricerca del successo sia il tentativo di esorcizzare la morte. Molto più spaventoso è scoprire che quest’ansia si nasconde in molti altri aspetti della nostra vita quotidiana. Nel corso di uno studio è emerso che se si ricordava a un giudice la sua condizione di mortale, questo si dimostrava più severo nei confronti di una presunta prostituta. In una ricerca tedesca, i soggetti intervistati davanti a un cimitero hanno mostrato una più spiccata tendenza nazionalistica a preferire il cibo e le automobili del loro paese. È stato anche provato che molti sono convinti che gli aerei con persone famose a bordo abbiano meno probabilità di precipitare, come se la loro aura di immortalità ci proteggesse tutti.
Ci sforziamo disperatamente di non pensare che siamo animali, soggetti come ogni altra creatura al normale ciclo della vita. Quindi le persone costrette a pensare alla morte accettano più facilmente che altri animali siano uccisi per essere mangiati o per aiutare la ricerca: è come se volessero accentuare la differenza tra noi e loro. Tendono anche a usare degli eufemismi per descrivere le funzioni corporali (“la popò”). Questo potrebbe spiegare anche perché alcuni negano il cambiamento climatico, come se avessero il desiderio inconscio di sentirsi immuni dall’ordine naturale delle cose, perché per le creature soggette a quell’ordine la vita può finire solo in un modo.
Nei circoli tecnofuturisti si parla di allungare di molto la vita umana, se non addirittura di “risolvere” il problema della morte. Ma anche se ci riuscissimo, osservano gli autori del libro, forse avremmo ancora più paura della morte, perché comunque non potremmo escludere gli incidenti. E la possibilità di morire in un incidente aereo a cinquant’anni non sarebbe ancora più insopportabile se tutti vivessero fino a 300? Alla fine, l’unica soluzione potrebbe essere quella proposta da Albert Camus, che l’aveva scarabocchiata ai margini di uno dei suoi quaderni di appunti: “Facciamoci una ragione della morte. Dopo di che tutto è possibile”.
Be’, è bene sapere che abbiamo un obiettivo.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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