La prima cosa che deve fare chi frequenta un corso di storia dell’arte di Jennifer Roberts a Harvard è scegliere un’opera d’arte, andare dove è esposta e guardarla per tre ore intere. Se questo non vi terrorizza almeno un po’, ho il sospetto che non siate normali: in quest’epoca veloce e impaziente, il solo pensiero è sufficiente a renderci irritabili e irrequieti.

Se mi metteste davanti a un quadro per tre ore, prima o poi finirei per scorrerci il dito per controllare se è stato aggiornato. Roberts lo sa benissimo: il punto, scrive lei, è proprio che “è un tempo fastidiosamente lungo”. Non si aspetta che i suoi studenti lo passino tutto in rapita ammirazione: il suo scopo è proprio farli arrivare a quell’irrequietezza, sopportarla e superarla. Solo allora vedranno nell’opera d’arte cose che non avrebbero mai immaginato che ci fossero.

L’impazienza sembra dominare sempre più la nostra vita – con questo intendo probabilmente dire la mia vita – in modo sempre più sottile e inquietante. In un recente studio l’economista Ernesto Reuben e la sua équipe hanno offerto ai partecipanti di scegliere tra ricevere un assegno il giorno stesso o uno più sostanzioso due settimane dopo. Come nelle ricerche precedenti, circa due terzi dei soggetti ha optato per avere la cifra più bassa subito. Ma la cosa sorprendente è stata che più di metà di loro ha poi fatto passare più di due settimane prima di incassare l’assegno, anche se erano più di cento sterline. Tanto valeva che aspettassero di avere più soldi.

In un mondo di gratificazioni quasi istantanee ormai cominciamo a pensare che ci spettino di diritto

A prima vista, sembra strano che l’impazienza (la voglia di avere la cifra più bassa immediatamente) possa coesistere con la procrastinazione (il ritardo nell’incassarla). Invece è perfettamente sensato. Sono entrambe manifestazioni di quello che gli psicologi chiamano preferenza per il presente, la scelta di avere gratificazioni ed emozioni piacevoli subito piuttosto che dopo. L’impaziente che intasca l’assegno al volo non sopporta di dover aspettare per avere qualcosa di più, mentre quello che non lo incassa non sopporta la seccatura di andare in banca.

E non stentiamo a credere che, con la tecnologia che ci spinge ad andare sempre più in fretta, questa incapacità di sopportare un disagio stia aumentando. Ci pesa di più aspettare i trenta secondi del microonde che l’ora del forno, e ci innervosiamo di più quando una pagina web impiega dieci secondi a caricarsi che non quando un bibliotecario ci dice che il libro che gli abbiamo chiesto sarà disponibile tra tre settimane. Forse è perché in un mondo di gratificazioni quasi istantanee ormai cominciamo a pensare che ci spettino di diritto.

Storicamente, fa notare Roberts, la pazienza è sempre stata questione di “adattarsi alla necessità di aspettare”, un modo per prendere atto che non eravamo noi a controllare il mondo. Ma adesso che nella maggior parte dei casi aspettare non è più necessario, la pazienza è diventata un modo per controllare il mondo o, per usare le sue parole, “i ritmi della vita contemporanea che altrimenti controllerebbero noi”.

Da questo punto di vista, rimanere tre ore davanti a un quadro non è affatto indice di passività. È un atto sovversivo. Oltre l’impazienza, se si impara ad aspettare che passi l’irrequietezza, c’è la vera forza.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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