Secondo Big magic, il nuovo libro di Elizabeth Gilbert sulla creatività, il motivo per cui non abbiamo ancora scritto il nostro romanzo – o non abbiamo imparato a lavorare al telaio, a coltivare bonsai o a esprimere in qualche altro modo il nostro lato artistico – è quasi sicuramente la paura.
Si tratta di un luogo comune della cultura dell’autoaiuto che ho sempre trovato difficile da accettare. Può essere spaventoso sentirci dire che abbiamo una malattia grave, o non avere i soldi per mantenere la nostra famiglia. E immagino che possa esserlo anche accorgerci che abbiamo finito l’ossigeno mentre stiamo esplorando il Calavera, il complesso di grotte sottomarine che si trova al largo delle coste messicane. Ma può essere spaventoso aprire un quaderno e buttare giù qualche idea per scrivere un racconto?
Punto d’incontro
In questo caso parlare di paura mi sembra un’esagerazione, una parodia del cliché dell’artista tormentato. Fa tornare alla mente l’aneddoto (probabilmente apocrifo) di Salvador Dalí che prende a calci un cieco per strada. “Perché lo ha fatto?”, chiede gemendo l’uomo. E Dalí risponde: “Perché non provi il dolore di vedere”.
Ma, con grande riluttanza, sono arrivato a concludere che il mio scetticismo era sbagliato. Molti sono spaventati all’idea di esprimersi in modo creativo (e poi, chi sto prendendo in giro? Ho provato tante volte anch’io il panico di trovarmi davanti a una pagina bianca).
E la cosa non è neanche particolarmente sorprendente, perché il lavoro creativo è il punto di incontro di tante paure che sono profondamente radicate in tutti noi: la paura del ridicolo, del rifiuto sociale, di scoprire che non abbiamo talento, per non parlare di quella di andare a smuovere emozioni che rimuoviamo accuratamente da anni.
Il problema non è se è vero che la creatività ci spaventa, ma cosa fare quando questo succede
La paura della creatività risale alla nostra prima infanzia: i genitori spesso soffocano la fantasia dei bambini, e gli studi del settore dimostrano che in genere agli insegnanti non piacciono gli alunni creativi, per quanto si sforzino di sostenere il contrario. Alcuni neuroscienziati affermano addirittura che la sfiducia nei confronti della creatività faccia parte del nostro percorso evolutivo: tranne che nei momenti di crisi, sperimentare qualcosa di nuovo comporta ben pochi vantaggi ai fini della sopravvivenza.
Il problema, allora, non è se è vero che la creatività ci spaventa, ma cosa fare quando questo succede. Molti consigliano di vincerla a tutti i costi, “di prendere a calci la resistenza”, per usare le virili parole dell’autore di The war of art Steven Pressfield.
Ma come per qualsiasi emozione, partire all’attacco della paura è controproducente, perché la mette al centro della nostra attenzione e rischia di rafforzare l’idea che sulla creatività si devono condurre battaglie all’ultimo sangue.
Probabilmente è vero, come scrive Pressfield, che la paura può essere un segnale utile. “Più un lavoro o una vocazione ci spaventano, più possiamo essere sicuri che dobbiamo farlo. Ma questo non significa che la creatività abbia un senso solo se la odiamo. Come dice Gilbert: “Troppi artisti sono ancora convinti che l’angoscia sia l’unica vera esperienza emotiva. Non sia mai che qualcuno provi piacere a seguire la vocazione che ha scelto”.
Per quanto possa sembrare banale, preferisco di gran lunga l’approccio di Gilbert, che essenzialmente consiste nel trattare la paura come una sorellina minore o un animale domestico che amiamo anche se mette alla prova la nostra pazienza.
Il trucco, se ci riesce, non è quello di ignorarla, o di superarla senza ascoltare i suoi consigli, ma di farle spazio. Gilbert usa la vecchia ma sempre utile analogia con il viaggio in automobile. La paura viaggia sempre con noi, e questo va benissimo, ma non significa che dobbiamo affidarle il volante.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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