Qualche giorno prima di Natale, quasi vergognandomi, mi sono messo a dieta di mezzi di comunicazione: ho cancellato l’iscrizione a siti di notizie e ho smesso di seguire – o in altro modo interrotto – i contatti con diverse persone, perché mi ero accorto che non facevano altro che deprimermi.
L’ho vissuta come una sconfitta. Ho sempre criticato la convinzione diffusa che “dobbiamo smettere di leggere le notizie” perché ci deprimono e ci distraggono: se nel mondo succedono cose terribili, pensavo, non voglio vivere in una bolla artificiale di privilegio e ottimismo, voglio guardare in faccia la realtà.
Ma a un certo punto delle incessanti tragedie del 2015, ho cambiato idea. I giorni in cui leggevo di un altro omicidio di massa, di un nuovo naufragio di migranti disperati o di qualsiasi cosa che riguardasse Donald Trump, finivo per essere più avvilito, irritabile e distratto. E, inutile dirlo, non sfruttavo questo malessere per migliorare la vita sul pianeta, ero solo più arrabbiato con il mondo, finivo per incarnare il famoso adesivo per paraurti: “Dove andremo a finire di questo passo?”.
Uno dei problemi è che resteremo preoccupati o arrabbiati pur sapendo che i mezzi di informazione si concentrano troppo sulle notizie negative o terrificanti.
Timori ingiustificati
Le persone come me disprezzano Trump e il Daily Mail perché diffondono timori ingiustificati. Sappiamo che il rischio di morire nel traffico è molto più alto di quello di morire in un attentato terroristico. Forse sappiamo anche che negli Stati Uniti gli episodi di violenza armata sono in calo, che nel mondo le disuguaglianze economiche stanno diminuendo, e che non abbiamo sufficienti prove di un aumento della brutalità della polizia (la vediamo solo di più grazie agli smartphone). Ma, a quanto sembra, la parte del nostro cervello che sa queste cose non è la stessa che decide se dobbiamo essere ottimisti o disperarci. È perfettamente possibile sapere che le cose vanno abbastanza bene e al tempo stesso avere la sensazione che tutto sia un disastro.
Ci sembra che il lavoro sia infinito, mentre le nostre capacità sono finite
Questo fenomeno ha un curioso parallelo nella convinzione di avere sempre tutti “tante cose da fare”. Secondo i dati sul tempo libero, non siamo molto più impegnati che in passato, ma abbiamo la sensazione di esserlo perché – almeno per chi lavora nel campo della “conoscenza” – non c’è limite al numero di email che possiamo ricevere, delle cose che ci possono chiedere, o delle ore al giorno in cui possiamo essere in contatto con il nostro ufficio.
La compassione affievolita
Ci sembra che il lavoro sia infinito, mentre le nostre capacità sono finite, quindi inevitabilmente ci sentiamo sopraffatti. Allo stesso modo, la tecnologia ci mette sempre più in contatto con le sofferenze del mondo, che sono potenzialmente infinite, fino a quando non diventa strutturalmente inevitabile che ce ne sentiamo schiacciati, anche se non è detto che le cose stiano andando peggio del solito. E questo non si limita a intristirci. Provoca anche “l’affievolirsi della compassione”, il ben noto effetto secondo il quale il nostro desiderio di aiutare i meno fortunati diminuisce con l’aumentare del loro numero.
Questo non è un buon motivo per evitare del tutto di informarsi: io di sicuro non lo faccio, e non dovreste farlo neanche voi (fidatevi del consiglio di un giornalista imparziale). Ma è un buon motivo per sfrondare con cura il flusso di notizie, trovando un sano equilibrio tra l’importanza di rimanere informati e un inutile scoramento che non aiuta nessuno. Non dobbiamo chiudere gli occhi davanti alla realtà. Ma esporsi 24 ore su 24 e sette giorni su sette a tutte quelle che pretendono di essere notizie, oggi non significa affrontare la “realtà”, significa farsene un’idea fasulla e molto, molto stressante.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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