Ogni paio di mesi, i mezzi d’informazione ci raccontano la storia di una coppia di ricchi dall’aria triste che dicono di non farcela più e di voler lasciare il paese per trasferirsi dove la vita costa meno: non possono più permettersi l’aumento delle rette scolastiche, la seconda casa e i due viaggi all’anno per andare a sciare a St Moritz.

È l’equivalente giornalistico del pasto dei leoni allo zoo, in cui le due persone ignare vengono usate come pezzi di carne. Per chi dal punto di vista economico è abbastanza fortunato – come me e forse anche voi – è l’occasione per ridere della mancanza di senso della realtà di chi è estremamente fortunato, il che è meglio che ridere dei poveri. Ma io mi sento comunque in colpa, perché chiunque conosca un po’ di psicologia sa quanto siamo adattabili: prima ancora di accorgercene, cose che un tempo consideravamo un lusso, ci sono diventate indispensabili. Potete ridere quanto volete, ma non c’è numero di vacanze in montagna o di appartamenti ai quali può sembrarci impossibile rinunciare.

E la psicologia umana fa scherzi anche peggiori di questo: possiamo essere perfettamente consapevoli che i nostri lussi sono lussi, ma comunque fare di tutto per cercare di mantenerli.

In un saggio pubblicato di recente sul New Yorker, il consulente finanziario Gary Sernovitz racconta il tormento di appartenere alla Global services, la più alta categoria di frequent flyer della United airlines, che presenta vantaggi come il passaggio alla prima classe, la possibilità di saltare la fila ai controlli di sicurezza in aeroporto e il trasferimento in limousine da un terminal all’altro.

Sernovitz si è autodiagnosticato un “disturbo d’ansia di rimanere nella categoria”, cioè il bisogno compulsivo di fare di tutto per non perdere quei privilegi, anche se la United si rifiuta di svelare su quale base li concede. Uno dei sintomi di questa malattia sono i viaggi inutili, voli fatti solo per guadagnarsi il favore degli dèi della compagnia. Perché non rilassarsi e se si perdono quei vantaggi, pazienza? A quanto sembra, non è possibile.

Se siamo costretti a sacrificare una parte della nostra qualità di vita, presto non ne sentiremo più la mancanza

Questo meccanismo psicologico, detto “adattamento edonico”, è ben noto, ma secondo me non ci rendiamo conto fino in fondo del ruolo che svolge nella nostra vita, di quante nostre piccole e grandi scelte dipendono fondamentalmente dal fatto che sbagliamo a giudicare le cose senza le quali non potremmo vivere. La prossima volta che riderete dei problemi dei super ricchi, pensate alla vostra vita, nella quale ci sono sicuramente molte cose che tecnicamente non vi sono indispensabili. Soffrireste se doveste rinunciarci? Ovviamente sì, e non c’è motivo di credere che per chi ha più di voi sia diverso.

Ma la cosa positiva, della quale le persone in preda all’adattamento edonico non si ricordano mai, è che funziona anche al contrario. Se siamo costretti a sacrificare una parte della nostra qualità di vita, presto non ne sentiremo più la mancanza. Come fa notare lo psicologo Adam Altee, questo è uno dei motivi per cui le persone che minacciano di lasciare gli Stati Uniti nell’eventualità che venga eletto Donald Trump non lo faranno: sopravvalutiamo sempre l’intensità e la durata del dolore che proveremo se succederà qualcosa che temiamo.

Dovremmo ricordarcelo quando stiamo valutando una scelta di vita che potrebbe mettere in pericolo il nostro benessere materiale: quasi sicuramente stiamo dando troppo peso all’aspetto negativo. Probabilmente ne consegue anche che, vivendo a New York, dovrei essere meno preoccupato al pensiero di una presidenza Trump. Ma su questo ci sto ancora lavorando.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

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