Presumo che se veniste a sapere di qualcuno così psicologicamente disturbato da conservare compulsivamente ricevute, lattine vuote, vecchie confezioni di spazzolini da denti, francobolli e unghie dei piedi tagliate, quell’uomo vi farebbe pena. Vi rattristerebbe sapere quanto gli è difficile avere una relazione con gli altri, e che chiama “moglie” il registratore che porta sempre con sé.

Anime così travagliate sono destinate a vivere ai margini, contribuendo ben poco alla società. Tuttavia, qualsiasi cosa si pensi della sua arte, è difficile concludere che Andy Warhol, che faceva tutte queste cose, non abbia dato nessun contributo al mondo.

La giornalista scientifica Claudia Kalb ha appena pubblicato un libro intitolato Andy Warhol was a hoarder (Andy Warhol era un accumulatore), nel quale porta ampie prove a sostegno dell’affermazione del titolo, e del fatto che secondo lei Marilyn Monroe era affetta da un disturbo di personalità borderline, che Abramo Lincoln era depresso e George Gershwin era iperattivo, tanto per citare alcuni esempi. Sarebbe bastato un piccolo scarto della storia, e forse Warhol sarebbe stato famoso solo per un quarto d’ora, come protagonista di un reality show per voyeur.

Tutto questo non fa che ricordarci che la malattia mentale è un costrutto sociale, che la linea di separazione tra la malattia e il talento, tra la follia e il genio, non è poi così netta (nella nuova economia della tecnologia, qualcuno sostiene che alcuni sintomi dell’autismo possono aprire la strada al successo e alla ricchezza).

Stigma e romanticismo della follia

Quello che vuole dimostrare Kalb non è che le persone di cui parla sono diventate famose nonostante i loro disturbi, ma che i loro disturbi – se poi questa è la parola giusta – hanno contribuito a fare di loro quello che sono state. Non dev’essere stato divertente essere Lincoln. “Se quello che provo fosse equamente distribuito tra tutta la famiglia umana”, scrisse una volta a un amico, “non ci sarebbe una faccia allegra sulla terra”. Secondo Kalb, questa sua estrema sensibilità gli faceva sentire la carneficina della guerra civile in modo molto profondo e personale; non possiamo fare a meno di chiederci come sarebbero andati i conflitti più recenti se al timone ci fossero stati introversi depressi piuttosto che energici ottimisti.

Nella creatività quello che conta è la pazienza, non il delirio

Ma la malattia mentale oltre a essere stigmatizzata è sempre stata anche romanticizzata: ci piace pensare che i nostri geni siano “toccati dal fuoco”, come dice Kay Redfield Jamison nel libro in cui analizza i rapporti tra creatività e psicosi maniaco-depressiva. E sembra proprio che un collegamento ci sia. Ma, come fa notare il docente di scrittura creativa Robert Boice, quando si tratta del nostro lavoro creativo o di incoraggiare i bambini a essere creativi, questa idea romantica ci porta fuori strada.

Siamo affascinati dalla sofferenza e ci autoconvinciamo che lavorare fino allo sfinimento, o aspettare l’ispirazione, costituiscono parte essenziale del processo; e che la depressione è il prezzo da pagare per avere un’arte veramente profonda.

Per strano che possa sembrare, la verità, di questi tempi, è che ammettere di essere noiosamente moderati è quasi imbarazzante quanto confessare di essere del tutto instabili. Eppure per la maggior parte delle persone, lasciare il segno, nel mondo dell’arte o in qualsiasi altro campo, significa essere disposti a sgobbare ostinatamente, giorno dopo giorno, in modo assolutamente razionale: quello che conta è la pazienza, non il delirio. Personaggi come Andy Warhol dimostrano che si può essere molto eccentrici e anche molto creativi, non che l’eccentricità è la garanzia della creatività per tutti.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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