Poche cose piacciono tanto a editorialisti, e opinionisti in generale, come il lamentarsi della nostra “cultura dell’indignazione”. Ma in realtà sulla rabbia non abbiamo le idee molto chiare. Quando la esprimono i nostri avversari politici la consideriamo sbagliata, ma se viene da noi pensiamo che sia ampiamente giustificata.
Critichiamo alcune persone perché si arrabbiano, e altre perché non si arrabbiano abbastanza (e certe filippiche contro la cultura dell’indignazione spesso appaiono su pubblicazioni che contano proprio sull’indignazione per acchiappare clic.) La filosofa Martha Nussbaum, nel suo folgorante nuovo libro Anger and forgiveness (La rabbia e il perdono), non ha di questi dubbi.
Per lei, la rabbia è sempre negativa. È un atteggiamento mentale sbagliato che faremmo bene a eliminare in noi stessi e, se possibile, anche nei nostri figli. Sento già qualcuno che sta reagendo a questa proposta con… rabbia. Ma aspettate un momento.
Peggiorare le cose
La tesi di Nussbaum si basa sull’idea aristotelica che la rabbia contiene sempre in sé una dimensione punitiva. Se vogliamo essere onesti con noi stessi, in effetti è così: quando, per esempio, spariamo un tweet rabbioso contro un certo spregevole candidato presidenziale, il nostro desiderio segreto è che possa leggerlo e sentirsi ferito. Questo desiderio può essere subdolo, come ha spiegato Nussbaum sulla rivista Aeon: come quando, per esempio, ci auguriamo pigramente che il secondo matrimonio del nostro ex coniuge non funzioni. Eppure, desideriamo comunque che lui o lei soffra. E, prima o poi, se siamo persone razionali come Nussbaum, dovremo prendere atto di una realtà imbarazzante: questo desiderio di ritorsione non ha senso.
Consideriamo un caso estremo: qualcuno commette un omicidio. Naturalmente, molte persone pensano che debba essere punito. Esistono ottimi motivi per sbatterlo in prigione: per impedirgli di uccidere ancora, per dissuadere altri potenziali assassini, forse perfino per riabilitarlo. Ma quale risultato utile si ottiene facendolo soffrire? Nessuno. “Infliggere dolore al colpevole non ci restituisce quello che abbiamo perso”, scrive Nussbaum. Né impedisce perdite future. La cosa migliore che ci può venire in mente è che ci sembra semplicemente “giusto” farlo.
La rabbia sposta l’attenzione da quello che può essere cambiato a quello che non è possibile cambiare
In altre parole, la punizione cancella solo la nostra ansia di punire. Ma è come quando un fumatore sostiene che il fumo gli fa bene perché lo calma, quando in realtà è proprio l’astinenza dalla nicotina a metterlo in agitazione. L’unico effetto concreto della rabbia è peggiorare le cose, spostando l’attenzione da quello che può essere cambiato a quello che non è possibile cambiare: “Ci fa pensare che se il traditore soffre, avremo almeno ottenuto qualcosa, mentre in realtà non abbiamo fatto nulla per risolvere il vero problema”.
La sconcertante conclusione è che la nostra rabbia non è mai giustificata, neanche quando la persona che stiamo attaccando ha assolutamente torto, è piena di odio o fa del male agli altri. La nostra rabbia è comprensibile? Certo, siamo esseri umani. È perdonabile? Forse qualche volta.
Ma non è mai veramente utile (potremmo avere qualche dubbio sulla “giusta rabbia”, ma credo che Nussbaum direbbe che la rabbia non è mai giusta, perché implica il desiderio di ferire, mentre il senso di giustizia non equivale alla rabbia). In breve, è ora di smettere di cercare subdole giustificazioni per la nostra rabbia mentre condanniamo quella degli altri. E, se devo essere sincero, questa cosa mi manda su tutte le furie.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.
Oliver Burkeman sarà al festival di Internazionale a Ferrara dal 30 settembre al 2 ottobre 2016.
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