Come l’ebola, e le persone che si schiariscono la gola a teatro, le emozioni sono contagiose. Per esempio, se siamo infelici e poi per qualche motivo diventiamo felici – magari per un nuovo amore – secondo uno studio del 2014 anche un amico che vive nel raggio di un paio di chilometri da noi ha il 25 per cento di probabilità in più di essere felice (il lato negativo, hanno scoperto i ricercatori, è che gli studenti universitari costretti a dividere la stanza con colleghi depressi corrono maggiormente il rischio di essere “contagiati” dal loro modo di vedere la vita).
È stato anche dimostrato che vedere una persona stressata, perfino una sconosciuta, è sufficiente per far salire il nostro livello di cortisolo. Da un punto di vista evoluzionistico, questo non dovrebbe sorprenderci. Dopotutto se nel nostro raggio visivo c’è qualcuno che ha l’aria allarmata come se una tribù di razziatori nemici stesse per attaccarci alle spalle, probabilmente è perché stanno arrivando sul serio, nel qual caso essere allarmati a nostra volta può salvarci la vita. Oggi che le tribù di razziatori di solito non costituiscono più un rischio imminente, quell’ansia non è di grande utilità. Ma purtroppo è rimasta contagiosa.
“L’ansia è conduttiva”, scriveva il designer Mike Montero in un suo vecchio saggio che qualche settimana fa è tornato al centro dell’attenzione online. “Vuole viaggiare da una persona all’altra”. Nel suo studio di progettazione vige una regola: smettetela di adottare le ansie degli altri. “Quando un cliente diventa ansioso”, scrive Monteiro, “il suo scopo principale è trasmettere ansia anche a voi, per giustificare la sua”.
Una distrazione inutile
L’altro grande rischio è che l’ansia e la preoccupazione, diversamente da altre emozioni negative, possono sembrare costruttive. Rimuginare su un problema ci dà la sensazione che stiamo facendo qualcosa per risolverlo. E perciò vogliamo che gli altri condividano la nostra preoccupazione, così diverse persone “lavoreranno” a quel problema. Il guaio è che, in realtà, l’ansia non è affatto costruttiva, di solito è solo una distrazione che abbassa la qualità del lavoro.
Alan Watts lo diceva già nel 1951: paradossalmente, quello che ci rende insicuri è il nostro disperato bisogno di sicurezza. Quando ci preoccupiamo, stiamo cercando di raggiungere uno stato di serenità impegnandoci proprio nel tipo di attività che rischia di impedircelo. Perciò, precipitando con lei in questa spirale controproducente, non aiutiamo di sicuro una persona ansiosa.
“Immaginate di tagliarvi un dito mentre state aprendo un panino”, scrive Monteiro. “Vi innervosite. Lo fasciate subito. Correte al pronto soccorso. Preferireste che vedendo la ferita il medico di guardia si mettesse a urlare o che dicesse: ‘Calma adesso ci penso io’?”. Questo mi ricorda la tesi sostenuta dallo psicologo di Yale Paul Bloom nel suo libro Against empathy.
Condividere il dolore degli altri ci sembra il modo migliore per mostrarci compassionevoli, ma spesso è controproducente (può anche spingerci a prendere decisioni sbagliate, dice Bloom: per esempio, è più facile provare empatia per le persone che ci somigliano, perciò finiamo per essere empatici in modo discriminatorio). L’atteggiamento più compassionevole, dice Monteiro, è quello del “dottore tranquillizzante”, che ci aiuta anche a controllare i nostri livelli di ansia.
Ci sono già abbastanza cose di cui preoccuparsi a questo mondo. Non c’è bisogno di andare a cercarne altre.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.
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