C’è un’espressione che si sta imponendo nel dibattito pubblico, e che s’ispira a una delle personalità dell’anno: Donald Trump. “Trumpizzazione” è diventato un concetto a pieno titolo, un marchio di fabbrica che lui stesso riuscirà a far prosperare anche se, come prevedono i sondaggi, l’8 novembre Hillary Clinton lo manderà nel dimenticatoio.
In Francia la ministra della cultura Audrey Azoulay ha parlato di trumpizzazione quando ha espresso il suo sostegno alla protesta sindacale dei giornalisti del canale I-télé e alla loro richiesta di un codice etico per l’emittente di proprietà dell’imprenditore Vincent Bolloré. La posta in gioco, secondo Azoulay, è “difendersi dalla trumpizzazione dell’informazione”.
Ancora prima, a luglio, il primo ministro francese Manuel Valls aveva usato l’espressione per criticare la campagna di Nicolas Sarkozy, parlando di “trumpizzazione dell’opposizione”. Valls sottolineava il populismo della campagna di Sarkozy, che secondo lui è simile a quella del candidato repubblicano negli Stati Uniti: “Una sparata al giorno per alzare i toni e creare un clima di tensione”.
Benoît Hamon, candidato alle primarie del Partito socialista francese, ha invece parlato di “trumpizzazione di François Hollande”, facendo inorridire anche gli ultimi sostenitori del presidente, che si chiedono se a trumpizzarsi non sia stato lo stesso Hamon.
Una rapida ricerca su Twitter mostra che l’espressione si è imposta velocemente nei dibattiti. Ricorre, per esempio, nel Regno Unito dove si parla di trumpizzazione del paese dopo il referendum sulla Brexit. Un tweet africano parla di “trumpizzazione del mondo”. Un altro utente evoca la trumpizzazione di Vladimir Putin, mentre il presidente russo finora aveva avuto diritto al suo personale neologismo: la “putinizzazione”.
Donald Trump si è imposto innanzitutto per il suo stile, quello di una personalità della tv più becera, della quale conosce bene i codici
Ma di cosa si parla quando si usa il termine “trumpizzazione”, diventato un concetto passepartout? Ci si riferisce alla forma o al contenuto di quello che Donald Trump incarna nelle presidenziali statunitensi? Si tratta di qualcosa che va oltre la retorica per delegittimare l’avversario? E, soprattutto, cosa resterà della trumpizzazione dopo il voto?
Il primo elemento da considerare è naturalmente quello della forma. Donald Trump si è imposto innanzitutto per il suo stile, quello di una personalità della tv più becera, della quale conosce bene i codici, avendo contribuito a definirli negli anni della trasmissione The apprentice. Nei dibattiti delle primarie ha distrutto i suoi avversari con le invettive, la demagogia sfacciata, una buona dose di volgarità e la grande capacità di occupare il piccolo schermo.
A questo si aggiungono alcuni slogan ripetuti da un comizio all’altro, fino a diventare temi ricorrenti, come il famoso muro contro i migranti alla frontiera con il Messico, riguardo al quale il suo pubblico conosce a memoria la battuta chiave: “Sarà il Messico a pagare il muro”. Poco importa che l’ipotesi sia irrealistica e che davanti al presidente messicano Trump non abbia detto una parola. Il suo pubblico lo segue lo stesso.
Questo stile ha dei limiti. Anche se ha permesso a Trump di imporsi nelle primarie repubblicane, non gli ha però consentito di attirarsi i favori della maggioranza degli elettori. A parte le comunità di cui si è alienato le simpatie – messicani, donne, minoranze, persone diversamente abili, gli “esperti”, i giornalisti – Trump è rimasto con uno zoccolo duro di fedeli affascinati dalla sua retorica, ma non sembra avere la concreta possibilità di vincere. Soprattutto dopo la pubblicazione di una registrazione in cui pronuncia frasi offensive sulle donne, che hanno finito per screditarlo presso una parte dell’elettorato repubblicano.
Rimane la questione del contenuto: cosa s’intende per trumpizzazione? La risposta è più complessa e solleva soprattutto la domanda del dopo Trump e di cosa resterà di quello che ha incarnato.
Trump ha colpito un nervo scoperto, attirandosi le simpatie di interi strati della società statunitense che si sentono senza voce
C’è voluto del tempo in Europa per capire che Donald Trump non era solo un clown prestato alla politica, ma che aveva colpito un nervo scoperto, attirandosi le simpatie di interi strati della società statunitense che si sentivano senza voce: gli sconfitti della globalizzazione, i declassati della crisi del 2008 e tutti quelli che temono di fare la stessa fine con l’imminente rivoluzione tecnologica, che minaccia di distruggere milioni di posti di lavoro. Per loro lo slogan di Trump “Make America great again” aveva un senso. Ma questo senso è rimasto oscuro a quelli che si trovano dalla parte giusta della barriera sociale e pensano che gli Stati Uniti siano già grandi.
Milioni di statunitensi non si riconoscono nella forza tranquilla dell’America non- bianca, al potere con Obama per otto anni. E ancora meno in Hillary Clinton, incarnazione dell’odiato establishment, con i suoi discorsi davanti ai banchieri della Goldman Sachs pagati duecentomila dollari.
Tra chi lo ha capito c’è Marine Le Pen, la leader del Front national, il partito di estrema destra francese, che alla Cnn, di fronte alla giornalista Hala Gorani che la incalzava con domande sulla sua passione per Trump, ha detto di riconoscersi sia nel miliardario sia in Bernie Sanders, l’avversario di Clinton nella lotta alla nomination democratica. Cioè i due candidati che, agli estremi opposti del panorama politico, stavano sfidando le élite globalizzate.
Chi raccoglierà la sua eredità
Donald Trump non è un politico classico. Non ha intenzione, se dovesse perdere le elezioni, di lanciarsi in politica. Vorrebbe piuttosto creare un canale televisivo, la Trump tv, in cui, come una specie di telepredicatore senza religione, potrà portare avanti la trumpizzazione delle menti. Oltre a guadagnare molti soldi.
Ma chi saprà raccogliere, nel bene e nel male, la sua eredità presso i milioni di elettori che l’hanno scelto? Dai dibattiti sui trattati di libero scambio, sulle disuguaglianze sociali, sui costi delle università e sulla politica internazionale degli Stati Uniti, appare chiaro che la trumpizzazione è il frutto di un momento politico confuso e che risponde a un bisogno reale dell’opinione pubblica statunitense. Un bisogno che non scomparirà.
Lo stesso si può dire per l’Europa. Se la trumpizzazione è un fenomeno tipicamente statunitense, è vero che il messaggio trova una chiara corrispondenza nel vecchio continente nel successo dei partiti di estrema destra e populisti. Invece di accontentarsi di denunciare la trumpizzazione delle menti, quelli che usano questo concetto dovrebbero prima di tutto interrogarsi sui motivi della sua nascita. E dovrebbero rimettere in discussione pratiche politiche, economiche e mediatiche che finora hanno avuto effetti catastrofici. La trumpizzazione non è un fenomeno passeggero.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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