Dovremo abituarci. Diventando presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio, Donald Trump entrerà nel club molto esclusivo dei “signori del mondo”. Per anni dopo la fine della guerra fredda gli statunitensi – e il resto del pianeta con loro – hanno pensato di essere i soli membri di questo club. Poi si è progressivamente diffusa l’idea di un “G2”, Stati Uniti e Cina, la potenza emergente del ventunesimo secolo. Ma non erano stati fatti i conti con la determinazione, fredda e senza limiti, di un “terzo uomo”, Vladimir Putin, che ha fatto uscire la Russia dai margini della storia dove era stata relegata per riportarla in primo piano attraverso una miscela di autoritarismo interno e di raid militari all’estero, malgrado un’economia indebolita dalla dipendenza dal prezzo degli idrocarburi.

Che ci piaccia o meno, sono questi tre uomini che faranno il mondo nel quale vivremo nei prossimi anni. Gli europei hanno perso il treno della storia: collettivamente non sono più abbastanza influenti nell’attuale partita geopolitica globale; individualmente gli stati-nazione del continente (Francia, Germania, Italia e il Regno Unito del dopo Brexit) sono delle medie potenze in declino.

Tuttavia il club dei “signori del mondo” rimane inquietante, e il modello sociale sviluppato dall’Europa avrebbe dovuto costituire il contrappeso a una tendenza autoritaria e poco rispettosa dell’individuo. Ma né il trauma del Brexit né quello dell’elezione di Trump sembrano in grado di provocare un sussulto di orgoglio da parte di europei che continuano a essere sballottati qua e là.

Alcuni paragonano Trump a Ronald Reagan, un ex attore di serie B che aveva attirato critiche simili

Trump quindi dovrà stabilire con il cinese Xi Jinping e il russo Vladimir Putin dei rapporti al tempo stesso umani e politici, che saranno determinanti nei prossimi anni. Hanno tutto il tempo per farlo: Trump è stato eletto per quattro anni rinnovabili.

Xi Jinping è certo di un secondo mandato alla guida del Partito comunista cinese che sarà confermato nel diciannovesimo congresso previsto nell’autunno 2017, e sembra addirittura tentato di andare oltre cambiando le regole in vigore dopo la morte di Mao. A sua volta Putin regna di fatto da 16 anni e, dopo aver spazzato via ogni seria opposizione, ha tutte le carte in regola per farsi rieleggere nel 2018 per altri quattro anni.

Così almeno fino al 2020 e forse anche dopo, Trump, Xi Jinping e Putin saranno a capo delle tre principali potenze mondiali.

La grande incognita
Il grande sconosciuto di questo trio è ovviamente Trump. Impossibile dire, in base alle sue dichiarazioni fatte in campagna elettorale, quale sarà la sua politica estera. Una prima indicazione sarà fornita dalla scelta del futuro segretario di stato e da quella del suo consigliere nazionale alla sicurezza, i due posti chiave della diplomazia americana. Ma l’assenza di esperienza e il temperamento imprevedibile del presidente rischiano di influire pesantemente, almeno all’inizio, sulle interazioni degli Stati Uniti sia con i loro alleati sia con i loro rivali, così come sulle crisi in corso a cominciare dal conflitto siriano e dalle convulsioni del Medio Oriente.

I pochi che hanno sostenuto Trump prima della sua elezione fanno il parallelo con Ronald Reagan, il quarantesimo presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989, un ex attore di serie B che aveva attirato lo stesso genere di critiche che sentiamo oggi nei confronti di Trump. All’epoca si diceva che Reagan fosse più interessato alla sua collezione di stivali texani che agli affari del mondo, che la sua capacità di lavoro e di concentrazione su argomenti difficili erano molto limitate. “Reagan aveva buon senso, ma non aveva una conoscenza approfondita di tutti gli argomenti”, ha scritto il giornalista Guillaume Sérina in un libro recente, Reagan-Gorbatchev (L’Archipel 2016), dedicato al vertice di Reykjavík del 1986 tra i leader delle due grandi potenze all’epoca della guerra fredda. Un vertice che ha avuto un grande ruolo nella storia del disarmo nucleare.

Ma Reagan aveva attorno a sé una solida équipe di vecchie volpi della diplomazia e della sicurezza, come Alexander Haig, Caspar Weinberger, George Shultz, Robert McFarlane, dei nomi che ancora oggi suscitano rispetto. Un gruppo di “guardie del corpo”, secondo la formula utilizzata da Sérina, che nonostante i disaccordi talvolta violenti, ha influito sulle scelte di questo presidente atipico.

I rapporti con Mosca e Pechino
Per ora tra i collaboratori di Trump non ci sono personalità di politica estera di questo calibro. I “professionisti” repubblicani di questioni strategiche si sono accuratamente tenuti a distanza dal candidato a causa delle sue strambe dichiarazioni sul nucleare e sulla Nato, e alcuni hanno addirittura chiesto di votare Clinton. Non c’è dubbio che molti cercheranno di rientrare in un’amministrazione che manca di braccia e di cervelli, ma che influenza potranno avere rispetto ai componenti della “prima cerchia” trumpista?

Una volta formata la squadra di politica estera e di sicurezza, almeno per i primi due anni, ci si porrà rapidamente la questione del tipo di rapporti che il nuovo presidente intende adottare con Mosca e Pechino. La tendenza filoputiniana espressa durante la campagna elettorale si tradurrà in fatti concreti una volta che Trump dovrà affrontare scelte difficili e dalle gravi conseguenze in settori come l’Ucraina e la Siria?

Una volta messo a conoscenza degli argomenti che padroneggia meno, per usare un eufemismo, Trump sceglierà per esempio di abbandonare le forze ribelli non jihadiste che gli statunitensi aiutano oggi in Siria, dando in questo modo la possibilità alla Russia di annientarle in favore di Bashar al Assad? E quale sarà il messaggio inviato all’Europa centrale, che si preoccupa della ricostituzione di una sfera di influenza russa là dove un tempo regnava l’Unione Sovietica?

Un discorso simile riguarda la Cina, al centro di numerosi attacchi del candidato Trump per quello che ha definito il “furto” di posti di lavoro americani, e preoccupata per le ricadute di un possibile protezionismo americano sulla sua economia. Ma allo stesso tempo Pechino non può non rallegrarsi di un presidente degli Stati Uniti che potrebbe indebolire le sue alleanze in Asia, lasciando la Cina libera di diventare la potenza dominante del continente. Pechino può sperare di vedere i paesi asiatici seguire l’esempio delle Filippine e della Malesia, che hanno preso la strada di Pechino per riequilibrare la loro indebolita alleanza con gli Stati Uniti.

L’assenza dell’Europa
In un mondo ideale si potrebbe sperare che un presidente statunitense che rinunci al “messianesimo” dei neoconservatori, decisi a imporre anche con la forza la democrazia occidentale nel resto del mondo, possa tranquillizzare un contesto sempre più inquietante. Ma per farlo sarebbe necessario che i “signori del mondo” siano animati dalla stessa volontà di pacificare le relazioni internazionali e di stabilire una guida globale più consensuale. Tuttavia siamo ben lontani da tutto ciò, sia per il freddo realismo geopolitico, sia per la natura autoritaria di questi regimi.

Purtroppo è in questo contesto che si fa notare l’assenza dell’Europa. A tutti i livelli – quello dei valori democratici, delle norme sociali o ambientali e così via – l’Europa avrebbe potuto essere un modello, una forza in grado di fare proposte concrete. Di fatto, però, questo continente è non solo lontano dall’esemplarità affermata, come si vede per esempio nella gestione della crisi dei profughi, ma è soprattutto minato dalle divisioni e dall’affermazione al suo interno di movimenti populisti nati dai suoi fallimenti.

Sorpresa dalla vittoria di Trump, oggetto di sarcasmo da parte dei principali leader europei che adesso avranno a che fare con lui, l’Unione europea è ancora una volta di fronte a un momento cruciale per il suo futuro. I precedenti appuntamenti con la storia sono andati persi ed è molto probabile che anche questo seguirà la stessa sorte, lasciando quindi il mondo nelle mani di Trump, Putin e Xi Jinping, di certo non i migliori amici degli europei.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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