Con la voce affaticata, Joe Biden ha lanciato il suo messaggio. “È il momento di mettere fine a questa guerra”, ha dichiarato il presidente statunitense il 31 maggio, presentando inaspettatamente un piano in tre fasi per mettere fine al conflitto, ottenere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas in cambio dei prigionieri palestinesi e infine creare le condizioni per un percorso politico.

Sono passati tre giorni, ed è difficile dire a che punto sia la situazione. Israele e Hamas hanno accettato il piano (anche se controvoglia), ma non è affatto detto che i due nemici abbiano dato il proprio assenso alle stesse condizioni.

Al momento l’unica certezza è che il breve discorso di Biden ha provocato un’agitazione mai vista nel mondo politico israeliano, almeno dopo il 7 ottobre. La soluzione del conflitto dipenderà in buona parte dal modo in cui si evolverà il dibattito nazionale in Israele, che al momento appare confuso e molto emotivo.

Al momento c’è confusione: Biden ha citato una proposta israeliana, mentre Tel Aviv parla di un piano statunitense. In quello di cui ha parlato il presidente americano la prima fase è costituita da un cessate il fuoco provvisorio di sei settimane, uno scambio tra ostaggi e prigionieri, e l’arrivo di aiuti umanitari in grande quantità a Gaza.

Ma nella seconda fase le cose si complicano. Biden infatti si è riferito a “un’interruzione permanente delle ostilità”, con il ritiro delle forze israeliane chiesto da Hamas, ma Benjamin Netanyahu non sembra condividere questa impostazione. I rappresentanti del primo ministro israeliano hanno fatto sapere che un’interruzione permanente delle ostilità è impensabile fino a quando non sarà raggiunto l’obiettivo della distruzione di Hamas. Ecco la prima contraddizione.

Questa prospettiva divide innegabilmente gli israeliani. La sera del 1 giugno decine di migliaia di persone hanno manifestato chiedendo che il governo israeliano dia la priorità agli ostaggi. I ministri di estrema destra, però, hanno ribadito che faranno cadere Netanyahu se dovesse dare il via libera a un accordo. L’equilibrismo del primo ministro sembra essere arrivato al limite.

Non è la prima volta che emerge la speranza di un cessate il fuoco, ma fatta eccezione per una decina di giorni a novembre, finora le speranze sono sempre state disattese.

Oggi l’agitazione politica all’interno della società israeliana è forse l’unico segnale del fatto che la richiesta di mettere fine alla guerra stia prendendo piede, per diversi motivi: perché gli obiettivi del conflitto sono sempre meno comprensibili, perché una parte dei leader israeliani è preoccupato dall’assenza di un piano per il dopoguerra e perché l’isolamento di Israele aumenta ogni volta che sono diffuse le immagini della tragedia in corso a Gaza.

Il problema è che i principali protagonisti, Hamas e la coalizione di Netanyahu, ognuno con la sua logica, hanno interesse a prolungare il conflitto. Ancora una volta il ruolo delle potenze internazionali è fondamentale: dagli Stati Uniti, malgrado la loro evidente inefficacia, al mondo arabo che non ha rotto con Israele, fino all’Europa, anche se in misura minore. Tutto spinge verso una conclusione della guerra, ma probabilmente questo non basterà per arrivare a una soluzione in tempi brevi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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