Missione compiuta. A pochi giorni dalla pubblicazione del documento di economia e finanza, una sola domanda rimbalza dalla politica alle parti sociali, dai mezzi d’informazione ai sondaggi di opinione: come saranno spesi 1,6 miliardi di euro?
Che si tratti di tesoretto o #bonusdef o – più propriamente – di quel margine di flessibilità sui conti pubblici che il governo ha chiesto all’Europa nel “percorso di miglioramento del saldo strutturale”, la piccola arma di distrazione di massa ha raggiunto il suo scopo: concentrare su di sé l’attenzione. Il mistero, la suspense, la notizia, la polemica, sono lì.
Domanda numero uno: perché mai il destino di quei soldi è più importante del mistero principale del def, ossia il taglio di dieci miliardi di spesa pubblica?
Quest’ultima è infatti la cifra affiancata alla voce “spending review” – già vista in passato, con diverse cifre. Tanto per dire, nel def dello stesso governo dello scorso anno gli introiti dalla spending review passavano dai 4,5 miliardi del 2014 ai 17 del 2015 ai 32 del 2016. Se adesso hanno scritto dieci, un motivo ci sarà. E soprattutto, ci sarà un contenuto. Trasporti pubblici, sanità, altro? La discussione sarebbe interessante, ma forse meno popolare.
Diamo per scontata – o per buona – una considerazione: se il governo vuole destinare 1,6 miliardi “ai più bisognosi”, i tagli non andranno a colpire spese destinate agli stessi, se no è una partita di (o una presa in) giro.
E passiamo alla domanda numero due: cosa si può fare, per i più poveri, con 1,6 miliardi di euro? Se guardiamo alle cifre della povertà assoluta – in Italia sei milioni di persone – verrebbe da rispondere: ben poco.
Ma se guardiamo alle somme stanziate per i pochissimi strumenti di attuazione che esistono contro la povertà assoluta, il “ben poco” diventa tantissimo. Basta pensare che la carta acquisti è stata finanziata quest’anno solo per 400 milioni, che sono già tanto rispetto agli anni scorsi. È uno strumento che riguarda 430mila persone, per lo più pensionati ai margini della povertà.
Per non parlare dell’altro strumento contro la povertà, il sostegno per l’inclusione attiva (Sia), avviato in via sperimentale in dodici città (o meglio 11, perché Roma ancora non parte: questo perché quando lo strumento è stato varato si era in fase di cambio di governo locale. Fase passata da un pezzo, ma i tempi della burocrazia sono quelli che sono). In ogni caso, il bilancio del Sia – che è pubblico – è misero: raggiunge 6.517 famiglie, per un totale di 26.863 persone. Budget complessivo: 38 milioni.
Sarebbe facile, senza nemmeno stare a discutere, mettere lì un po’ di soldi in più. Sapendo però che quei soldi ci sono solo quest’anno (e sono spendibili anche subito, a stare alle dichiarazioni del vicepresidente della commissione europea, Valdis Dombrovskis). E che dunque si rischia un effetto boomerang, se poi la stessa misura non può essere rifinanziata per gli anni successivi. Condizione, questa, che esclude in partenza un possibile uso di 1,6 miliardi per l’allargamento della platea dei beneficiari delle detrazioni fiscali Irpef (i famosi 80 euro): a parte il fatto che ne servirebbero quasi il triplo, è impossibile finanziare una misura strutturale con un’entrata una tantum.
Ma se con una spesa tutto sommato limitata – rispetto alle grandi cifre della finanza pubblica – è possibile fare qualcosa per i più poveri dei poveri, perché non ci si è pensato prima?
Qui forse la spiegazione sta nei flussi elettorali più che in quelli economici, e nelle previsioni sui voti che si spostano (o non si spostano) ai piani più bassi. Forse è per questo che – come ha notato il Rapporto sull’occupazione e lo sviluppo sociale della Commissione europea nel capitolo dedicato all’eredità della crisi – l’Italia è rimasta tra i pochi paesi che non hanno politiche specifiche sulla riduzione della povertà e dunque tra quelli nei quali l’indice di deprivazione materiale negli anni della crisi è cresciuto di più.
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