Con la conferenza stampa in cui ha annunciato la soluzione del governo per il caso aperto dalla sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni, Matteo Renzi ha cercato ancora una volta l’azzardo, provando a trasformare la tegola che gli è caduta addosso in uno spot elettorale.
Lo ha fatto come al solito preannunciando la novità in televisione nella domenica pomeriggio – com’era già stato per il bonus 80 euro e il bonus bebè –, stavolta con una contorsione linguistica ai limiti della truffa: chiamando “bonus” quella che sarà una restituzione solo parziale, e per alcuni nulla, delle somme che, secondo la sentenza della Corte, sono state illegittimamente sottratte alle pensioni negli anni 2012 e 2013.
La sentenza della Corte si riferisce infatti a tutte le pensioni superiori a tre volte il minimo (queste ultime, cioè quelle fino a un importo di 1.405 euro lordi al mese, erano salvaguardate dalla legge Monti-Fornero), mentre il decreto varato adesso copre solo le pensioni comprese tra quella soglia e i 3.200 euro lordi.
Se “bonus” c’è, è per il governo, che si pratica uno sconto sulle somme da restituire: i pensionati riceveranno infatti, in un’unica soluzione, somme comprese tra i 750 e i 278 euro.
Cifre assai minori di quelle che verrebbero fuori da un integrale recupero dell’indicizzazione: lo “sconto” varia per fascia di reddito, ma per avere un’idea dell’autoriduzione che si è fatto il governo basta dire che si stanziano, per l’intera operazione, 2,1 miliardi di euro, a fronte di un costo totale che poteva arrivare ai 18 miliardi. Riceveranno il mini-rimborso 3,7 milioni di pensionati, mentre ne resteranno esclusi i 650.000 sopra i 3.200 euro lordi.
Dunque non è un bonus, e con una certa malizia Renzi lo ha chiamato “Poletti”, sperando forse che al momento dell’amara scoperta tutta la delusione sarà indirizzata verso il ministro del lavoro.
Per ora, il costo dell’operazione è tutto addebitato a quella piccola somma che – con un altro azzardo linguistico – lo stesso premier aveva chiamato tesoretto, sottraendola ad altra destinazione: “Ci sono due miliardi che mi ero tenuto per le misure contro la povertà”, ha detto con un assai discutibile uso della prima persona singolare.
Le somme che “si era tenuto” (“un uomo solo al comando” non vale solo per la scuola, con tutta evidenza) sono quel poco che viene fuori dalla differenza tra il deficit tendenziale e quello programmato, restando dentro i paletti imposti dalla vigilanza della Commissione europea, ed evitando di avvicinarsi un po’ di più al tetto del 3 per cento che pure, in teoria, è raggiungibile.
Del resto, ha aggiunto Renzi, all’epoca del misfatto Monti-Fornero “io mi occupavo di tappare buche” (come sindaco), sottintendendo: non è colpa mia se si è prodotto questo nuovo buco. Ma se, come molti prevedono, il rimborso solo parziale scatenerà un’altra ondata di ricorsi di pensionati che chiederanno la piena applicazione della sentenza della Corte, è probabile che il “buco” futuro sarà ben maggiore: il problema in questo caso è spostato in avanti, a successive sentenze.
Meglio avrebbe fatto, il governo, a evitare trucchi lessicali e chiamare la cosa con il suo nome: male minore. La Corte ha detto che il meccanismo Monti-Fornero (che, ricordiamolo, era stato votato da un ampio arco parlamentare: 402 favorevoli e 75 contrari) è iniquo, il governo poteva più apertamente opporre al ragionamento della Corte un’altra concezione di equità, consistente nel dare il poco che c’è a chi ne ha più bisogno.
E tutti gli indicatori dicono che non sono le fasce dei pensionati – se si escludono quelli con assegni più bassi, che già erano salvaguardati – ad aver perso di più negli anni della crisi. Come si spiega in quest’articolo di In genere, in base ai dati elaborati dall’economista Francesca Bettio, si pone un problema rilevante di equità generazionale e di genere.
Di fronte a un aumento esponenziale delle famiglie in povertà assoluta e prive di qualsiasi sostegno al reddito, “rimborsare” i pensionati che hanno già assegni attorno ai 2-3.000 euro al mese non dovrebbe essere la prima priorità dell’agenda.
Ma allargando così il discorso, sarebbe giusto guardare a tutti gli strumenti in mano ai governi: perché affidare la redistribuzione a un complicato meccanismo di parziale indicizzazione? Perché non guardare a tutta la capacità contributiva delle persone e delle famiglie? Perché, per esempio, devono essere solidali con i giovani che guadagnano poco o niente solo i pensionati, e non anche tutti i titolari di redditi più alti? E perché non chiamare in causa anche i patrimoni? La ricchezza è concentrata tra le persone di età più matura assai più del reddito; ed è evidente che, anche tra gli stessi pensionati, c’è una differenza profonda tra chi ha anche un patrimonio, o rendite finanziare, e chi ha solo la propria pensione.
Prendere un “tesoretto” – piccolo o grande – da una patrimoniale, dal ripristino della tassa di successione, o da un aumento dell’aliquota più alta sui redditi sarebbe una misura di redistribuzione tra generazioni più forte e più ampia che non limitarsi alla sola platea delle pensioni. Ma è più facile, nella retorica che corre, dare addosso ai pensionati “del retributivo” (ossia a quelli che, essendo andati in pensione con le vecchie regole, godono di una pensione che gli attuali giovani, a parità di qualifiche e lavori, mai prenderanno), ed evitare argomenti-tabù come quello che riguarda rendite e patrimoni. Non solo.
Per aiutare davvero “i giovani” non basta togliere ai “vecchi”, bisogna poi che quelle e altre risorse arrivino a chi ne ha bisogno, a partire dai senza-lavoro e senza-welfare. Così non è stato per la manovra Monti-Fornero – la cui riforma, come ricorda l’economista Roberto Pizzuti, non è andata minimamente a vantaggio delle giovani generazioni, preparando future ondate di pensionati poveri.
Ma se si ha a cuore l’obiettivo di una redistribuzione reale, e di un uso più inclusivo della spesa sociale, non basta continuare ad accanirsi sulla sola spesa pensionistica, né è utile – come i partiti dell’opposizione e anche i sindacati paiono intenzionati a fare – ostinarsi a chiedere l’applicazione integrale della sentenza della Corte, che assorbirebbe una quantità abnorme di risorse pubbliche.
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