Lo hanno chiamato Workers act, in esplicita contrapposizione al Jobs act renziano: perché “esprime il punto di vista dei lavoratori”, spiega Rossana Rossanda nella presentazione con cui lancia il piano di Sbilanciamoci! per l’occupazione.

E Maurizio Landini, alla vigilia della due giorni della sua Coalizione sociale a Roma, ha raccolto la palla, anzi il decalogo, di Sbilanciamoci!: sarà base di discussione per la nostra piattaforma, ha detto il leader della Fiom. Perché sarà pur vero che sul mercato del lavoro qualcosa comincia a muoversi, e un po’ di occupazione arriva: ma troppo poco e troppo piano, per i nuovi contorni che ha assunto la disoccupazione.

“Lo dice anche il governo nel suo documento di economia e finanza prevedendo che si arriverà a una disoccupazione del 7 per cento nel 2060: vale a dire, il tasso di disoccupazione tra quarantacinque anni sarà ancora più alto rispetto a quello del 2008 (6,8 per cento), anno di inizio della crisi”, si legge nell’introduzione.

Si tratta a tutti gli effetti di un contro-Jobs act, ma che solo in parte attacca la riforma di Renzi (no alla possibilità di licenziare, ritorno del contratto a tempo indeterminato, con l’articolo 18, un solo rinnovo per i contratti a termine, abolizione di quasi tutti gli altri contratti atipici non aboliti dal Jobs act).

Per il resto, è propositivo: con misure ambiziose, costose – e non limitate alla questione del mercato del lavoro – ma possibili, secondo i conti degli economisti che ci hanno lavorato, coordinati da Claudio Gnesutta e Mario Pianta.

Ecco il piano

Il primo blocco di proposte riguarda il ruolo pubblico nella creazione di lavoro: 250mila nuovi posti di lavoro pubblici (istruzione e ricerca, salute, servizi per le persone, mobilità pubblica sostenibile, manutenzione del territorio). Qui si parla di assunzioni dirette in settori chiave, per un costo di cinque miliardi all’anno.

Altro è invece il volano per nuovi posti di lavoro che potrebbe venire da un piano di investimenti pubblici e privati, con l’uso di fondi europei, Cassa depositi e prestiti, fondi pensione e d’investimento, la stessa liquidità creata dalla Bce con il quantitative easing e sgravi specifici destinati alle imprese che investono (sembrerà forse radicale nel clima nostrano, ma pochi giorni fa lo stesso Fondo monetario ha detto che la stagnazione degli investimenti va invertita con una qualche spinta pubblica).

Una seconda tranche di misure riguarda gli orari e il tempo di lavoro. Torna lo slogan “lavorare meno lavorare tutti”, declinato in modo non generico ma specifico: il principio è sempre quello che “va redistribuito il lavoro che c’è” (ed è sempre meno, con l’evoluzione tecnologica), ma con incentivi e disincentivi, non con tetti orari di legge.

La proposta è di “calibrare il carico fiscale e contributivo sul salario a seconda della durata dell’orario”: zero tasse sulla fascia dei lavoratori a orari ridotti, e via a salire man mano che si lavora di più, fino ad arrivare all’ammontare vigente per le 40 ore settimanali.

Oltre alla riduzione delle tipologie contrattuali (e al ritorno della tutela dal licenziamento arbitrario), si prevede una iniezione di lavori nel Servizio civile nazionale, per 150mila ragazzi e ragazze ogni anno (lo ha promesso anche il governo, Sbilanciamoci! chiede di portare il budget da 113 a 840 milioni di euro l’anno).

Un ponte tra il lavoro e la previdenza sociale

Si arriva poi ai temi dei salari, delle pensioni e del welfare. Il prossimo fronte che si aprirà, se ne dice certo Landini, è quello del salario minimo, ossia la retribuzione (oraria, di solito) fissata per legge per specifici livelli lavorativi.

Siamo uno dei pochi paesi a non averlo: però abbiamo i minimi contrattuali, dicono i sindacati – che si oppongono al salario minimo legale vedendoci un grimaldello per scardinare il contratto nazionale. Ma così restano senza tutele tutti i lavoratori non dipendenti e i dipendenti non coperti da contratto nazionale (circa il 20 per cento del totale).

La proposta del Workers act è semplice: un salario minimo per i dipendenti, agganciato ai minimi contrattuali. Ma quali contratti? Quelli firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi (collegato a questo punto c’è il successivo, ossia l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale).

Ma nel Workers act c’è anche il lavoro autonomo, con due previsioni volte a rafforzare il potere contrattuale degli autonomi: tutela dagli abusi dei committenti, protezione sociale per disoccupazione, gravidanza, malattia, infortuni; e riforma delle tasse vessatorie sulle partite iva. Nella stessa direzione va la proposta di dare un assegno universale di maternità a tutte le madri per cinque mesi, pari al 150 per cento della pensione sociale, a prescindere dalla loro condizione lavorativa.

Infine, i capitoli di pensioni e reddito minimo. Sulle prime, l’obiettivo è evitare una futura ondata di pensionati poveri, vittime del combinato disposto tra sistema contributivo e salari bassi e intermittenti: si fanno due proposte alternative, la più papabile sembra quella di aggiungere alla pensione “contribuitiva” una pensione di base universale, tra i 460 e i 640 euro, da finanziare con la fiscalità generale.

Nella stessa direzione va la proposta di un reddito minimo per tutti. Qui il gruppo di lavoro di Sbilanciamoci! ha messo a confronto le varie proposte che ci sono in parlamento (tre al momento: di Pd, Cinque stelle e Sel, per un importo dai seimila ai 7.200 euro annui), e il Reddito di inclusione sociale (Reis) proposto dall’Alleanza contro la povertà.

Uscendo dalla discussione con l’idea che, a regime, il reddito minimo dovrà essere incondizionato, uguale per tutti e fare da ponte tra il lavoro e il non lavoro. Vale a dire: ce l’hai se sei “occupabile”, cioè una persona che ha lavorato, lavora a intermittenza, o vuole lavorare, senza differenza tra chi ha perso un lavoro e chi non l’ha mai avuto. Questo dovrebbe diventare un “elemento unificante del sistema di protezione sociale”, ora frantumato in mille rivoli che coprono solo una parte dei bisogni.

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