“Tagliare le tasse fa bene, ha un effetto positivo su chi ne beneficia se questo ritiene che l’abbattimento sia permanente”, ha detto il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan alla platea di Comunione e liberazione. La stessa davanti alla quale, il 25 agosto, il presidente del consiglio Matteo Renzi aveva ribadito la sua promessa di cancellare Imu e Tasi sulla prima casa dal 2016. È probabile che il ministro abbia voluto, nel rilanciare la promessa di Renzi, calcare l’accento sull’ultima parte della sua frase: “Se ritiene che l’abbattimento sia permanente”.

Se la tassa viene cancellata ma per poco, oppure abolita ma solo per essere riproposta con altro nome, probabilmente l’effetto positivo sarà scarso. E in passato, dall’Ici all’Imu alla Tasi, di annuncio in annuncio, di abolizioni finte o provvisorie se ne sono viste fin troppe. Non a caso il nodo principale dell’abolizione delle tasse sulla prima casa (quel che resta di Imu e Tasi) è e resta la copertura finanziaria: cosa che preoccupa notevolmente i comuni, dato che l’imposizione sulla casa è l’unica di sapore federalista, oltre che l’unica di carattere patrimoniale presente in Italia.

La risposta è: tanti

I soldi da trovare sono tra i tre e i quattro miliardi (che salgono a 4,3 se l’abrogazione si estende all’Imu agricola e ai capannoni e ai macchinari imbullonati): non sono tantissimi, ma neanche pochi nell’ambito della manovra per il 2016, che dovrà trovare quasi 17 miliardi solo per evitare l’aumento di altre tasse, Iva e accise, che scatterebbe altrimenti automaticamente in virtù della clausola di salvaguardia prevista dalla legge di stabilità 2015. Senza contare i soldi – tanti – che servono per adempiere alle altre promesse, dalla proroga degli sgravi contributivi per i neoassunti, ai bonus per le ristrutturazioni domestiche, agli aiuti contro la povertà.

In Italia quasi sette famiglie su dieci sono proprietarie dell’abitazione in cui vivono

Ma ammesso che trovare quei tre o quattro miliardi sia facile e indolore, e rassicuri Padoan sul fatto “che l’abbattimento sia permanente”, torniamo alla prima parte della frase del ministro: il taglio “ha effetti positivi su chi ne beneficia”. Ecco, chi ne beneficia?

La prima risposta è: tanti. Altrimenti non sarebbe argomento fisso delle campagne elettorali, o preannuncio delle stesse. Quasi sette famiglie su dieci, in Italia, sono proprietarie dell’abitazione in cui vivono (dati da Bankitalia). Ma capire “chi” sono, questi “tanti”, è utile non solo per avere un identikit più preciso di chi ne beneficia (e dunque gli effetti redistributivi della manovra), ma anche per fare qualche ipotesi sui suoi effetti economici, a catena.

Prendiamo il reddito, per esempio. Se nella media delle famiglie possiamo dire che più di due su tre sono proprietarie della casa in cui vivono, guardando il reddito vediamo invece che la proprietà dell’abitazione interessa solo il 34 per cento delle famiglie che appartengono al “quintile inferiore”, cioè al 20 per cento più basso della scala sociale. Mentre sarà avvantaggiato dall’abolizione totale delle tasse sulla prima casa il quintile più ricco, nel quale nove famiglie su dieci sono proprietarie dell’abitazione.

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Cercando invece di fare l’identikit in base alla professione dei suoi abitanti, la proprietà della casa in cui si vive interessa un 47,5 per cento delle famiglie operaie, contro un 85 per cento di quelle di dirigenti. Ma se queste categorie antiche (operai e dirigenti, poveri e ricchi) interessano poco il pensiero renziano, assai più sensibile dovrebbe essere per il suo staff economico la questione dell’età: la percentuale di proprietari scende attorno al 45 per cento per le famiglie con capofamiglia “giovane”, cioè sotto i 34 anni. E parliamo qui solo dei giovani che hanno famiglia e case autonome, non di quella vasta percentuale di trentenni che vive ancora in famiglia (attorno al 70 per cento, dice l’Istat).

Parallelamente, è nelle fasce anziane della popolazione che predomina la proprietà della casa, con un picco del 76,7 per cento tra i 55 e i 64 anni. I giovani, cavallo di battaglia dell’immagine del renzismo, ancora una volta devono aspettare, che si passi a un provvedimento sugli affitti o altro, oppure mettere da parte i soldi per comprarsi casa.

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È possibile che anche i non proprietari, prevalentemente giovani ma non solo, e in genere tutta l’economia beneficino degli effetti dell’abolizione dell’Imu-Tasi? Secondo il centro studi Nomisma, che stima in una media di 204 euro quel che i proprietari di prime case hanno pagato nel 2014, gli effetti di rilancio del mercato immobiliare sarebbero molto limitati: nel primo anno nell’ordine dello 0,11 per cento del pil e comunque inferiore all’1 per cento in dieci anni. Si può pensare che quei 204 euro medi servano a rilanciare i consumi e l’economia?

È quanto sostiene uno studio pubblicato sulla voce.info, secondo il quale nel 2012 la reintroduzione dell’Imu depresse il pil dello 0,11 per cento. Ma – senza contare il contesto di quel periodo e gli altri fattori che pesarono sulle scelte delle famiglie – potrebbero esserci altri modi di spendere gli stessi tre o quattro miliardi, con manovre di stimolo fiscale più dirette ed espansive della riduzione delle tasse sulla casa.

Ma nonostante tutte le obiezioni sull’equità, i benefici economici e la fattibilità, l’argomento “tassa sulla prima casa” resta sempre in primo piano, calamitato da quel 70 per cento di consenso che si presume sia automaticamente portato in dote da quel 70 per cento di proprietari. In più, ha il sapore di una sfida: se ne parla da sempre, stavolta la faremo davvero, promette il presidente del consiglio.

Cosa ci sarebbe di più equo, moderno ed efficiente che allineare i valori catastali a quelli reali?

C’è un’altra misura di cui si parla da sempre, a proposito di casa, e che ha un carattere di equità e un valore economico e persino morale molto maggiore. Riguarda i valori in base ai quali si tassano le case: è la riforma del catasto, tema più antico della Salerno-Reggio Calabria.

Tutti sanno, e possono verificare facilmente, che la differenza tra il valore reale e quello catastale di una casa può essere enorme. Nella media italiana, a ogni euro catastale ne corrispondono 2,3 reali. Ma dentro quella media c’è di tutto, per cui il catasto colpisce a casaccio: gli abitanti di una periferia nuova oltre il raccordo anulare di Roma pagano su tutto il valore di mercato, quelli di un bilocale in centro molto molto meno.

Grandi differenze

Cosa ci sarebbe di più equo, moderno ed efficiente che allineare i valori catastali a quelli reali? Eppure la riforma, partorita dall’agenzia del territorio dopo un’operazione di ricalcolo durata cinque anni, è stata bloccata quando è arrivata a Palazzo Chigi: il relativo decreto attuativo si è inabissato a giugno, e non è mai più riemerso. Si è saputo che dalla operazione di rivalutazione sarebbero venute fuori grandi differenze, tra regione e regione, tra città grandi e paesi piccoli. Che in una città come Genova o in intere regioni come la Toscana le rendite si sarebbero triplicate.

Ma c’era tutto il tempo, una volta avviata l’operazione, di rivedere poi anche le aliquote: la legge delega prevedeva “invarianza di gettito” a livello globale (cioè, la riforma del catasto non doveva essere un sistema truffaldino per aumentare le entrate fiscali dagli immobili), ma certo qualcuno avrebbe pagato di più e altri di meno. Una cosa giusta ma complicata, e soprattutto impopolare presso i ceti privilegiati dal sistema attuale.

Così, continueremo ad avere case di periferia che valgono più degli attici su piazza Navona, e stamberghe di campagna tassate di più di loft di tendenza. Il tema è accantonato, fino a nuovo ordine: per la stagione 2015-2016 si preferisce parlare di Imu-Tasi.

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