L’avvocato Niccolò Ghedini che si affida alla magistratura. Silvio Berlusconi che incita a “resistere, resistere, resistere”. Il governo che corteggia gli emiri del Qatar e rifiuta i capitalisti europei. Paradossi, involontaria comicità e vendette della storia permetterebbero di raccontare la vicenda Vivendi-Mediaset come una commedia all’italiana. Ma non c’è niente da ridere, è una storia economica e politica che svela che nell’anno 2016, a ventidue anni dalla discesa in campo di Berlusconi, siamo ancora immersi fino al collo nel male che lì è cominciato, con due zavorre-aggravanti in più: non avere la minima idea di una sistemazione dei confini tra stato e mercato (che dunque, in assenza di teoria, si tracciano à la carte, come serve); e di conseguenza proporsi, in tempi di nazionalismi e protezionismi risorgenti, ora per l’apertura delle frontiere ora per la loro chiusura, a seconda delle convenienze politiche del momento.
Vincent Bolloré, principale azionista e presidente del consiglio di sorveglianza di Vivendi, non è un benefattore. Ed è noto per i suoi modi spregiudicati, da squalo. In Francia parlano di un “metodo Bolloré”, che è molto simile a quello dello scorpione che si fa traghettare in groppa alla rana: entra nelle società con una quota minore, poi ne prende il controllo e se le mangia. Non gli piace fare il socio di minoranza, vuole comandare: cosa legittima nelle regole del mercato, tant’è che nessuno ha battuto ciglio quando questo potentissimo signore francese ha preso il controllo di Telecom, con una quota appena inferiore al 25 per cento. Con Bolloré la famiglia Berlusconi ha trattato fino ad aprile scorso per un’alleanza tra i due gruppi.
Poi a un certo punto il francese, non contento di come andavano le cose (e, ha detto, non tranquillizzato per quel che aveva visto nei conti Mediaset), ha rovesciato il tavolo e ha rotto le trattative. Dopodiché ha cominciato a comprare azioni sul mercato, fino ad arrivare – notizia dell’altroieri – al 20 per cento di Mediaset. Si tratta di una scalata “ostile”, nel senso che – a quanto se ne sa finora – non prelude a un accordo con il socio di maggioranza ma vuole scalzarlo.
È legittimo: il mercato esiste per questo. Ovvio che la famiglia Berlusconi ne sia dispiaciuta: in assenza di un accordo con Bolloré, l’unico modo per mantenere il controllo è resistere sul mercato, dunque metterci dei soldi. Hanno cominciato l’altroieri con piccoli passi, ma questa battaglia, se fatta fino in fondo e nel rispetto dei diritti degli azionisti di minoranza, comporterebbe una spesa molto, ma molto, più grande.
Cose strane
Fin qui, è un gioco a somma positiva: sale al comando chi paga di più per conquistare un’azienda che pareva decotta ma che, a quanto pare, ha ancora molte chance se messa in un polo continentale (una “Netflix europea”, sarebbe il progetto: non banale, in un settore dominato dai giganti statunitensi); e si tutelano gli azionisti minori, quello che in gergo giornalistico italiano si definiscono il “parco buoi” (ma sarebbe meglio dire “parco pecore” per l’attitudine a essere tosati). Purché la Consob – l’autorità di controllo sulla borsa – vigili, non ci siano turbative di mercato e non ci siano bari al tavolo. Questo sarebbe l’interesse pubblico da difendere: vigilare che non sia solo un giochetto per fare plusvalenze giocando in borsa e per far salire il valore delle azioni – gioco che può essere utile tanto a Bolloré quanto alla famiglia Berlusconi.
Ma il governo italiano appena insediato, europeista in politica e liberale in economia, non ritiene di dover stare a guardare garantendo il rispetto delle regole del gioco. Per bocca del ministro per lo sviluppo economico Carlo Calenda condanna la scalata, definita oltre che “ostile”, anche “inappropriata”. E questo perché il settore in cui opera Mediaset è “strategico”. Dunque, il governo italiano “vigilerà”. È un segnale politico a Bolloré, prima che l’annuncio di azioni concrete: il capitalista francese sappia che qui trova un governo ostile.
La maggioranza che sostiene il governo attuale ha assistito a varie operazioni di cessione del controllo di aziende italiane all’estero
Strano. Lo stesso ministro Calenda fino a poco tempo fa sedeva a Bruxelles, nelle istituzioni dell’Europa unita, le cui regole – non contestate dalla compagine che sostiene il governo – sono incentrate su pochi princìpi chiari, e uno di questi è la libera concorrenza all’interno dell’Unione. Dunque, dovrebbe fare poca differenza tra un gruppo francese, uno italiano e uno tedesco.
Ancora più strano. La maggioranza che sostiene il governo attuale ha assistito, a volte da protagonista, a varie operazioni di cessione del controllo di aziende italiane all’estero: la stessa Telecom, Alitalia, tutto l’alimentare (da Parmalat a Barilla a Carapelli), grandi marchi del lusso (da Bulgari a Poltrona Frau), Fiat Ferroviaria, AnsaldoBreda e Ansaldo Sts, Pirelli e Merloni, Italcementi: la lista completa è lunghissima. Si dirà: panettoni e gioielli non sono settori strategici. Ma trasporti e telecomunicazioni potrebbero esserlo, e comunque se non sono strategiche Telecom e Alitalia certo non lo è neanche Mediaset.
Super strano. Mentre il governo fa sapere ai mezzi d’informazione di guardare con preoccupazione alla concentrazione in mano francese di un colosso dei mezzi d’informazione (e i mezzi d’informazione riportano, per ora per lo più acriticamente), la terza banca italiana, la più antica del mondo, è nei guai e sta cercando, per uscirne fuori, i capitali del fondo sovrano del Qatar. Il Qatar è un petrostato messo molte volte sotto accusa per l’opacità dei rapporti con le centrali del terrore: ma la pecunia del Qatar non olet, quella francese sì. Perché?
L’interesse nazionale
A tutte queste stranezze si aggiunge l’ovvia latitanza del primo partito del centrodestra, quello che dovrebbe ispirarsi a mercato e libertà ma che non lo ha mai fatto. Ma Forza Italia non perderà la faccia per questo, la sua ragione sociale è storicamente troppo connessa con quella di Mediaset-Fininvest per sorprendere davvero. Il problema torna dunque nel campo della maggioranza di centrosinistra. Che dovrebbe valutare un altro problemino, che si aggiunge a tutti quelli precedentemente elencati.
Mettiamo pure che sia dimostrato l’interesse strategico della raccolta pubblicitaria e della produzione di contenuti Mediaset, e che questo sia nettamente superiore a quello di tutte le altre aziende che finora abbiamo lasciato andare sul mercato internazionale. Come ci si comporta, se il campione di questo interesse nazionale è lo stesso che può garantire con i suoi voti la sopravvivenza del governo nei passaggi più delicati dei provvedimenti nel cammino parlamentare? È Paolo Gentiloni che salva Mediaset o è Mediaset che salva Paolo Gentiloni?
Quando diventò premier nel 1998 Massimo D’Alema intese rassicurare i proprietari di Mediaset definendo l’azienda di Berlusconi “patrimonio del paese”. Oggi vengono riportate virgolette del presidente del consiglio che vedono “in gioco l’azienda Italia”. Nel frattempo, è cambiato il mondo, l’economia e anche il valore di Mediaset. Resta uguale forse la politica, che continua a confondere quel che si produce in un’azienda con i suoi proprietari. La produzione con “la roba”. E il mercato con il potere.
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