Sentire cum ecclesiam era il motto episcopale di Óscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador ucciso il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte mentre celebrava la messa nella cappella dell’ospedale della Divina provvidenza.

Da 22 anni era in piedi la causa per la sua beatificazione, sempre ostacolata sia da ambienti conservatori sia da chi vedeva in lui una figura principalmente politica e legata alla teologia della liberazione, un prete convertito alla rivoluzione, passato dall’amicizia con gli oligarchi a quella con i campesinos.

Sembra una forzatura disegnarlo con i tratti della semplificazione, come un uomo colpito da un’illuminazione improvvisa (la morte del gesuita Rutilio Grande) e vicino a quell’ideologia marxista che in America Latina conquistava terreno opponendosi alle dittature. La semplificazione appare in contrasto con il suo motto e con quella chiesa disegnata da Paolo VI a cui Romero continuava ad assicurare fedeltà (pochi giorni prima di essere ucciso aveva detto in una predica: “Per me il segreto della verità e dell’efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il papa”).

Piuttosto rimane la figura di un prete formato dalla tradizione romana, un pastore, innamorato del suo popolo e rattristato dalle maldicenze fatte circolare da alcuni settori curiali e dalla paura che queste divisioni arrivassero alle orecchie del papa.

Gli ultimi mesi della sua vita sono stati sicuramente resi più amari da questo isolamento, che dopo la sua morte rischiava di abbandonarlo all’oblìo, sicuramente non del popolo. Quando Giovanni Paolo II andò in visita in Salvador, nel 1983, il governo chiese che non fosse inserita nessuna tappa alla tomba di Romero, anche i vescovi la sconsigliavano. Fu l’impuntatura del papa polacco a pretendere che si trovassero le chiavi della cattedrale, sprangata. Raccontano che il pontefice disse che non si sarebbe mosso di lì fino a che non gli fosse stato consentito pregare su quella tomba. “Romero è nostro”, disse.

Ci voleva papa Francesco per rompere gli indugi e firmare il via libera della chiesa alla sua beatificazione: Romero è un martire, dice Roma, ucciso “in odium fidei”, a causa della sua predicazione. Un figura che, in sintonia con il Concilio vaticano II, voleva una chiesa di tutti e in particolare dei poveri, un vescovo che cercava la giustizia e denunciava le disuguaglianze, ma predicava pace e riconciliazione.

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