È il grande rimosso del nostro tempo. Gli allevamenti intensivi – i capannoni dove gli animali sono rinchiusi, fatti ingrassare, trattati con antibiotici per evitare che si ammalino, infine inviati alla macellazione – sono qualcosa che nessuno vuole vedere. Paradossalmente, mentre cresce il consumo di carne al livello globale, aumenta la distanza fisica e anche cognitiva tra noi esseri umani e gli animali di cui ci nutriamo.
Eppure, quella animale dovrebbe essere una delle questioni più dibattute del mondo contemporaneo, con le sue enormi implicazioni morali, ma anche ambientali ed energetiche. Oggi, nel mondo due animali su tre sono allevati in questo modo. Il sistema non è sostenibile: le bestie rinchiuse nei capannoni devono essere nutrite. Milioni di ettari di terreno servono alla produzione di cereali e legumi per i mangimi, e sono sottratti alla coltivazione per l’alimentazione umana. Secondo le stime di Tony Weis, professore all’università di Western Ontario, il meccanismo allevamenti-colture per la produzione di mangimi occupa oggi un terzo delle terre arabili.
L’allevamento intensivo è nato nel 1923 negli Stati Uniti quasi per caso: la signora Celia Steele, di Oceanview (Delaware), ricevette per errore 500 pulcini invece dei 50 che aveva ordinato. Non volendo disfarsene, pensò di chiuderli in un capannone, li nutrì con mais e integratori e gli animali resistettero all’inverno. Replicò l’operazione e diventò milionaria. Negli anni settanta un agricoltore del North Carolina, Wendell Murphy, applicò il metodo di Steele ai maiali. Seguirono le mucche, i conigli, i tacchini. Negli Stati Uniti, ci sono circa 70 milioni di maiali rinchiusi nei capannoni.
E in Italia? Secondo le cifre dell’anagrafe zootecnica italiana, sono otto milioni, l’80 per cento dei quali ripartiti tra Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. Nella sola provincia di Brescia ci sono 1.286.418 suini, circa ventimila più dei residenti. Nessuno li vede, perché nessuno li vuole vedere.
L’indagine dell’associazione Essere animali è la più completa mai condotta in Italia. Si tratta di un lavoro clandestino, fatto di appostamenti, di accessi notturni, di inviati sotto copertura. Le immagini che ne sono scaturite, di cui presentiamo qui una selezione, sono inquietanti. I maiali sono ammassati in spazi minuscoli, le scrofe sono imprigionate nelle cosiddette gabbie di gestazione, che gli impediscono ogni movimento. I polli “allevati a terra” (come si legge sulle etichette delle uova) vivono in capannoni sovraffollati privi di contatto con l’esterno. Gli uccelli non riescono a stare in piedi sulle proprie zampe perché sono letteralmente “gonfiati” con mangimi e ormoni. Tutto ciò non è un’eccezione, ma la prassi. Ed è una prassi del tutto legale.
Lontani dai riflettori, questi animali risultano invisibili. Sono pura e semplice materia prima. Ma anche coloro che lavorano in questi capannoni sono invisibili: la grande maggioranza della manodopera negli allevamenti intensivi è costituita da immigrati, per lo più indiani, sottoposti a turni massacranti e a mansioni che molti di noi non accetterebbero. Questo è il sistema di sfruttamento e di sofferenza alla base della produzione intensiva di carne. Quel sistema che l’industria non vuole mostrare, ma che noi fingiamo di ignorare, felici di ottenere carne a basso costo il più spesso possibile.
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