Già a metà ottocento il linguista americano William Whitney segnalò l’interesse teorico delle lingue dei segni usate dai sordi. Nelle comuni lingue la comunicazione è “multimodale”. È non solo orale e uditiva o mediata dalla rappresentazione scritta dell’orale, ma di norma si accompagna a produzione e ricezione di segnali collaterali su altri canali, corporei, mimici e visivi (o grafici e tipografici nello scritto).
Nelle lingue non orali ma segnate, la multimodalità è soprattutto gestuale e visiva. Questa differenza evidente non le priva della capacità che hanno le lingue audiorali nell’accogliere e trasmettere significati d’ogni tipo, dai più concreti e prevedibili ai più astratti e imprevisti. Esse sono lingue a pieno titolo, complesse e diverse nello spazio e nel tempo.
Negli ultimi sessant’anni con il crescente rispetto dei diritti, anche linguistici, di persone e minoranze, le lingue dei segni si sono guadagnate quote di presenza nella vita sociale e della comunicazione. Ciò è avvenuto in tutta Europa e in parte anche in Italia. Da
Language rich Europe, il rapporto promosso dal British Council curato da Guus Extra e Kutlay Yagmur, apprendiamo che le lingue dei segni hanno inoltre riconoscimenti formali come lingue di minoranza in 18 dei 24 paesi studiati. Ma non in Grecia, non in Italia.
Qui alcuni parlamentari hanno bloccato per i sordi, come anche per i rom, la tutela che costituzione (art. 6) e parlamento europeo prevedono per le lingue delle minoranze.
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