Studenti nel cortile dell’Istituto tecnico industriale J. C. Maxwell di Milano. (Alessandro Imbriaco, Contrasto)

Proviamo a dire il più brevemente possibile, per tratti essenziali, qual è il quadro della scuola italiana oggi: oltre 9 milioni di alunne e alunni dall’infanzia all’adolescenza e prima giovinezza; quasi un milione di dipendenti pubblici al lavoro come tecnici amministrativi e insegnanti distribuiti in categorie diverse per materie di insegnamento e per tre o forse quattro ordini o gradi o livelli di scolarità; oltre diecimila istituti, sparsi in un numero ben maggiore di edifici in altissima percentuale fuori norma e vetusti; un dedalo di canali di studio mediosuperiori, oltre venti (anche dopo il prosciugamento introdotto da Maria Stella Gelmini); assai diversa efficienza degli apprendimenti nelle diverse regioni del paese e nei diversi livelli, dalla molto buona efficienza delle scuole dell’infanzia e primarie alla mediocrità di risultati delle secondarie superiori; fenomeni persistenti di disaffezione e abbandono degli alunni; natura assai composita e tutta da rivedere nei meccanismi di formazione e selezione dei diversi tipi di insegnanti, a non parlare dei presidi; riduzione del numero e del fondamentale ruolo degli ispettori centrali; carenza cronica di attrezzature bibliotecarie, laboratoriali, sportive e di risorse finanziarie; impatto disordinato degli sviluppi dei campi del sapere sui contenuti degli insegnamenti; scarsa stima sociale per la lettura, lo studio, la cultura intellettuale e, quindi, per gli e le insegnanti; riflessi inevitabili dei bassi livelli di competenza della popolazione adulta (ultima o penultima in Europa) sul cammino scolastico (torniamo a loro) di alunne e alunni.

L’elenco è approssimato per difetto e lascia in ombra il fatto che ciascuno degli elementi elencati ha connessioni multiple e intrecci con gli altri. Dovrebbe bastare però a spingere chi parla di scuola a esser cauto dinanzi a una realtà così complicata prima di avventurarsi in proposte rivoluzionanti questo o quell’aspetto.

Non sembra di questa opinione il ministro Giuliano Poletti. In un convegno organizzato a Firenze dalla Regione Toscana sui fondi europei e la condizione dei giovani italiani il ministro, secondo un virgolettato comune a più giornali, ha detto:

Un mese di vacanze va bene. Ma non c’è obbligo di farne tre. Magari uno potrebbe essere passato a fare formazione… I miei figli d’estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse. Sono venuti su normali, non sono speciali.

Secondo la cronaca di Repubblica queste parole sono state accolte da uno scroscio di applausi. Consensi sono venuti anche da esponenti del governo e della maggioranza, dissensi dal mondo della scuola, presidi, studenti, docenti, da Susanna Camusso e da sindacati. Il rapporto tra gli apprendimenti scolastici e le attività pratiche, operative, di cui anche l’esperienza del lavoro sotto padrone può essere una parte, è un tema serio. Un ministro, specie quello del lavoro, non dovrebbe ridurlo alla vicenda dei suoi figli verdurai in vacanza né al tema delle vacanze. Ma così ha fatto e la cosa ha fatto notizia. L’eccesso di vacanze della nostra scuola è un luogo comune ricorrente. È fondato?

Una pubblicazione della rete europea Eurydice, Le cifre chiave dell’istruzione in Europa (qui il pdf), consente di estrarre un quadro dei tempi scuola nei diversi paesi. Tutti i sistemi scolastici (non la scuola di Barbiana) concordano nell’alternare a periodi di attività periodi di vacanza. Una caratteristica comune è riservare il periodo più lungo di vacanze all’estate. I periodi estivi sono di durata un po’ diversa per inizio e fine, tutti però includono il luglio e in generale anche l’agosto. Mettiamo dunque anzitutto i paesi in ordine decrescente di durata delle vacanze estive misurata in settimane:

13 settimane Lettonia, Lituania, Turchia
12-13 settimane Italia
12 settimane Cipro, Estonia, Grecia, Portogallo
11 settimane Ungheria, Croazia, Spagna
10-11 settimane Finlandia
10 settimane Svezia
9 settimane Austria, Belgio, Irlanda, Regno Unito-Irlanda del Nord, Repubblica Ceca, Francia
8 settimane Norvegia
7 settimane Danimarca
6 settimane Germania, Liechtenstein, Paesi Bassi, Regno Unito-Inghilterra e Galles

Le vacanze estive sono le più vistose, ma non le sole. In generale c’è una compensazione tra vacanze estive e vacanze intercalate durante l’anno con modalità diversa a seconda dei paesi. Dopo grandi discussioni la Francia è per ora il paese che ha più sistematizzata l’alternanza di periodi didattici e periodi di vacanze. Oltre che d’estate le scuole si fermano ogni sei, sette settimane per quindici giorni. Per le Petites vacances il paese si divide in tre fasce che di anno in anno alternano i periodi per evitare eccessivi affollamenti nelle località di villeggiatura.

Nel resto d’Europa i periodi di vacanze intercalate cadono in autunno, a Natale (due e anche tre settimane), Carnevale, Pasqua (una settimana in Italia, due nel Regno Unito). Tenendo conto di feste religiose o nazionali di durata minore, decise, a seconda dei paesi, o dagli stati o dai comuni o, come in Inghilterra, dalle singole scuole, il risultato è che nei paesi europei in generale la somma complessiva di giorni di vacanza nell’anno è di 120 giorni circa e quindi circa 185 sono i giorni di scuola. Ma alcuni paesi restringono i giorni complessivi di vacanza e toccano i duecento giorni di scuola: Danimarca, Liechtenstein, Paesi Bassi e Italia.

Ma per valutare il tempo scuola non basta assumere a riferimento la “settimana” come se fosse dappertutto eguale. La settimana scolastica è in generale di cinque giorni con esclusione quindi del sabato, è di quattro giorni in Francia, di sei in Italia e in alcuni Länder tedeschi. Infine un’ultima variabile: anche “ora di lezione” è un riferimento comune, ma, come mostra e avverte Eurydice, l’ora di lezione varia tra i 40 o i 50 minuti nella generalità dei paesi e i 60 minuti in Italia.

Chi ha avuto pazienza di seguire l’esposizione capisce che una cosa non può e non dovrebbe dirsi: che l’Italia si segnali per un eccesso di vacanze scolastiche e per un difetto di durata complessiva del tempo scuola.

Occorre infine fare almeno due considerazioni.

La prima, se si hanno presenti le indagini Ocse sulle competenze di base, si ricava anche da un’occhiata d’insieme ai dati fin qui riportati: non c’è una correlazione positiva diretta tra tempi scuola, del resto tendenzialmente nel complesso poco diversi, e scarti significativi nei livelli di apprendimento di alunne e alunni e di efficienza dei sistemi scolastici.

Lo spiegava tanti anni fa Aldo Visalberghi e, come altri suoi insegnamenti, anche questo merita d’essere ricordato. Il fattore qualità domina sul fattore quantità e il fattore qualità è dato anzitutto dalla qualità degli insegnanti, insegnanti cioè dalla loro adeguata formazione e reclutamento e dalla loro motivazione largamente dipendente dalla stima sociale che vien loro assegnata. Chi blatera sugli insegnanti sfaccendati e privilegiati dalle troppe vacanze non soltanto dice sciocchezze ma, contribuendo ad abbassarne la stima sociale, concorre alla loro demotivazione e danneggia quindi l’intero sistema dell’istruzione.

Seconda e ultima considerazione. Non si spiegherà mai abbastanza che un solido apprendimento non può essere un apprendimento verbalistico, ripetitivo di formule e discorsi, ma deve essere operativo, consistere e mettersi alla prova non nel ripetere, ma nel fare, e possibilmente nel fare in modo nuovo cose nuove e utili.

Su questa via le scuole possono incontrare utilmente anche attività di lavoro purché ciò avvenga all’interno di un progetto educativo. Che hanno ricavato di conoscenze e competenze i ragazzi di Giuliano Poletti dagli spostamenti estivi di cassette del fruttarolo, ortolano, erbivendolo, erbaiolo o come altrimenti si dica?

Negli Itis, gli istituti industriali di stato, ci sono state eccellenti esperienze di integrazione progettuale e regolata (e coperta assicurativamente) tra formazione nelle aule e progetti di collaborazione a imprese o servizi pubblici. Andrebbero considerate con attenzione, riprese negli anni finali di tutti i venti e più canali scolastici, licei classici compresi. Ci aiuterebbero sulla via del trasformare le aule da auditorium in laboratorium.

Probabile che di ciò sappiano avvantaggiarsi anche gli imprenditori, ma se ne avvantaggia soprattutto la qualità degli insegnamenti e del contributo che le scuole danno all’intera vita sociale.

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