Martha Nussbaum anni fa denunciò i rischi del declino degli studi umanistici negli Stati Uniti. Anche con l’autorità di Amartya Sen, il grande economista e pensatore indiano, Nussbaum spiegò che tagliare la radice degli studi storici e umanistici significa togliere linfa alla vita civile e democratica. I rischi riguardano l’intero mondo occidentale. E appaiono ora anche più vasti e gravi di quel che pensava Nussbaum.
Undici anni fa li aveva additati un economista colto e pensoso, David Breneman, in un libro sulla progressiva atrofia dei college di liberal arts. Questo termine di derivazione latina medievale negli Stati Uniti copre l’intero spettro degli studi non professionalizzanti, ma orientati alla conquista di un sapere puro: studi storico-letterari certamente, ma anche lingue moderne, scienze naturali, biologiche e ambientali, e matematica, statistica, scienze sociali e comportamentali. Negli anni novanta i college di liberal arts erano seicento, Breneman mostrò che solo duecento meritavano il nome. Oggi sono centotrenta.
Il New York Times con una lunga intervista a Breneman si unisce a lui nel lanciare l’allarme: tra pochi anni saranno poco più di cento, mentre si espandono vistosamente i college di economia e commercio. Soffocare gli studi umanistici e scientifici puri, non rivolti a evidenti ricadute sul profitto, significa atrofizzare la formazione di menti critiche capaci di intendere con competenza e farci intendere il mondo in cui viviamo.
Questa rubrica è stata pubblicata l’18 settembre 2015 a pagina 90 di Internazionale, con il titolo “Una causa perduta?”. Compra questo numero | Abbonati
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