Sono di nuovo in aereo. Ormai volo almeno due volte a settimana e generalmente uso il tempo del viaggio per lavorare, così non presto troppa attenzione a quello che mi succede intorno. Questa volta, però, davanti a me sono seduti due uomini che mescolano parole romene e romaní, la lingua degli zingari. Sono ladri. Rubano in Svizzera e ogni tanto tornano a casa, con voli low cost, per far vedere quanto sono fichi.
Accanto, invece, ci sono due signorine che – vengo a sapere senza volerlo – fanno le spogliarelliste. Anche loro in Svizzera. Una di loro capisce il romaní e traduce all’altra quello che si dicono i due tipi davanti, che lentamente ma implacabilmente si ubriacano con una bottiglia di whisky rubata in aeroporto.
Io intanto provo a leggere, ma le conversazioni dei miei vicini sono irresistibili. Vengo a sapere i posti migliori per rubare in Svizzera e chi sono i clienti più assidui del nightclub dove lavorano le ragazze.
Vivere di nascosto
Nel 2004, mentre lavoravo a Bruxelles, il canale televisivo romeno Pro Tv mi aveva invitato a parlare di rom che hanno avuto successo. Qualche giorno prima di andare in tv avevo incontrato un ex compagno di studi, che in quel momento era il direttore della filiale locale di una delle più importanti aziende straniere presenti in Romania. Lui si chiama Petre e proviene da una famiglia di rom argintari, quelli che lavorano l’argento. Ero felice di vederlo e gli proposi di venire con me in tv.
“E perché?”, mi aveva chiesto lui. “Come perché? Perché sei rom e perché ce l’hai fatta”, avevo replicato. “Mi dispiace ma non posso. Rischio di perdere il mio impiego. Dove lavoro nessuno sa che sono rom”.
Abbiamo parlato tutta la sera di quanto fosse complicato per Petre fingere che la sua famiglia non esistesse
La sua frase mi aveva parecchio rattristato. Petre mi spiegò che stava nascondendo a tutti le sue origini. Mi aveva invitato a casa sua, pregandomi di non far cadere il discorso sul tema dei rom, perché neanche sua moglie ne sapeva nulla. Conoscevo sua moglie, anche lei era stata mia compagna di studi. Appena entrato in casa, le chiesi subito se sapeva che suo marito era zingaro. Petre rispose una smorfia e lei aveva riso. “Certo che so che è zingaro, ho visto i suoi genitori”.
Abbiamo parlato tutta la sera di quanto fosse complicato per Petre fingere che la sua famiglia non esistesse e per la moglie provare a proteggerlo dalle sue stesse paure. Poi ho accusato entrambi di ipocrisia. Non so se i loro figli siano mai venuti a sapere di essere nati in una famiglia mista. Ma ho dei dubbi.
Battaglie contraddittorie
A metà degli anni novanta ho fatto il manager in un’azienda di Craiova. Il fatto che fossi rom era emerso gradualmente. E la reazione è stata buffa: buona parte dei dipendenti ha continuato a negare la verità. Per giustificare il mio incarnato un po’ troppo scuro sostenevano che avessi origini greche. Ancora oggi una delle persone che mi sono più vicine preferisce che io rimanga in silenzio quando viene fuori il discorso della mia origine etnica.
I problemi esistono anche dall’altra parte della barricata. Parecchi attivisti rom mi rimproverano di non usare abbastanza il mio successo per promuovere un dibattito sui problemi dei rom, che secondo loro sono i più urgenti di tutti. Spesso le battaglie che mi chiedono di sostenere sono in contraddizione tra loro.
Da molto tempo i rom sono rappresentati solo con esempi estremi. E questo non aiuta. I bambini dei quartieri ghetto di Bucarest, con cui passo quasi tutti i fine settimana, per la maggior parte sono nati in famiglie miste. Sono considerati rom ma, se potessero scegliere, vorrebbero non esserlo. Quello che desiderano è solo essere bambini.
Negli ultimi vent’anni mi è capitato spesso di incontrare cittadini romeni che nascondono le loro origini rom. E anche tanti romeni, specialmente in Canada, che si vergognano di dire di essere romeni. La paura non deriva da quello che siamo davvero, ma da come siamo percepiti.
Direttamente dagli anni novanta
Verso la fine del mio viaggio in aereo vengo a sapere che i due tipi seduti davanti a me sono di Caransebeş, la cittadina dove ho passato gran parte della mia infanzia. Non posso fare a meno di dirglielo. Le due ragazze accanto a me rimangono attonite: non credevano che parlassi romeno. Poi scopro che i due ladri non sono rom. La lingua l’hanno imparata in carcere. Sono cresciuti in un orfanotrofio e usano il romaní per non farsi capire dai romeni.
Entrambi rimangono molto colpiti quando scoprono che sono il nipote di Geta. Nel tempo libero zia Geta faceva l’indovina a Balta Sărată e, a quanto pare, era molto più famosa di quanto potessi immaginare. Le signorine sono di Costanza. Io, invece, sono l’unico che rifiuta di bere dalla bottiglia di whisky che passa di mano in mano.
Quando atterriamo mi rendo conto che la gente mi guarda in modo strano. Sono vestito in giacca e cravatta e accanto a me ci sono due ragazze agghindate in modo piuttosto discinto e due omoni ubriachi che parlano ad alta voce e usando parole in romaní. È vero che i due sono abbastanza chiari di carnagione, ma sono certo che per alcuni passeggeri ho tutto l’aspetto di un businessman losco e in odor di criminalità uscito direttamente dai primi anni novanta.
(Traduzione di Mihaela Topala)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale romeno Dilema Veche.
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