“La rivoluzione verde? Comincia ai fornelli”, esclama Wanjira Mathai, che ha il sorriso della madre Wangari, prima africana premio Nobel per la pace. Anche l’impegno è lo stesso. Continua con il Green belt movement, la rete per l’ambiente e i diritti civili fondata da Wangari nel 1977, e si rafforza con un progetto nuovo. “Si chiama Partnership on women’s entrepreneurship in renewables” spiega Wanjira, 44 anni: “È un’alleanza delle donne per cambiare mentalità e abitudini”.

Un cammino lungo ma necessario, che comincia negli slum e nei villaggi, anche grazie a un sostegno del dipartimento di stato statunitense. “Nel mondo tre miliardi di persone cucinano con carbonella, cherosene o altri combustibili tossici”, sottolinea Wanjira: “In Kenya lo fa addirittura il 90 per cento della popolazione, perché solo un abitante su tre ha accesso all’energia elettrica”.

Il fenomeno ha conseguenze a livello sociale, sanitario e ambientale. Secondo dati presentati a un vertice delle Nazioni Unite che si è tenuto a Nairobi alla fine di maggio, ogni anno i fumi da cucina uccidono quattro milioni di persone, più di malaria, tubercolosi e aids messe insieme. In Africa queste emissioni sono responsabili di almeno il 25 per cento del black carbon, nano particelle di carbonio generate dalla combustione imperfetta dei carburanti fossili, uno dei fattori chiave del riscaldamento globale insieme con la deforestazione.

Ma Wanjira, come la madre, è convinta che cambiare si può e che bisogna cominciare dalle donne: “Puntiamo a coinvolgere ottomila imprenditrici, influencer cruciali per la diffusione di competenze e abitudini. Le incontriamo nei villaggi per spiegare come funzionano fornelli ecologici, lampade solari e altre tecnologie d’avanguardia, rigorosamente off grid perché spesso nelle aree rurali l’elettricità resta un miraggio”. Le soluzioni sono diverse ma tutte certificate da Global alliance for clean cookstoves, un gruppo di esperti al lavoro su mandato Onu.

L’impegno comune a mantenere l’aumento delle temperature al di sotto dei due gradi rivela una volontà politica

Una delle idee più popolari l’ha avuta un giovane keniano, Tom Osborn, che ha sperimentato mattonelle e carboncini ricavati da scarti agricoli. Ne è nata un’azienda, Green char, che ora produce fornelli ad alta efficienza, capaci di trattenere più calore riducendo costi ed emissioni nocive. “Sono piccole storie ma fanno capire che in prospettiva l’Africa può voltare le spalle ai combustibili fossili scommettendo sul sole, l’acqua e il vento”, dice Wanjira. A fine dicembre, dalla conferenza di Parigi sul contrasto ai cambiamenti climatici, è tornata ottimista: “Sui tagli alle emissioni di gas serra non sono state approvate misure vincolanti per i singoli stati, ma l’impegno comune a mantenere l’aumento delle temperature al di sotto dei due gradi rivela una volontà politica”.

Nella capitale francese a dare un segnale sono state le delegazioni dei paesi subsahariani, promotori dell’African renewable energy initiative (Arei). Il piano mira a moltiplicare la capacità di generazione dalle fonti alternative, dieci giga watt entro il 2020 e addirittura 300 entro il 2030. Si tratta di saltare un’intera fase di sviluppo, puntando su un modello decentralizzato con migliaia di microcentrali e minigriglie che rendano inutili le linee di trasmissione: una rivoluzione, che permetterebbe a 600 milioni di africani di abbandonare diesel, cherosene e legna come fonte di energia per dar luce e cucinare.

Il problema sono gli investimenti necessari. La Banca africana di sviluppo si è impegnata a garantire cinque miliardi di dollari all’anno entro il 2020, ma il progetto costa molto di più: 20 miliardi nei prossimi cinque anni e addirittura 500 miliardi nell’arco di vent’anni. Wanjira sa fare i conti, ma non perde l’entusiasmo e si rimbocca le maniche. “Se ci impegniamo le risorse le troveremo”, assicura: “È fondamentale far capire ai giovani che solo lottando possiamo farcela”.

Sembra di ascoltare Wangari, il premio Nobel, scomparsa nel 2011. Con le sue quattromila volontarie aveva ricostituito argini per contrastare l’erosione dei suoli, piantando 51 milioni di alberi. Era convinta che la lotta per i diritti delle donne, costrette a camminare ore per far legna, coincidesse con la tutela dell’ambiente. Adesso il comune di Nairobi le ha intitolato una via. Non una strada qualunque: Mathai road attraversa il centro e raggiunge Karura, la foresta simbolo che il Green belt movement è riuscito a proteggere da ladri di terre e speculatori edilizi.

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