I quattro ragazzi di 16 o 17 anni presenti all’incontro vogliono diventare medici. Il preside li ha scelti per parlare con un team dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa) di come migliorare le condizioni di vita dei giovani nel campo di Al Arrub, in Cisgiordania.
Dato che il campo è piccolo e ospita ben undicimila persone, molte famiglie hanno acquistato terreni dei villaggi vicini. In questo modo hanno parzialmente risolto il problema del sovraffollamento, ma ne hanno incontrato un altro: gli israeliani non vogliono concedere il permesso di costruire su quei terreni. Così la maggior parte dei profughi continua a vivere in condizioni terribili.
Negli ultimi anni si sono anche moltiplicati gli scontri tra gli abitanti e l’esercito israeliano. I giovani lanciano pietre e i soldati rispondono con lacrimogeni, raid notturni e a volte con le pallottole. I quattro aspiranti medici non partecipano agli scontri. “Rispettiamo chi lo fa”, dicono, ma aggiungono alcune frasi significative: “Alcuni vogliono essere arrestati per incassare i soldi che l’Autorità palestinese versa ai prigionieri”. “Le pietre non servono a niente. Anche studiare è una forma di lotta”.
Il termine “lotta” riferito alla loro scuola è sicuramente appropriato. Metà dell’edificio è stata costruita senza permesso e potrebbe essere demolita dalle autorità israeliane. Non ci sono laboratori, non c’è una biblioteca e non si pratica sport. “Eppure abbiamo i voti più alti della regione”, dice con orgoglio uno dei ragazzi.
Traduzione di Andrea Sparacino
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