Su Repubblica di qualche giorno fa, Francesco Merlo se la prende con i maiali, le ancelle e i toga party laziali, e commenta “come si vede, l’impiastricciata e gelatinosa antropologia, quella dei mestieri vaghi e imprendibili che altrove produce ‘i creativi’, a Roma subito si degrada…”.

Per carità: a chiunque, sull’onda di un’indignazione più che legittima, può scappare un’affermazione spericolata. Ma proviamo a porci una domanda semplice: come mai nel nostro paese, che fino a pochi anni fa si riteneva il più creativo del mondo, oggi sembra elegante svalutare la creatività identificandola con fenomeni e comportamenti loschi o cialtroni?

Eppure le cose non stanno così. Nel 2006 il rapporto Ue/Kea intitolato

L’economia della cultura in Europa (qui in pdf) valuta per la prima volta l’impatto economico complessivo della attività culturali e creative: stiamo parlando di editoria, moda, design, cinema e fotografia, radio e tv, web, teatro, videogiochi, arti visive, musei, siti archeologici, turismo culturale…

I dati sono impressionanti: il settore culturale e creativo fattura, nel 2003, più di 654 miliardi di euro. Oltre il doppio dell’intera industria automobilistica (271 miliardi). Contribuisce al pil Ue più di tutte le attività immobiliari. E cresce, in cinque anni, del 12,3 per cento in più della crescita economica globale.
 In Italia vale il 2,3 per cento del pil. In Gran Bretagna il 3 per cento. In Francia il 3,4 per cento. In quasi tutti i paesi europei il settore della cultura e della creatività dà il maggior singolo contributo alla crescita della ricchezza nazionale.

Il rapporto passa sotto silenzio.

Nel febbraio 2012 un convegno del Sole 24 Ore offre un quadro aggiornato. L’Italia è ultima in Europa per imprese culturali e creative: sono circa 176.000, il 4,4 per cento del totale delle aziende e occupano il 2,2 per cento della forza lavoro (circa 355mila addetti), con una media di 2 addetti per impresa. In Europa sono il 5,5 per cento e valgono il 3 per cento degli occupati con una media di 4 addetti per impresa. In Italia il settore, se valorizzato, potrebbe avere dimensioni almeno doppie.

Reazioni istituzionali: non pervenute.

Il 24 settembre la Commissione europea pubblica, a cura della Eenc (la rete europea di esperti della cultura), una serie di rapporti sulle *creative and cultural industries *(Cci) e l’utilizzo dei fondi strutturali in dodici nazioni Ue.

Il documento che si intitola Culture and the structural funds in Italy (ecco il pdf) esordisce con questa considerazione: “L’Italia sembra naturalmente portata a dare alla cultura un ruolo centrale nelle strategie di sviluppo, per la ricchezza del suo patrimonio culturale e per il ruolo eccezionale che la cultura ha nel definire la sua identità di nazione… Ma il dibattito politico ancora soffre di una interpretazione scadente e ingannevole del ruolo della cultura e della creatività… il paese non ha una strategia nazionale… l’azione politica appare male orientata e/o inefficace rispetto alle reali priorità di sviluppo”.

Seguono una sessantina di pagine che analizzano nel dettaglio le politiche territoriali caotiche, l’assenza di prospettive, l’attitudine a considerare cultura e creatività alla stregua di una qualsiasi attrazione turistica e non in termini di impresa e di creazione di nuovo valore. In sintesi: da noi l’ambito culturale e creativo è molto idealizzato ma poco legittimato socialmente. Viene ritenuto sacrificabile in tempi di crisi. Se ne parla come del “petrolio italiano”, ma in modo intenzionalmente fumoso, come se fosse un rimedio semi-magico.

L’Italia continua ad avere una riconosciuta leadership internazionale in diversi settori culturali e creativi, il cui potenziale non è però percepito perché lo sviluppo delle imprese culturali e creative non rientra nell’agenda politica. Basti dire che il budget del ministero della cultura è stato decurtato del 36,4 per cento tra il 2001 e il 2011, e oggi vale solo lo 0,9 per cento della spesa pubblica.

Prese di posizione su questo tema, anche se già siamo in pieno dibattito elettorale: zero.

Correzione (1 ottobre 2012) In una versione precedente di questo articolo c’era scritto che il rapporto L’economia della cultura in Europa è della McKinsey, mentre è della Kea.

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