Capelli bianchi, abito formale e disinvoltura cosmopolita nel commentare tabelle e istogrammi, Andreas Schleicher potrebbe essere scambiato per un pezzo grosso della Bce. Invece fa un lavoro molto più appassionante: è il direttore del programma Ocse-Pisa (l’indagine internazionale che confronta le competenze degli studenti di oltre 60 paesi del mondo), e uno dei massimi esperti mondiali di sistemi scolastici.
“Competenze” (
skills) è la parola-chiave per capire l’obiettivo del Pisa. L’idea di base è che imparare non sia un’attività che trova la sua giustificazione in se stessa, ma serva a sviluppare il potenziale di ogni individuo. Schleicher parla per un’ora scarsa nella sala d’onore della Triennale di Milano e io riempio cinque fogli di appunti fitti. Dice che l’istruzione è la vera moneta di scambio delle economie del duemila: le persone non istruite si trovano facilmente marginalizzate, le nazioni poco istruite non sono in grado di competere.
Ma una maggiore offerta di istruzione non sempre si traduce in più competenze spendibili: in molti paesi, dall’Egitto al Giappone all’Italia, succede che molte persone istruite non trovino lavoro e che, contemporaneamente, molte imprese lamentino la mancanza di persone preparate da assumere. Oggi la scuola è nel bel mezzo di una situazione paradossale: le abilità manuali e cognitive di routine, che sono più facili sia da insegnare sia da verificare, sono sempre meno richieste e perdono di valore. Il perché è ovvio: essendo attività meccaniche, sono anche le più semplici da meccanizzare o da esternalizzare.
Fonte: What students know and can do, Andreas Schleicher (Pisa 2010)
Acquistano valore, invece, competenze complesse da imparare e difficili da insegnare: oggi essere alfabetizzati non vuol dire solo saper leggere e scrivere, ma essere capaci di orientarsi in un testo. Di capirlo, interpretarlo, sintetizzarlo. Di confrontarlo con altre fonti e di gestirne le ambiguità. Servono creatività, pensiero laterale, pensiero critico, attitudine al
problem solving, capacità di comunicare e collaborare.
Le chiavi del successo
Il cambio di paradigma, dice Schleicher, è drastico: l’apprendimento non coincide più con un luogo (la scuola) ma è un’attività continuativa, una delle cui infrastrutture è la scuola. Non riguarda più il curriculum e l’omologazione degli studenti: la diversità non è più un handicap, ma un capitale da sviluppare (sul tema vi segnalo questo articolo dell’Economist). E l’obiettivo non è più fornire un’istruzione intesa in senso burocratico, ma creare reti di insegnanti e di scuole capaci d’innovare focalizzandosi sui risultati ottenuti dagli studenti. Appunto: le competenze.
Gli studi attuati dal Pisa dimostrano che la spesa per l’istruzione spiega meno del 20 per cento delle diversità di rendimento tra studenti nei paesi industrializzati: la differenza sta nel come le risorse vengono investite. Le chiavi del successo sono due. Entrambe hanno a che fare con i valori che in ogni singola nazione si considerano prioritari.
In primo luogo, i sistemi scolastici eccellenti appartengono a paesi che valorizzano l’istruzione e gli insegnanti, considerati highly skilled workers la cui capacità va riconosciuta anche sotto il profilo retributivo. In Finlandia, per esempio, insegnare è il secondo mestiere più ambito dai migliori tra i laureati.
In secondo luogo, i sistemi scolastici eccellenti non prescrivono cose da insegnare ma obiettivi che gli studenti devono raggiungere, e sviluppano in modo equilibrato sia l’opportunità di eccellere per tutti, sia la reale eccellenza dei migliori. Incoraggiano i ragazzi e le famiglie (ancora Finlandia e molti paesi asiatici) a pensare che ognuno può sviluppare, se si applica, talenti straordinari.
Per esempio: se intervistati, gli studenti statunitensi dicono che per andar bene in matematica bisogna esserci tagliati, mentre nove studenti asiatici su dieci rispondono che basta applicarsi, e sono convinti che gli insegnanti possano aiutarli a farlo. Due generazioni fa, l’istruzione secondaria negli Stati Uniti era la migliore del mondo e anche su questo fatto si è costruito il successo economico della nazione. Oggi la performance statunitense è nella media, non perché sia calata ma perché gli standard sono cresciuti molto più in fretta altrove.
Una nota positiva
Per cambiare un intero paese attraverso l’istruzione bastano due generazioni. È il caso della Corea del Sud, che negli anni sessanta aveva il livello medio di istruzione, di sviluppo e di qualità della vita dell’Afghanistan di oggi. Per porre riparo alle disuguaglianze e migliorare la performance globale può bastare un solo decennio, com’è successo in Germania tra il 2000 e oggi. Per cambiare lo stile d’insegnamento può bastare anche meno: tra il 2006 e il 2009 gli studenti giapponesi hanno fatto enormi progressi nel problem solving e nella capacità di pensare in modo indipendente e creativo. E il Giappone del dopo tsunami sta ridisegnando integralmente il proprio sistema scolastico.
Le sfide per l’Italia: passare dalla logica del procurarsi una qualifica (il “pezzo di carta”) all’idea di un apprendimento che dura l’intera vita e migliora gli individui. Motivare gli studenti e valorizzarne le differenze. Integrare mondo della scuola e dell’università e mondo del lavoro: gli studenti che sperimentano entrambi hanno competenze più ampie. Abbandonare la visione burocratica e procedurale dell’istruzione e valorizzare, anche con training adeguati, le capacità degli insegnanti. In nessuna nazione la qualità del sistema scolastico supera la qualità dei docenti: Singapore spende la metà di quanto spende l’Italia, ma i risultati sono migliori perché l’impiego delle risorse è focalizzato sugli insegnanti.
In conclusione: le competenze di routine non sono più sufficienti e la scuola deve preparare i ragazzi a continuare a imparare per tutta la vita. Ma – qui sta il punto – per trasmettere competenze di routine bastano insegnanti modesti, a cui il governo prescrive cosa insegnare.
Per trasmettere le competenze necessarie oggi ci vogliono invece persone molto capaci, le quali non possono essere attratte dall’idea di diventare pezzi intercambiabili in una specie di catena di montaggio dell’apprendimento: devono avere autonomia professionale, status sociale, formazione eccellente e opportunità.
È interessante l’esperienza di Shanghai: è facile avere avanzamenti di stipendio e di carriera, a patto di cimentarsi producendo buoni risultati in situazioni difficili. Per esempio, se il vicepreside di un’eccellente scuola cittadina vuole diventare preside, viene spedito per un paio d’anni a fare il preside in una scuola rurale complicata. Solo se lì ottiene buoni risultati, torna in città. Il risultato ulteriore è che i posti nelle scuole rurali, che favoriscono avanzamenti di carriera, sono molto ambiti. E le scuole rurali migliorano.
“It sounds tough but the job can be done”, conclude Schleicher. Il pomeriggio stesso gli scrivo chiedendogli se posso avere le tavole che ha presentato. Dopo un’ora mi risponde inviandomi il link. Guardate: è illuminante.
Schleicher ha parlato in occasione della presentazione della mostra Benzine. Le energie della tua mente, organizzata dalla Fondazione Golinelli. Ho scritto l’introduzione al catalogo: s’intitola La creatività negletta nel paese che fu il più creativo del mondo. Datele un’occhiata, se vi va.
Qui invece potete vedere il video introduttivo della mostra e le date.
Giusto mentre cominciavo a preparare questo post mi sono imbattuta in una notizia: padre picchia a scuola il prof che aveva rimproverato il figlio. Forse, almeno da noi, il lavoro da fare è ancora più tosto di quanto Schleicher immagina. Sarebbe opportuno che chi oggi si propone di governare il paese prendesse da subito qualche impegno esplicito sul promuovere l’istruzione, motivare i ragazzi, coinvolgere le famiglie, valorizzare il ruolo degli insegnanti e modernizzare le logiche dell’intero sistema.
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