Con 830 lingue parlate (il 10 per cento delle lingue parlate nel mondo) la Papua Nuova Guinea è di gran lunga il paese con la maggior diversità linguistica. Seguono l’Indonesia, con 719, il Sudafrica con 514 e l’India con 438. Per la Repubblica e l’Economist, in Italia si parlano 33 lingue diverse (secondo i dati attualmente pubblicati da Ethnologue sono invece 36).

Ma il dato più interessante della tabella sul multilinguismo pubblicata dall’Economist è il Greenberg diversity index, che misura, paese per paese, la probabilità che due abitanti condividano una stessa lingua su una scala da 0 (nessuna diversità, tutti parlano la stessa lingua) a 1 (massima diversità).

Nel mondo globalizzato e iperconnesso, a far sì che le persone non imparino lingue diverse da quella natale sono due fatti diametralmente opposti: da una parte c’è la marginalità dei villaggi rurali della Papua Nuova Guinea, dall’altra la centralità delle nazioni anglosassoni, il cui passato (ma ora meno diffuso) atteggiamento sbrigativo nei confronti delle lingue straniere trova la sua espressione più estrema nelle parole di Lawrence Summers: “English’s emergence as the global language, along with the rapid progress in machine translation and the fragmentation of languages spoken around the world, makes it less clear that the substantial investment necessary to speak a foreign tongue is universally worthwhile”.

Avete capito di che Summers si tratta no? È l’ex rettore di Harvard, quello noto per aver sostenuto, negli anni novanta, che scaricare rifiuti tossici nei paesi in via di sviluppo corrisponde a un’impeccabile logica economica. E per aver affermato, nel 2005, che le donne hanno scarsa attitudine alla scienza (Summers è stato poi sostituito, alla guida di Harvard, da Catherine Drew Gilpin Faust, la prima rettrice nei trecento anni di storia dell’università).

Eppure perfino il buon Summers, forse, potrebbe trarre profitto dall’imparare un po’ di cinese, di francese, di spagnolo o d’italiano (tuttora, secondo la Farnesina, fra le cinque lingue più studiate del mondo).

È ancora l’Economist a promuovere il bilinguismo: in sostanza, le persone che parlano due lingue sono più flessibili perché possono applicare strategie diverse di pensiero. I bimbi esposti dalla nascita a più lingue fanno qualche confusione all’inizio, ma già verso i quattro anni sanno districarsi perfettamente. Il rischio che abbiano un vocabolario ridotto è limitato al periodo infantile, mentre i vantaggi sono rilevanti, dimostrati, e durano per tutta la vita: i bambini bilingui sono più precoci nel prendere decisioni e nel portare a termine compiti complessi.

L’università Vita-Salute San Raffaele di Milano conferma: il bilinguismo regala anche creatività, capacità di concentrazione, fiducia in se stessi, attitudine a capire gli altri e a prendere buone decisioni in tempi brevi e con sforzo minore.

Sembra anche – questo lo dice una ricerca pubblicata su Neurology – che sapere due lingue allontani di quasi cinque anni il rischio di Alzheimer indipendentemente da ogni altra variabile (istruzione, sesso, occupazione). Inoltre le persone bilingui hanno una gamma comportamentale più ampia e possono, cambiando lingua, arrivare a cambiare personalità, come racconta questo grazioso articolo uscito su La Voce di New York.

Il Telegraph elenca i sette vantaggi dell’essere bilingui: si diventa più brillanti e più abili nel multitasking, la memoria e la percezione migliorano così come la sensibilità linguistica e la capacità di decidere razionalmente. E, infine, c’è quella faccenduola dell’Alzheimer.

Tutto ciò, ovviamente, c’entra men che niente con l’abuso del detestabile itanglese. Parlare due lingue non vuol dire buttare nel frullatore del discorso parole straniere a casaccio, e spesso a sproposito.

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