“Lo vedi? Eh? Lo vedi il Bangladesh?”, e punta il dito sulla cartina, non precisamente sul Bangladesh ma sul mare un po’ più in basso, picchietta il dito sul golfo del Bengala. Ci siamo incontrati mezzo minuto fa, in Italia ci daremmo del lei, a Parigi ci daremmo del lei, ma qui no, qui è tutto così svaccato, l’aria della sera è così calda e appiccicosa da far sembrare ridicolo qualsiasi ossequio alle convenzioni, una fatica sprecata. L’impressione è che, trascinati dal clima e dalla distanza da casa, nei prossimi cinque minuti potremmo anche abbracciarci, oppure metterci le mani alla gola. “Lo vedi? Il Bangladesh è proprio il buco del culo del mondo. Queste sono le chiappe”, picchietta sull’India e sull’Himalaya, ma voleva picchiettare sulla Birmania. “Ecco, ecco la costa che rientra… E sai qual è la cosa divertente? Che il Bangladesh cià anche il puzzo del buco del culo, senti no? Cioè, è proprio il buco del culo del mondo…”. L’uomo che mi sta parlando è un cinquantenne tarchiato, calvo, con una faccia simpatica che assomiglia un po’ a quella di Arrigo Sacchi, e anche il piglio, il fare sbrigativo è lo stesso, solo l’accento è diverso, piemontese come il mio. L’uomo che mi sta parlando – come quasi tutti gli invitati a questo barbecue in cui mi hanno imbucato, e come buona parte degli italiani che lavorano in Bangladesh – “è nel garment”.
Il Bangladesh ha una superficie di 147mila chilometri quadrati e circa 153 milioni di abitanti. Se si escludono micro-stati come Hong Kong o Singapore o Montecarlo, il Bangladesh è la nazione più densamente popolata del mondo, 1.034 abitanti per chilometro quadrato. Questo vuol dire che in qualsiasi direzioni si giri lo sguardo lo spazio che lo sguardo inquadra contiene sempre una piccola folla. Allargando l’angolo di campo il numero si moltiplica: venti persone davanti al banchetto della frutta, cento all’uscita della moschea, mille intorno a una delle rotatorie che intrappolano il traffico del centro. Di fatto, una volta usciti dal proprio appartamento, o una volta chiusa alle proprie spalle la porta dell’ufficio, non succede mai di trovarsi da soli, e dato che gli occidentali sono pochissimi, non succede mai di non essere guardati, mai però con ostilità, e, un paio di volte ogni cento metri, salutati con uno hello! che il più delle volte non chiede niente in cambio. Nei ristoranti, una legione di camerieri adolescenti sorveglia il vostro pasto con gentilezze inutili, il più delle volte moleste; dopo qualche minuto, il più coraggioso attacca bottone in un inglese incomprensibile da cui emergono soprattutto le parole Rome e A.C. Milan. I negozi che vendono oggetti d’artigianato bangladese sono pieni di gente nonostante sia un giorno di ramadan, ma dopo un po’ si capisce che i clienti in realtà sono solo tre o quattro: il resto sono inservienti che vi seguono passo passo, incoraggianti ma in realtà scoraggianti, perché sono troppo diretti, troppo ansiosi di vendere, non addestrati al finto disinteresse del commerciante, e commentano ad alta voce mentre voi sfiorate le stoviglie, le posate di legno: “This is very beautiful”. E questo? “Beautiful too”. Prendo una scatola di tè al ginger e, mentre mi avvio alla cassa, una ragazza che pensavo fosse lì come me a comprare mi ferma, mi posa la mano sul braccio e si congratula: “Thank you, sir. Our delicious ginger tea. Thank you sir”. Underemployment. Non succede solo in Bangladesh, succede dovunque il costo del lavoro è molto basso: invece di assumere una sola persona a stipendio intero se ne assumono dieci, pagandole un decimo, di solito fratelli e sorelle, in modo che tutti quanti abbiano un minimo introito. È comprensibile, è giusto, è quasi commovente, ma il fatto è che tutti e dieci vogliono rendersi utili, e il risultato, per quanto vi riguarda, è che non sarete mai soli, neanche dentro quei piacevoli luoghi della solitudine che contro l’apparenza sono, in occidente, i grandi magazzini.
Su un piano un po’ meno empirico, sovrappopolazione vuol dire che il Bangladesh dispone di una forza lavoro quasi infinita. È vero che, nello spazio di quarant’anni, il tasso di fertilità è sceso da 6,4 (1970), un valore africano, a 2,9 (2005), un valore quasi europeo, ma la popolazione è comunque in crescita, il paese – specie allo sguardo di chi viene dall’Italia – è giovane. Che fare di tutta questa gente? Intanto, esportarla. Le cifre dell’emigrazione bangladese sono vaghe: “Negli anni novanta, dati ufficiali indicavano che 250.000 lavoratori lasciavano il Bangladesh ogni anno; e la stima, nel 2007, era che 4 milioni di bangladesi lavoravano all’estero, ma in entrambi i casi è probabile che le cifre reali fossero molto più alte” (David Lewis, Bangladesh. Politics, Economy and Civil Society, Cambridge University Press 2011, p. 186). Di fatto, la gran parte dei bangladesi con cui parlo hanno un familiare o un amico che lavora negli Stati Uniti, o in Europa o, soprattutto, nel Golfo Persico. E, se anche uno non lo sa, se ne accorge all’aeroporto di Chittagong, all’imbarco per Dubai. Al check-in del mio volo ci sono quattro donne e, li ho contati, duecentodieci uomini che tornano in Arabia dopo aver festeggiato il ramadan in famiglia. Tutti magri, tutti minuti, indossano tutti camicie a righe ben stirate, portano al polso grossi orologi luccicanti che devono essere costati settimane di lavoro da schiavi nei cantieri: la comunità bangladese è la più numerosa, in Arabia Saudita (fino a 700.000 persone), ma anche la meno qualificata, perciò la peggio pagata, e anche quella su cui è più facile commettere arbitri (per farsi un’idea si può guardare questo pezzo di Syriana:
– qui gli operai sono pachistani, ma è lo stesso, la vita che fanno è quella). Durante il mese che ho passato in Bangladesh, i giornali e la tv hanno parlato in continuazione del caso degli otto operai bangladesi condannati a morte a Ryad per un omicidio che forse avevano o forse non avevano commesso. Il tono era quello indignato di chi non vuol fare da capro espiatorio, ma gli indignati erano anche consapevoli del fatto che il governo del Bangladesh poteva fare e avrebbe fatto ben poco contro quello saudita, perché le rimesse degli emigranti rappresentavano, nel 2009, il 9,5 per cento del pil, il che vuol dire che sulla vita e sulla morte dei bangladesi all’estero il governo del Bangladesh non ha voce in capitolo. Gli otto sono stati decapitati pochi mesi dopo la condanna.
Una variante dell’esportazione della forza lavoro in esubero è l’impiego di questa forza lavoro in missioni di guerra o peacekeeping per conto dell’Onu. Nella prima guerra del golfo i soldati bangladesi nelle truppe anti-irachene erano 2.300. Oggi, i peacekeeper bangladesi sparsi per il mondo sono più di 9.000, il che fa del Bangladesh la seconda nazione al mondo per numero di soldati impegnati in azioni condotte sotto la bandiera dell’Onu. Questo impegno frutta al paese circa 450 milioni di dollari l’anno versati dalla comunità internazionale e un benefico alleggerimento della pressione sul fronte interno: l’esercito bangladese è numeroso, irrequieto, propenso a intervenire nella politica interna, e tenerlo occupato all’estero, fare in modo che dispieghi all’estero la sua volontà di potenza, può essere – oltre che un modo per fare cassa – una buona idea.
Fino a qualche anno fa, le rimesse degli emigranti erano la prima voce del pil bangladese. Oggi non più. Una buona parte dei gamberetti che si mangiano nel mondo viene dagli allevamenti del Bangladesh: nel 2005 rappresentavano il 4,4 per cento delle esportazioni del paese. Ma soprattutto, oggi il Bangladesh esporta abbigliamento: molte grandi aziende occidentali hanno delocalizzato qui perché il costo del lavoro è ormai più basso che in Cina, India, Thailandia, Indonesia. Se comprate da Zara o da Walmart, comprate Made in Bangladesh. L’italiano che somiglia ad Arrigo Sacchi lavora qui come buyer per una catena di grandi magazzini. Un altro, quello che ha organizzato il barbecue, lavora in proprio: cioè produce, fa produrre capi d’abbigliamento che poi vende alle aziende europee, o ogni cinque-sei anni cambia nazione cercando le condizioni migliori, il costo del lavoro più basso. Nell’ultimo decennio è passato dalla Cina all’India al Bangladesh. Hanno tutti e due figli adolescenti che vedono poco, un paio di volte l’anno, lavorano tanto, seriamente, fanno parecchi soldi, e ne fanno fare. Hanno idee nette sul carattere dei popoli: i cinesi svelti e arroganti, gli indiani infidi, i bangladesi capaci, intelligenti, grandi lavoratori. Hanno visto le città, possono fare dei confronti. “Oh, sì, Calcutta… Calcutta è terribile. Però Calcutta ha un centro, è piena di schegge dell’impero britannico, in certe strade sembra di stare a Londra. Ma Dhaka. A Dhaka è come se tutto quello che è stato fatto prima del 1950 l’avesse inghiottito la vegetazione, il cemento, la sporcizia. Dhaka è una macchia scura. Sì, una macchia scura…”. Vivono in appartamenti eleganti ma non sontuosi nella piccola enclave per occidentali a nord di Dhaka, hanno due o tre persone di servizio, si vedono tra di loro sempre negli stessi posti, per divertirsi aspettano le vacanze, o il rientro annuale in Europa. Sono, almeno per due ore, persone simpatiche, piacevoli, che sanno, che sorridono amaro del cliché che si trovano appiccicato addosso, quello del colonialista senza scrupoli. Li hanno, gli scrupoli, ma il fatto è che niente è semplice.
Le grandi aziende europee e americane che delocalizzano qui hanno una lunga lista di regole: niente bambini, niente orari da cinesi, welfare interno alla fabbrica, cioè cose come asili nido, mense, assicurazione, eccetera. Non è per bontà, e non è solo per evitarsi le crociate e i boicottaggi delle organizzazioni umanitarie, lo fanno per interesse, perché condizioni di lavoro migliori – specie per le donne, che sono la grande maggioranza – migliorano la produzione. Ma le grandi aziende sono solo la cima della piramide: e qui hanno solo un ufficio, qualche impiegato che di solito non parla neanche il bengali. Sotto la cima c’è una miriade di ditte appaltatrici e subappaltatrici che per competere tagliano su tutto, dai salari alle misure di sicurezza. I falansteri che crollano, le fabbriche che bruciano con dentro operai a centinaia non appartengono a Zara o a Walmart ma a queste aziende di famiglia, a questi piccoli trust locali. Quando chiedo ai miei ospiti dell’università di portarmi a visitarne una mi ci portano senza problemi, e quello che vedo non dev’essere troppo diverso da quello che si vedeva in un filatoio europeo di qualche decennio fa, salvo che qui è tutto molto più grande, confuso, concitato, rumoroso, caldo, umido, povero. Forse. Non ho fatto fotografie, non ho fatto riprese, non era gentile, ma quello che ho visto era più o meno quello che si vede in un filmato come questo:
e cioè donne a decine, a centinaia, piegate sulle macchine da cucire, e al fondo del piano uno spazio per mangiare, e i bagni. Può darsi che quelle che ci hanno mostrato – a me e a Summer Lewis, l’autrice del video – fossero delle fabbriche-modello. Ma la verità è che i problemi veri, i veri drammi cominciano fuori della fabbrica: è il dramma delle baracche, delle medicine che mancano, dell’acqua inquinata, delle scuole che non ci sono. Tutte cose, almeno per me che sono di passaggio, che non so niente e non capisco niente, che vedo sempre e solo la superficie, insondabili.
Quanto ai salari, lo stipendio annuo di una delle sarte della fabbrica è di poco più di 500 dollari annui, il che vuol dire… Vuol dire molte cose, tutte abbastanza chiare, ma tra l’altro vuol dire che, camminando per Chittagong, io porto in giro l’equivalente di sei mesi di lavoro di un operaio tessile. Dato che sono l’unico occidentale nel giro di chilometri, viene da chiedersi per quale ragione non mi circondino, non mi portino via tutti i soldi e non mi buttino poi nella fogna che passa a due metri. Invece qualcuno si limita a una smorfia, qualcuno sorride, i più piccoli chiedono una moneta ma non insistono troppo, sia che gliela dia sia che non gliela dia. Può darsi che a incontrarli da soli, in una strada buia… Ma qui, l’ho già detto, non si è mai soli. E il buio, dato che i lampioni quasi non ci sono, è così buio che nasconde, protegge.
Stare alla macchina da cucire è un lavoro da donna. I maschi fanno altro: pescano, coltivano, costruiscono, guidano i taxi. Ma a Chittagong smontano soprattutto le navi. Insieme a Shanghai e a Gujarat, Chittagong è uno dei tre porti asiatici in cui le compagnie di navigazione di tutto il mondo portano le loro vecchie navi per il disassemblaggio. Portarle significa farle arenare sulla spiaggia, qualcosa di simile a ciò che si vede in questo filmato, girato in Pakistan:
A smantellare le navi ci pensano squadre di operai, anche ragazzini, che lavorano per salari ridicoli in condizioni di sicurezza che sarebbero altrettanto ridicole se il numero dei morti sul lavoro (15 nel solo 2012) e dei feriti non fosse invece così tragico. Non hanno occhiali che gli proteggano gli occhi quando dissaldano gli enormi pannelli di metallo dello scafo, non hanno maschere che li difendano dai gas nocivi, sulla testa, al posto degli elmetti, portano dei turbanti. Un inferno in terra, un enorme inferno in terra (potete vederlo anche su Google Earth), ma questo inferno, queste decine e decine di navi spiaggiate sono una voce fondamentale nel bilancio della città: l’intera trafila impiega circa 200.000 persone, e genera guadagni per centinaia di milioni di dollari l’anno. Sul costo che tutto questo comporta – sugli abusi schiavili e sulla devastazione dell’ambiente naturale – trovate tutte le informazioni desiderabili.
Per arrivare al punto della costa in cui si smantellano le navi bisogna prendere una macchina e uscire dalla città in direzione nord-ovest. Che si è sulla strada giusta lo si capisce un quarto d’ora prima d’arrivare, perché a bordo strada, uno accanto all’altro, sfilano decine di chioschi che vendono ciascuno un solo tipo d’oggetti: c’è il chiosco delle porte, quello dei lavandini, quello dei water, quello delle maniglie, e poi enormi motori interi, ventole, travi, pezzi di legno, brandelli di lamiera da vendere a un tanto al chilo. È come se il naufragio di migliaia di bastimenti avesse lasciato sulla costa questo residuo infinito di oggetti, ma, per un miracolo, già tutti suddivisi per categorie, già sistemati sugli scaffali dei grossisti. La gente viene dalla città con la macchina e si arreda la casa: il lavandino di una petroliera panamense, le maniglie di un peschereccio svedese…
Al tratto di costa su cui sono arenate le navi si arriva attraverso una decina di varchi, a circa un chilometro di distanza l’uno dall’altro, ma il giorno in cui ci andiamo noi tutti i varchi sono sorvegliati da guardie armate che non fanno passare i curiosi. Ci sono stati degli incidenti, altri operai sono morti, le associazioni non governative hanno protestato col sindaco della città, decine di video sono stati caricati su YouTube suscitando indignazione in mezzo mondo. Alla fine troviamo un paio di guardie più morbide che in cambio di un paio di dollari ci permettono di arrivare fino a un centinaio di metri dalla spiaggia, ma niente foto né filmati. Ma non avremmo proseguito oltre nemmeno se ce l’avessero permesso: già questo voler guardare ci sembra, adesso, osceno. Quella che una volta era una spiaggia di sabbia ora è un pantano nerastro in cui i piedi affondano fino alla caviglia, e dal pantano il caldo di luglio solleva una nebbiolina puzzolente che il vento non riesce a disperdere, e che dà a tutta la scena un’aria ancora più sinistra. Più in là, sulla riva di un mare calmo come un lago, prosciugato, ci sono due navi enormi, già scure di ruggine, già in parte smantellate, già in parte scheletri: dalla prua sventrata di una delle due s’intravede, come una gigantesca dentiera, una doppia fila di poltroncine arancioni. E decine e decine di metri più in basso, minuscoli, seminudi, scalzi nel pantano, degli esseri umani. Gli ultimi minuti del documentario
At Sea di Peter Hutton rendono l’idea (in particolare da 5:38 in poi):
Ma per avere un’idea più precisa suggerisco questo:
Colleghi dell’università scuotono la testa quando gli racconto della mia gita allo ship breaking yard. Sanno tutto, hanno visto, hanno letto, bisogna fare qualcosa. Ma intanto, per compensare, per trovare un po’ di sollievo, mi dicono che invece alla Ispahani Limited è tutto diverso, così il giorno dopo ci vado.
Andare da qualche parte, a Chittagong, non è come andare da qualche parte in Europa, o anche in Giappone o in India. I cartelli con i nomi delle strade ci sono e non ci sono, ma più che altro non ci sono, le mappe sono sommarie e, soprattutto, i guidatori di risciò o di Ape non sanno leggerle. Se gliela si apre davanti seguono per un minuto interminabile, col dito, i meandri delle strade bianche, dopodiché indicano incerti un punto X, ma quando io avvicino il mio dito e dico “here?” mi fermano la mano e, chiudendo in fretta la mappa, mi fanno capire di stare tranquillo, dopodiché mi deportano in un punto Y nel quale non avevo alcuna intenzione di andare. Chiedere a un passante non è un’opzione. Bisogna dire al guidatore di risciò o di Ape il nome della strada o del palazzo, ma allora si apre il dramma della pronuncia: misteriosa è la pronuncia, per esempio, di Sheik Mujib Road (l’Ispahani Building sta lì); e misteriosa è la pronuncia bangladese di Standard Chartered Bank, che è l’edificio più importante nell’isolato dell’Ispahani Building. Dopo cinque minuti di tentativi capisco che la pronuncia bangladese è Standachattabanc, e capisco anche che l’abbiamo passata da una decina di isolati.
Causa pronuncia e causa diluvio monsonico, arrivo con mezz’ora di ritardo allo Ispahani Building, ma l’erede della famiglia Ispahani che devo incontrare è più in ritardo di me, così mi fanno accomodare in un camerone bianco e nero che sembra preso da un romanzo di Somerset Maugham, col brusio delle pale dei ventilatori piantate sul soffitto e decine e decine di scrivanie allineate, e su ogni scrivania non un computer ma una macchina per scrivere, e risme di carta, telefoni in bachelite, poltroncine in sky e sedie con l’armatura in ferro e lo schienale in legno, come quelle delle scuole elementari di una volta, e una trentina di impiegate e impiegati chini sulle scrivanie, con la matita in mano, a riempire tabelle. Una versione dimessa, coloniale di Mad Men. Ed è coloniale anche l’ossequio con cui, qualche minuto più tardi, gli impiegati, i valletti, le segretarie accolgono il direttore Salman Ispahani, che è di gran lunga l’uomo più bello, elegante, facondo e sicuro di sé che incontrerò durante tutta la mia permanenza in Bangladesh.
Nata a Calcutta all’inizio del novecento, trasferitasi a Chittagong nel 1947, la Ispahani Limited è una delle più grandi holding industriali del paese, con interessi in vari settori ma anzitutto nel settore del tè: la sede Ispahani di Chittagong produce, impacchetta e commercializza tè, e dà lavoro a più di seimila dipendenti. Lo studio di Salman Ispahani è pieno di fotografie e di cimeli che testimoniano di questo secolo di successi. Ma oggi è martedì, e martedì è il giorno in cui al porto c’è l’asta per il tè, perciò Ispahani – che, a giudicare dal numero delle segretarie e dallo squillo continuo dei cellulari, è un po’ più impegnato e un po’ più importante di come mi ero immaginato: per questo le segretarie, prima, squadravano la mia t-shirt fradicia di pioggia – Ispahani taglia corto coi cimeli e con le memorie famigliari e mi accompagna nella stanza del tea tasting, dove su un tavolo lunghissimo sono allineate cinquanta tazze consumate, annerite da ettolitri di tè; e davanti alle tazze ci sono i campioni delle qualità di tè che verranno messi all’asta oggi. Gli assaggiatori assaggiano, sputano in un barile, danno un voto. Se il voto è meno di tre, non si compra. Se è più di tre si compra, si miscela, si impacchetta, si vende. Impiegati della Ispahani sono al porto, in questo momento, in attesa di istruzioni.
Salman Ispahani è, tra le altre cose, console onorario d’Italia a Chittagong. Me lo dice lui stesso un po’ incredulo, non gli è ben chiaro perché lo abbiano nominato console onorario, salvo che effettivamente conosce l’Italia, ha studiato a Vicenza, fa affari in Italia, c’è appena stato per comprare da una ditta emiliana una ventina di macchine per l’impacchettamento del tè: circa 400.000 euro l’una. Un investimento necessario perché il giro d’affari cresce. “Fino a qualche anno fa, il novanta per cento del nostro prodotto andava all’estero. Ora le percentuali si sono invertite: il novanta per cento viene venduto sul mercato interno: c’è ormai un ceto medio che può permettersi le bustine di tè”. “Dunque”, gli domando, “il potere d’acquisto è cresciuto, la qualità della vita è migliorata?”. Di fatto, con tutta la miseria che si vede in giro, l’idea stessa della qualità della vita fa un po’ ridere. Ma bisogna distinguere. “Oh, certo, moltissimo, moltissimo. E le cose miglioreranno ancora, e in fretta. Abbiamo il capitale umano: moltissimi giovani bilingui, e un tasso di natalità molto più basso rispetto al passato. E un costo del lavoro ancora molto competitivo. E giacimenti di gas naturale che stiamo cominciando a sfruttare solo ora”.
E questo, fatta la tara dell’ottimismo dell’ereditiere di successo, è più o meno anche quello che si legge nei libri, sulle riviste, nei blog. Il Bangladesh parte ovviamente da un livello troppo basso, da una miseria troppo nera per poter essere contato tra i Bric, cioè tra i paesi non più emergenti ma già emersi, già integrati al primo mondo. Un terzo degli abitanti vive ancora con meno di 1,25 dollari al giorno, e il coefficiente di Gini, che misura la sperequazione nella distribuzione della ricchezza, è passato da 38,8 (1992) a 46,7 (2005). Ma è un fatto che l’economia del Bangladesh è in piena espansione: il pil cresce a una media del 5-6 per cento l’anno, il reddito medio è raddoppiato nel giro di vent’anni, anche se da pochissimo a poco, essendo oggi di 1.307 dollari pro capite. Ma, dicevo, bisogna distinguere tra reddito e qualità della vita, e se uno passa un po’ di tempo a Chittagong non dimentica mai la necessità della distinzione, per quanto non creda né alla decrescita felice né all’idillio della vita premoderna, senza cemento, senza plastica, senza medicine. Perché guardandosi attorno, parlando con le persone meno giovani che si ricordano com’era Chittagong trenta o quarant’anni fa, quelle che constata sono soprattutto le sciagure di un’urbanizzazione avvenuta a velocità supersonica, e fatta senza criterio. Su Chittagong non ho dati precisi, ma la storia recente di Dhaka è impressionante, e direi unica al mondo. Dhaka aveva 400.000 abitanti nel 1951, un milione e mezzo negli anni Settanta, dieci milioni nel 2001. Oggi l’intera area urbana conta quasi quindici milioni di persone. È come se, nell’arco di mezzo secolo, e senza la minima pianificazione, Bologna fosse diventata grande come New York.
Le anime, si direbbe, hanno dovuto adeguarsi alle novità alla stessa velocità con cui si sono adeguati i corpi. La natura umana, se pure esiste qualcosa a cui abbia senso dare questo nome, è infinitamente comprimibile. I sogni che si sognano in Bangladesh sono tutti occidentali. Una compagnia telefonica organizza un concorso per teen-agers e il primo premio è un biglietto per l’Inghilterra per andare ad allenarsi con le giovanili del Manchester United. In tv c’è una versione bangladese di Masterchef, con una brunona in vestaglia tipo Moira Orfei che cucina il fritto e magnifica le virtù di un set di coltelli di una sottomarca americana. E i sogni sono anche, ovviamente, tutti sogni bianchi. In tv, nei manifesti per strada, si pubblicizzano prodotti che schiariscono la pelle. Ma per questo non c’è stato bisogno che arrivassero i media, è un grazioso lascito del colonialismo: il grande mosaico che si vede entrando nell’aeroporto di Chittagong commemora l’indipendenza del paese ed è pieno di operai, soldati, donne che sorridono. Ma sono quasi tutti bianchi. E, accanto all’università dove insegno, la faccia che sorride dal manifesto pubblicitario di una ditta di costruzioni – Your Own Villa on Chittagong Hills! – è la faccia di una donna bianca.
È sempre difficile parlare dei costi della modernizzazione, tra l’altro perché non è possibile fare il paragone con i costi della mancata modernizzazione. Come si viveva a Chittagong quando laggiù era tutta campagna? Difficile dire come si vivesse allora: un secolo fa, un millennio fa. Ma Lévi-Strauss ci passa qualche giorno nell’autunno del 1950, sulla strada per le Chittagong Hills, e ne parla in Tristi tropici, e quello che registra è l’inizio del processo di cui io vedo la fine. È una pagina famosa:
Viaggi, scrigni magici pieni di promesse fantastiche, non offrirete più intatti i vostri tesori. Una civiltà proliferante e sovreccitata turba per sempre il silenzio dei mari. Il profumo dei tropici e la freschezza degli esseri sono viziati da una fermentazione il cui tanfo sospetto mortifica i nostri desideri e ci condanna a cogliere ricordi già quasi corrotti. Oggi che le Isole Polinesiane, soffocate dal cemento armato, sono trasformate in portaerei pesantemente ancorate al fondo dei Mari del Sud, che l’intera Asia prende l’aspetto di una zona malaticcia e le bidonvilles rodono l’Africa, che l’aviazione commerciale e militare viola l’intatta foresta americana o melanesiana, prima ancora di poterne distruggere la verginità, come potrà la pretesa evasione dei viaggi riuscire ad altro che a manifestarci le forme più infelici della nostra esistenza storica? Questa grande civiltà occidentale, creatrice delle meraviglie di cui godiamo, non è certo riuscita a produrle senza contropartita. Come la sua opera più famosa, pilastro sopra il quale si elevano architetture d’una complessità sconosciuta, l’ordine e l’armonia dell’occidente esigono l’eliminazione di una massa enorme di sottoprodotti malefici di cui la terra è oggi infetta. Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sui volto dell’umanità.
Mai paragonare il passato con il presente: cambiano tutte le grandezze, tutti i parametri saltano. Ma è difficile pensare a un passato che sia tanto tragico e disperato – nel senso letterale di: senza speranza, senza via d’uscita – quanto il presente delle sarte recluse nei falansteri, degli operai che smontano le navi a mani nude, dei guidatori di risciò che pedalano sotto il diluvio, delle puttane bambine costrette a imbottirsi di estrogeni per ingrossarsi seno e fianchi. C’erano, prima, altri orrori? È possibile, anzi è certo. Ma alla fine, dovendo scegliere (ed è chiaro che né si deve né si può scegliere, che l’idea stessa di scelta è irrazionale), alla fine l’impressione è che un’infelicità naturale, una povertà naturale, un naturale costante pericolo di morte siano, proprio in senso assoluto, preferibili a questi pazzeschi artifici di crudeltà.
Dopo qualche giorno di resistenza uno cede. L’aria spessa della città fa diventare fatalisti. Ci si sente spossati, e la spossatezza diventa perdita d’interesse: che se la vedano loro. Quando la somma di caldo e umidità rende impossibile anche solo fissarsi su un pensiero per più di dieci secondi di fila, quando l’unico desiderio è stendersi sotto un ventilatore e non fare assolutamente niente non per il resto della giornata ma per il resto della vita, allora uno vuole soltanto dimenticare, non farsi domande: buttare l’immondizia senza sapere dove finirà, defecare in un bagno che forse mescola le sue acque reflue a quelle dell’acquedotto, lasciare che il guidatore di risciò affoghi nella pioggia, distogliere lo sguardo dal ragazzino pelle e ossa coperto di mosche che non ha la forza neanche per mendicare. Su tutta questa miseria si accende un neon: Non È Di Mia Competenza.
La notte, dato che è luglio, uno vorrebbe dormire con la finestra aperta, far entrare un po’ di vento, cambiare aria, ma non si può per colpa dei clacson. Il clacson qui non viene usato per segnalare pericolo, non avrebbe senso, dato che la strada è un’intera distesa di clacson, cioè non un brusio punteggiato da clacson ma un basso continuo di clacson punteggiato da rari momenti di brusio. Non viene neanche usato per manifestare irritazione: qui non si irrita nessuno, e nessuno mugugna o commenta a voce alta l’aggressività o la stupidità dell’automobilista che ci ha appena tagliato la strada a 2 chilometri all’ora. Non ci sono regole da violare, dunque come irritarsi? In nome di che? Si suona il clacson per dire ‘sto arrivando, sono qui, non venirmi addosso, non farti travolgere’: nella presunzione che qualcuno, se non avvertito a tempo debito, ci verrà sicuramente addosso, o lo travolgeremo. Il che è vero.
Chiudere le finestre, accendere l’aria condizionata. Dopo mezzanotte il traffico rallenta, i clacson si rarefanno, mi godo quattro ore pulite di sonno in fase pre-REM, fino a quando verso le quattro e mezza – un chiarore appena percettibile all’orizzonte che potrebbe essere l’aurora ma potrebbero anche essere le luci dell’aeroporto – la voce del muezzin chiama alla preghiera. È una voce amplificata dal megafono, è impossibile non sentirla.
Uno potrebbe stupirsi per questa alleanza tra un messaggio iper-tradizionale (il Corano!) e un mezzo moderno, anche se non più modernissimo, ma il megafono è, come ha scritto una volta Naipaul, una «inevitabilità indiana» (Un’area di tenebra, Milano, Adelphi 1999, p. 154). O un’inevitabilità islamica? Se col megafono si possono raggiungere, oltre alle persone che stanno nella moschea o nei paraggi, le orecchie di tutto un quartiere, perché non usarlo? L’effetto, per chi non conosce la lingua e non ama le religioni e ascolta la litania nel dormiveglia, è sinistro. Da noi ci sono le campane, provo a dire al mio cervello già orientato al pregiudizio, già propenso – nel dormiveglia, nel dormiveglia – a dare un pezzo di ragione alla Fallaci, ma la verità è che le campane sono tutta un’altra cosa, il rintocco delle ore è tutta un’altra cosa rispetto alla voce di uno col megafono che, alle quattro e mezza, ti vuole convincere di qualcosa.
E le notti successive la cosa si ripete: quattro ore di mezzo sonno stroncate dal megafono del muezzin. Nel dormiveglia successivo, che dura fino alle sei e mezza, prima che i clacson si riaccendano, sogno. Sogno in corsivo: nel senso che i sogni che faccio sono i più vividi e realistici che ricordo di aver fatto in vita mia. Li annoto subito appena riesco a raggiungere carta e penna con la mano, ma in realtà non ce n’è bisogno perché tutto rimane nitido per molte ore, come se la cantilena del muezzin contenesse una droga che incolla i sogni alla memoria. Una notte sogno la compagna di liceo di cui ero innamorato che attraversa l’incrocio tra Via Filadelfia e Corso Orbassano, a Torino, in compagnia di un gruppetto di persone anziane. Propongo di andare tutti quanti in un bar lì vicino per bere qualcosa, chiacchierare. Lei mi squadra e commenta che io, come sempre del resto, dimentico che per gli anziani camminare è faticoso. Così ci porta in un altro bar che però è più lontano dell’altro. Un’altra notte sogno di entrare in una gelateria. C’è un bambino seduto sul bancone, gli faccio capire che è il suo turno, sono arrivato dopo, ma lui mi dà la precedenza. Voglio un cono da tre euro. Esito tra i gusti, la donna dietro il bancone mi suggerisce qualcosa. Il bambino legge i gusti e domanda: «Posso taggarli?». La signora annuisce. Io commento: «Non so neanche cosa vuol dire». Lei replica: «Siamo un po’ indietro, eh!?». Io ho una crisi di riso incontenibile, che mi sveglia.
La mattina, sui mobili si è riformata la patina di polvere umida che avevo tolto otto ore prima: i polpastrelli ci lasciano un’impronta visibile. E nonostante l’aria condizionata tenuta accesa tutta la notte la stanza puzza dell’umido che esala dai tendoni di stoffa pesante. Prima di entrare in bagno busso forte alla porta per mandare via gli scarafaggi.
Fuori, quella di ‘fare una passeggiata’ non è veramente una buona idea. Metà delle strade non sono asfaltate, e i diluvi mattutini le trasformano in piscine di fango. I marciapiedi, quando ci sono, sono consumati, dissestati, corrosi dall’umidità, e ogni quindici-venti metri si spaccano in voragini grandi abbastanza da risucchiare un essere umano – voi – precipitandolo in quest’incubo fantozziano: la fogna di Chittagong. Per strada, i cani sono tutti randagi e tutti uguali, sempre gli stessi bastardi di taglia media col muso affilato. La diversificazione delle razze è roba da cani al guinzaglio, e da paesi ricchi. Dopo un po’ che li incrocio uscendo di casa, li riconosco per le mutilazioni: quello senza un occhio, quello con tre zampe, leggermente diverso da quello con tre zampe e un moncherino, quello senza la coda. Sembrano innocui, nonostante la fame; e sembrano ignorare gli esseri umani che pullulano attorno a loro, ignorandoli a loro volta. Brucano negli angoli, coi corvi.
La strada davanti al mio appartamento è a due sensi, come tutte (non esistono norme di circolazione, dunque non esistono strade a senso unico, segnaletica), ma naturalmente non c’è mezzeria, e le macchine che provengono dalle due direzioni occupano tutta la carreggiata. Così non ha molto senso dire che «si creano ingorghi»; è il contrario, gli ingorghi occasionalmente si sciolgono per qualche secondo, per poi riformarsi come prima. L’ingorgo è la condizione normale del traffico di Chittagong. L’eccezione, tra la mezzanotte e le sei del mattino, è l’effettiva circolazione delle auto e dei risciò. Veicoli sulla strada: automobili, pulmini, camioncini con le ribalte decorate come quelle dei carrettini siciliani, mini-taxi a motore tipo Ape, risciò, carretti a trazione animale. In teoria ci si aspetterebbe aggressività da parte degli automobilisti e, da parte dei risciò, la quieta prudente difesa della corsia di sinistra (in Bangladesh si viaggia a sinistra), invece no, sono tutti aggressivi ma, come ho detto, senza cattiveria. La mancanza di leggi – tutti possono parcheggiare ovunque, tutti possono superare ovunque e chiunque – produce il caos, un caos di magnitudine non europea, ma anche una specie di tolleranza zen nei confronti del caos.
Agli incroci dove proprio non se ne può fare a meno, gli incroci di quattro-sei arterie medio-grandi, ci sono anche i semafori. La gente non li rispetta ma, come dire, li prende in considerazione. Nessuno veramente passa col rosso: ‘passare’ non è un verbo che abbia senso usare in uno spazio che, dalle sette del mattino all’una di notte, è saturo di ogni genere di veicolo + gente che cammina o si trascina lungo la strada + gente che sta ferma sul ciglio della strada + cani. Se il semaforo è rosso, il guidatore spinge avanti il muso e s’incolonna nella colonna di macchine che occupa il centro dell’incrocio. Se il semaforo è verde fa più o meno lo stesso. Più frequenti dei semafori sono le rotatorie, ma per far funzionare le rotatorie bisognerebbe rispettare la precedenza: qui nessuno la rispetta, nessuno si azzarda a dare la precedenza a chi è già sulla rotatoria perché questo vorrebbe dire rallentare e fermarsi e correre il rischio di farsi tamponare. Guardando il groviglio che si crea uno afferra per la prima volta la verità letterale dell’espressione inglese traffic jam: perché quella che si vede è veramente una marmellata, un solida, pastosa marmellata di macchine che gira a singhiozzi attorno al centro strada. A guardare c’è anche qualche addetto al traffico in divisa grigiastra, del tutto irrilevante e perciò serafico: fumano, parlano tra loro, accompagnano con le mani il flusso delle auto – flusso inesistente dato che sono tutti fermi. Un passatempo diverso per il sabato sera? Girare a destra a un incrocio con la macchina. Per passare dalla grande arteria X (senza nome) alla piccola arteria Y (senza nome) dove c’è casa mia, dieci metri, il mio taxi impiega, cronometrati, 7 minuti, dalle 19.03 alle 19.10.
Il fatto è che in Bangladesh è arrivato soltanto il primo tempo della modernizzazione, quello della mobilità a gas e della plastica. Il consumismo di tipo occidentale, o anche tipo Bangkok, quello in cui tutti si sfiorano nei mall e tutti comprano qualsiasi cosa, ancora non c’è. Ci sono solo infilate di chioschi che vendono pentole di latta e tupperware, tonnellate di bicchieri, piatti, scodelle di plastica rosse e blu portate a dorso d’asino e sciorinate sul marciapiedi. Così uno si trova imbarcato in un viaggio nel tempo che lo porta non nell’età pre-tecnologica ma nell’età della tecnologia difettosa, balbettante, forse i nostri anni Quaranta o Cinquanta. Se in una stanza ci sono tre lampadine, gli interruttori, tutti montati all’esterno della stanza, sono almeno cinque: tre accendono e spengono le luci, uno è l’interruttore generale, il quinto non serve a niente. I ventilatori dell’appartamento sono quattro, ma azionati da un comando unico, per cui uno può scegliere soltanto tra l’afa appiccicosa della stagione dei monsoni e l’effetto-bora. Ma la misura del gap tecnologico si avverte soprattutto nelle piccole cose, e si sente soprattutto con le dita. Il Bangladesh ha, tra gli altri problemi minori, quello – brillantemente risolto in Occidente – dell’apertura dei pacchi, dei flaconi, delle lattine, e insomma di ogni contenitore che provenga da una filiera industriale: il sacchetto del detersivo in polvere si apre con le forbici ed è impossibile richiuderlo perché la plastica si fende spargendo metà del contenuto in terra. Le bustine del tè vanno aperte a morsi. Chiusure amichevoli come il velcro, la zigrinatura, la colla che attacca ma si stacca – sono ancora ignote: non c’è abbastanza concorrenza, o abbastanza smercio, perché abbia senso investire su questi aspetti del prodotto. Vi sentirete stranieri, proverete una terribile nostalgia di casa mentre cercherete di scassinare una scatoletta di tonno che non ha – non vi capitava da vent’anni – l’apertura a strappo.
Mangiare? Nei tre scaffali del mini-supermercato accanto all’università ci sono soprattutto biscotti e merendine per i pochi abbienti e i pochissimi occidentali, e un banco carne in cui non si sa bene cosa pescare perché tutto ha un’aria respingente. In generale, procurarsi il cibo non è facilissimo, specie se uno non è ancora pronto a rifornirsi di carne, pane, frutta e verdura dai banchetti a bordo strada, che sono, come ci si può aspettare, lerci. E specie se è ramadan e i rari ristoranti sono chiusi a mezzogiorno, e ingolfati di gente e di poco invitanti piattoni a prezzo fisso dopo il tramonto.
Ma è così. È fine luglio, è ramadan. Alle sette di sera, migliaia di persone rispondono alla chiamata del muezzin e invadono uno dei viali che circonda il centro di Chittagong. Migliaia di inchini simultanei, migliaia di lingue che ripetono all’unisono le stesse parole in mezzo alla strada più trafficata della città. I risciò, le macchine, i TIR aspettano in fila, placidi, finché la preghiera non finisce. Finché la preghiera non finisce c’è pace.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it