Attenzione, scosse in arrivo. Il referendum svizzero che mira a limitare l’immigrazione, anche quella proveniente dall’Unione europea, è un campanello d’allarme micidiale. Riguarda tutto il continente e non solo i quasi otto milioni di svizzeri e le decine di migliaia di frontalieri.

Se è vero che nella Confederazione la popolazione straniera rappresenta più del 23 per cento del totale, una proporzione che non ha molti paragoni in Europa, è altrettanto vero che è un’immigrazione che si inserisce in un contesto economico e sociale favorevole. E bisogna aggiungere, come mostra un grafico pubblicato dal quotidiano Le Temps, che non sono i cantoni con più popolazione straniera ad aver registrato maggiori consensi al blocco dell’immigrazione.

Viene confermato un fenomeno già registrato altrove (in Francia, per esempio, con il Front national): il timore che a casa propria succeda quello che succede dal vicino spesso provoca un voto estremista.

In generale, sono tre gli elementi di riflessione imposti dal referendum svizzero.

Per prima cosa, a dispetto delle analisi storiche sbrigative, viene smentita l’equazione crisi economica uguale populismo ed estremismo. Nel 2013 la Svizzera ha avuto un tasso di crescita del 2 per cento circa e un tasso di disoccupazione appena del 3 per cento a livello nazionale. Quindi non è - solo - la povertà a creare le derive politiche, come non è il benessere che - da solo - garantisce la pace sociale. Da notare che, negli anni trenta, i fascismi sono cresciuti con più forza quando il peggio della crisi del 1929 era passato.

Il secondo elemento che viene smentito - e che segue il primo punto - è l’idea che la convenienza economica vince sempre e domina le scelte politiche. La confindustria elvetica non ha fatto che ripetere di avere un bisogno disperato di mano d’opera straniera e qualificata. E che la crescita del paese è per gran parte dovuta alla presenza di questi lavoratori stranieri e all’inserimento nel mercato dell’Unione europea, che rischia di essere rimesso in discussione in seguito al voto (a tutti quelli che pensano che l’appartenenza alla moneta unica europea è la causa di tutti i mali e delle derive populiste si potrebbe ricordare, en passant, che la Svizzera non è membro della zona euro).

Malgrado questi dati, il sentimento popolare ha votato per la limitazione dell’immigrazione. Motivi di pancia, di insofferenza, di ideologie e forse di “razionalità” a breve termine hanno prevalso sulla logica economica a lungo termine e la convenienza del portafoglio. Smentendo così sia gli intellettuali neoliberisti che vedono nello sviluppo economico la garanzia assoluta della convivenza civile sia i marxisti che pensano che l’interesse economico prevale su tutto.

Infine, ed è forse il punto più preoccupante, votando contro l’immigrazione la Svizzera è il primo paese a uscire dell’Europa. Certo, la Confederazione non fa parte dell’Unione. Ma il paese ha detto che preferisce separare il suo destino dal resto del continente.

Nel passato alcuni paesi avevano rifiutato di aderire alla comunità (per esempio la Norvegia o la stessa Svizzera). Altri, come la Francia in occasione del referendum sulla costituzione europea, nel 2005, avevano rifiutato di approfondire l’integrazione. Ma con il voto del 9 febbraio (e in attesa di vedere se farà marcia indietro nei prossimi mesi) la Svizzera è la prima nazione a rinunciare ai vantaggi che derivano dall’Unione. È un avvertimento forte.

Questa volta non è la Grecia o un altro paese del sud dell’Europa: è un paese del nord, ricco e coeso, che dice di essere pronto ad andarsene, da solo, per la sua strada. Non si tratta più di scegliere se salire sul treno europeo o no, oppure di discutere di un’eventuale accelerazione della locomotiva. La Svizzera ha preferito saltare dal treno in corsa.

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