Il mio primo disco l’ho comprato a Bristol nel luglio del 1970, con i soldi della paghetta che avevo risparmiato. Avevo otto anni. Quasi nove, in realtà. A quell’età ti sembra una precisione importante.

Il disco era un 45 giri: Lola, dei Kinks. Ce l’ho qui, davanti a me. L’etichetta è la Pye Records, con la Y centrale che divide in tre un cerchio, che poi t’accorgi è una specie di cubo, un dado. Andavano di moda all’epoca questi giochi di prospettiva.

Lola è una canzone raccontata in prima persona da un uomo, sedotto da una donna che in realtà è un uomo. Non si capisce se il narratore della canzone sa fin dall’inizio che si tratti di una trans; probabilmente sì. Comunque è innamorato e se ne infischia. Oppure gli piace proprio l’idea che sia così.

Mi ricordo ancora il piacere di tenere il disco tra le mani, di estrarlo dalla custodia tendendo il pollice sul bordo e il medio nel buco centrale (come avevo visto fare), di metterlo sulla piastra, selezionare la velocità 45 e azionare il meccanismo del braccio che avrebbe depositato la puntina sul vinile. Anche questo è una specie di amore.

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Mi ricordo anche che la “trama” della canzone non era, per me, come l’ho descritta sopra. Non sapevo all’epoca cos’era una trans. Eppure ci misi poco a memorizzare le parole. Cantavo felicemente dei versi che, tradotti, fanno “Non sono l’uomo più maschio della pianeta, ma so ciò che sono e sono felice di essere uomo, e lo è anche Lola” (“I know I’m a man, and so’s Lola”).

Come ho fatto a non capire? Pensavo, forse, che trattare da uomo la donna che si ama fosse un complimento? Quando sento la canzone oggi (ed è una bella canzone, che resiste al tempo) capisco che il locale “giù nella vecchia Soho”, dove a un “lume di candela elettrico” il narratore incontra Lola bevendo “champagne al gusto di cherry-cola”, doveva essere un posto squallido, con loschi impresari notturni pronti a spennare gli uomini soli che erano in cerca di sesso ma non volevano ammetterlo (facendo leva sul pudore borghese si possono applicare delle ricariche spaventose, non solo su una bottiglia di finto champagne). Anzi, la vita da bohémien del narratore allora mi sembrava molto glamour. “Lume di candela elettrico”? Fico. “Champagne al gusto di cherry-cola”? Fico. Innamorarsi di una donna che prima ti chiede di ballare poi quando ti stringe per poco non ti rompe la spina dorsale? Fico.

O forse sapevo e non sapevo. Questo limbo mentale degli anni sessanta e settanta mi è venuto in mente guardando il bel film Dietro i candelabri di Steven Soderbergh, sugli ultimi anni di Liberace, pianista-intrattenitore americano noto (più che per la sua musica) per i suoi costumi stravaganti, per i candelabri luccicanti che metteva sul pianoforte a coda bianco, per i bei giovani che assumeva come assistenti-pianista o chauffeur.

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Drag queen in tutto tranne che nei travestimenti, Liberace, interpretato nel film da un grande Michael Douglas, era anche palesemente gay. Nel film, vediamo il suo spettacolo dal vivo a Las Vegas attraverso gli occhi del giovane Scott (Matt Damon), che di lì a poco diventerà il suo amante. Con l’amico Bob, Scott si sta divertendo moltissimo, perché lo show di Liberace è esageratamente, strepitosamente camp. Ma quando si guarda intorno, vede che la stragrande maggioranza del pubblico adorante sono donne borghesi di una certa età. Meravigliato, si rivolge a Bon dicendo che non pensava che un pubblico così potesse amare un performer così apertamente gay. “Non sanno che è gay”, gli risponde Bob.

Figure come Liberace o Danny La Rue (un comico imitatore di donne, una specie di drag queen televisiva che era strapopolare nel Regno Unito negli anni sessanta e settanta, anche lui omosessuale) erano amatissime: ma guai a sussurrare che erano gay. Per mia nonna, l’idea non sarebbe neanche passata per la testa. Dunque, con la mia lettura etero di Lola, sono entrato, forse, a far parte di quel mondo che rideva di Danny la Rue, che rimase incantato da Liberace, ma che faceva finta di non sapere o non sapeva davvero. In ogni caso, non doveva preoccuparsi della difficoltà di mantenere una relazione con un altro uomo per quarant’anni (come fece La Rue), senza dare nell’occhio, in un paese dove l’omofobia era radicata.

Su internet ho trovato una testimonianza di una poeta transgender americana, Rachel Zall, sulla canzone dei Kinks. Le parole di Lola sono intrise di stereotipi “trans-misogini”, scrive Zall. Ma poi dice che, da giovane, era comunque grata che la canzone ci fosse: “Almeno ci prendeva in considerazione, riconosceva la nostra esistenza, senza essere ostile. Quarant’anni dopo, vi viene in mente un’altra canzone d’amore rivolta a una trans? A me no”.

Nemmeno a me. Ma anche se sono orgoglioso di aver scelto Lola come il mio primo disco, invece che, per esempio, In the summertime dei Mungo Jerry, oppure Neanderthal man degli Hotlegs, mi rimane il dubbio che il mio malinteso infantile si potesse evitare anche allora. Ricordando gli anni della gioventù, c’è una tendenza diffusa a proiettare la propria innocenza, o ingenuità, a un’intera epoca, caratterizzandola come un luogo meno cinico di oggi, più semplice, più naïf. In realtà bisognerebbe criticare un’epoca che ti ha permesso di ignorare o sbagliare certe cose. A otto anni, mia figlia avrebbe potuto decifrare Lola, anche perché io le avrei parlato.

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