Con questo post, Michael Braun, corrispondente del quotidiano berlinese Die Tageszeitung e della radio pubblica tedesca, comincia il suo blog su Internazionale.

“Non possiamo trattare all’infinito!”, aveva dichiarato fin dall’inizio la ministra del lavoro Elsa Fornero. E Mario Monti, al momento di prendere le redini del governo, nel novembre scorso, aveva subito fissato un limite per la riforma del mercato del lavoro: entro marzo del 2012 doveva essere fatta.

Viene il sospetto che il governo tecnico volesse festeggiare a modo suo i dieci anni dalla grande manifestazione della Cgil che il 23 marzo 2002 portò tre milioni di persone a Roma in difesa dell’articolo 18, a quel tempo nel mirino del governo Berlusconi.

Ora, a quanto pare, quell’articolo sarà in larga parte abolito. A sentire i fautori di questa riforma una parte dei lavoratori italiani – quelli che lavorano in aziende con più di 15 dipendenti e che quindi sono soggetti allo Statuto dei lavoratori del 1970 – è fin troppo tutelata. La pietra dello scandalo si chiama “reintegro”.

Ma va subito detto che su questo punto gira tantissima cattiva informazione. A sentire i giornali e la tv sembra quasi che in Italia sia praticamente impossibile licenziare. La versione dominante nei mezzi d’informazione è: quando il povero datore di lavoro caccia un dipendente – per motivi discriminatori o per motivi disciplinari o per motivi economici – quest’ultimo si rivolge al giudice del lavoro e subito ottiene il reintegro.

Però non è affatto così. Anche con l’ormai “vecchio” articolo 18 è possibile licenziare per giusta causa o per giustificato motivo. Il reintegro avviene in quei casi in cui il giudice del lavoro arriva alla convinzione che i motivi addotti dal padrone sono fasulli, altrimenti il licenziamento è validissimo. Pochi hanno poi citato le cifre sulle cause intentate in nome dell’articolo 18: sono poche centinaia ogni anno.

Per rendere plausibile la riforma si è poi raccontato che sarebbe preferibile il “modello tedesco”: nel caso di licenziamenti per motivi economici niente più reintegro, ma un indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità. Spiace dirlo, ma in Germania non funziona così. Quando i giudici del lavoro stabiliscono che il licenziamento è ingiustificato possono sia ordinare il reintegro sia optare per un indennizzo.

Perché quindi questo accanimento per eliminare le protezioni contro i licenziamenti ingiustificati? A novembre il governo Monti, appena insediato, promise una riforma complessiva in nome della flexsecurity: più flessibilità in uscita, più tutele, anche economiche, per i disoccupati.

Il progetto di creare un’assicurazione contro la disoccupazione in grado di coprire in futuro tutti i lavoratori dipendenti, va senz’altro in questa direzione. Peccato però che questa assicurazione vedrà la luce solo nel 2017. L’articolo 18, invece, dovrebbe essere modificato subito: oggi più flex e, in un domani assai lontano, più security.

Sentiamo anche dire che ci sono ottimi motivi per agire in questo modo: c’è chi afferma che il taglio del reintegro vale 200 punti di spread; c’è chi sostiene – in primis lo stesso premier – che in questo modo cade un ostacolo agli investimenti stranieri in Italia.

Ma sembra assai improbabile che da aprile ci sarà la fila degli investitori stranieri. Le infrastrutture, il costo dell’energia, la farraginosità dell’amministrazione pubblica, la presenza delle mafie nel sud: sono questi i maggiori ostacoli, di sicuro non l’articolo 18.

Questo nulla toglie all’importanza della riforma. La fretta di Monti e Fornero, la poca voglia di arrivare a un compromesso dignitoso, digeribile anche per la Cgil, fanno nascere il sospetto che il governo volesse proprio questo: arrivare alla rottura. E dimostrare in questo modo che “non accetta veti”, che non si fa bloccare da “interessi di parte”, insomma, che sa mettere il sindacato in riga.

E se la riforma passerà nei termini proposti dal governo, quella dimostrazione sarebbe riuscita in pieno. I mercati gradirebbero senz’altro, con possibili ricadute anche sullo spread. E il governo Monti rischia poco: a quanto pare moltissimi elettori apprezzano il suo piglio decisionista.

Chi invece rischia moltissimo è il Partito democratico. L’esempio tedesco dovrebbe essergli di monito. Dieci anni fa il governo rosso-verde guidato dal cancelliere Gerhard Schröder varò un’ampia riforma del mercato del lavoro tagliando i sussidi a gran parte dei disoccupati e ingaggiando un forte scontro con i sindacati.

La Spd pagò quello scontro con l’abbandono di milioni di elettori e con la nascita del partito Linke alla sua sinistra. Nel 2005 il partito entrò nella Grosse Koalition guidata dalla cancelliera Angela Merkel; la Spd ne uscì con le ossa rotte. L’attuale presidente del partito, Sigmar Gabriel, pochi mesi fa ha riassunto così la lezione: “Mai più contro i sindacati”.

Un Pd che aderisce alla riforma dell’articolo 18 può a sua volta aprire la strada a una Grosse Koalition all’italiana dopo le elezioni del 2013. Ma c’è da temere che, dati gli orientamenti di larga parte del suo elettorato, ne uscirebbe ugualmente malconcio.

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