Italiani emigrati a Groninga, nei Paesi Bassi, per completare il dottorato di ricerca, nel 2012. (Domiziano Di Figlia, Luzphoto)

Come molti italiani e italiane, sono nipote di un emigrato. Da bambina mi domandavo sempre perché quel nonno misterioso se ne fosse andato a lavorare all’estero, non riuscivo a immaginarlo in quel paese del Sudamerica: non l’avevo mai conosciuto. Sapevo solo che negli anni cinquanta lui e il fratello avevano lasciato il loro negozio da barbiere ed erano andati a cercare fortuna altrove. Perché se n’erano andati dall’Italia se avevano un lavoro? Come potevano aver abbandonato mogli e figli? La ragione che spinge un emigrante a emigrare è sempre la stessa: la costruzione di un futuro, per sé e per i suoi figli. Gli emigranti sono persone che barattano il loro presente, lasciano sicurezze, famiglia, patria. Pazzi? Disperati? Non necessariamente.

Dal nostro paese sono partite varie ondate migratorie, la prima tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, la seconda negli anni trenta e un’altra negli anni cinquanta. Per un totale che oscilla tra i 26 e i 29 milioni di partenze, dal 1896 al 1973: quello italiano è stato il più grande esodo della storia moderna.

L’ultima ondata migratoria è cominciata nel 2007-2008, in coincidenza con la crisi economica e finanziaria. Secondo Delfina Licata, curatrice del Rapporto italiani nel mondo 2014 redatto dalla fondazione Migrantes, oggi “partono anche i ‘talenti semplici’, quelli che mettono a disposizione le loro capacità intellettive e operative al servizio di qualunque paese che li valorizzi come persone e lavoratori. Quello che fa la differenza, dicono molti emigrati, è la meritocrazia: ciò che l’Italia non ha saputo dare loro”.

Se fino a qualche tempo fa l’attenzione dei mezzi d’informazione si è concentrata quasi esclusivamente su professionisti laureati e ricercatori, i cosiddetti “cervelli in fuga”, oggi c’è un nuovo picco di crescita degli espatri e l’emigrazione è diventata più varia: per la maggior parte se ne vanno ancora gli “altamente qualificati” soprattutto in Asia, ma oggi emigrano anche semplici “braccia in fuga”. Inoltre, la gente ha cominciato a emigrare anche e soprattutto dalle regioni del nord, come Lombardia ed Emilia-Romagna, non solo dal sud. Infine, rispetto a qualche anno fa, partono anche nuclei familiari, non solo singole persone.

Secondo i dati raccolti da Migrantes (sulla base dei dati dell’Anagrafe italiani residenti all’estero, Aire) nel 2014 sono emigrate 90mila persone. Ma il dato è in continua crescita. Nella storia, i paesi con più oriundi italiani sono, nell’ordine, Brasile, Argentina e Stati Uniti. Oggi non è cambiato moltissimo, anche se l’Asia sta emergendo tra le destinazioni dove si riscontrano le variazioni più interessanti per gli anni 2013-2014: l’Italia continua a guardare a oriente e, in particolar modo, alla Cina (+876 persone), a Singapore (+458), alla Thailandia (+391) e al Giappone (+295).

Oggi emigrare è più facile di un tempo, ci sono guide, ebook, siti internet che aiutano a orientarsi nei vari paesi di destinazione

Naturalmente questi dati non tengono conto degli expat o delle mobilità precarie, chi lavora all’estero per esempio solo per una parte dell’anno. A volte emigrati ed expat sono sinonimi, ma di solito questi ultimi partono con maggiori sicurezze: hanno un lavoro all’estero proposto dal datore di lavoro italiano, vivono in abitazioni pagate dall’azienda – o dall’ambasciata o dal ministero – e partono normalmente con un progetto di ritorno. In ogni caso,“temporaneo” e “definitivo” sono aggettivi che è meglio non usare nel campo dell’emigrazione: persone che pensano di andarsene per sempre possono tornare e altre che, invece, immaginano il loro percorso migratorio come temporaneo possono installarsi all’estero.

Mio nonno emigrò in Venezuela nel 1953 lasciando in Italia la moglie e i due figli. Tornò in Italia solo nel 1985, 32 anni dopo, malato e ormai incapace di parlare la lingua italiana. Morì l’anno successivo. Queste emigrazioni che dividono in due le famiglie esistono ancora purtroppo: l’esodo di “badanti” dall’Europa dell’est, quasi sempre sole, con i figli abbandonati, sono storie dolorose. Come si sa, molte di loro finiscono per rimanere nel paese straniero, preferendo far emigrare anche i figli, e magari lasciando in patria mariti indolenti e violenti. Questo è il caso di Lilia Bicec che lo ha raccontato in Miei cari figli, vi scrivo, lettura obbligatoria per chiunque voglia capire cosa significhi emigrare per una donna.

Un’area della facoltà di scienze informatiche dell’università di Groninga, nei Paesi Bassi, nel 2012. (Domiziano Di Figlia, Luzphoto)

Oggi emigrare è più facile di un tempo, ci sono guide, ebook, siti internet che aiutano a districarsi tra le norme burocratiche dei vari paesi di destinazione. Dal 1990 esiste l’Aire: per avere informazioni dettagliate su come prendere la residenza all’estero basta leggere qui.

Aldo Mencaraglia, blogger di Italiansinfuga, che con 400mila contatti al mese è il riferimento principale per chi vuole emigrare, ha scritto anche una piccola guida, È facile cambiare vita se sai come farlo (BUR).

Per Mencaraglia, emigrato a Londra e poi in Australia da una decina d’anni, l’ondata migratoria attuale è “agevolata dai costi inferiori di trasferimento e dalla facilità di comunicazione”. Riguardo le mete più lontane rimane difficile e costoso andare prima in perlustrazione, come succedeva in passato quando a partire erano prima maschi singoli poi raggiunti dalle proprie famiglie. In due delle storie che ho raccolto, le donne hanno raggiunto i mariti solo in seguito, e in paesi a loro totalmente sconosciuti.

Emigrazione trasversale

“Il modo di emigrare degli italiani negli ultimi tempi è di sicuro cambiato. Mentre prima della crisi l’emigrazione era vista più come un modo per soddisfare una curiosità verso l’estero oppure come obiettivo primario per migliorare la propria conoscenza della lingua straniera, adesso è dettata spessissimo dalla disperazione”. Mencaraglia raccoglie da anni storie di emigrati, oltre a dare consigli diretti a chi gli scrive. “Purtroppo questa disperazione non aiuta a fare scelte che ottimizzino il successo del trasferimento. Va anche detto che ci sono tanti italiani che, dopo aver tentato la strada dell’espatrio, tornano”.

Anche Vivere all’estero di Francesca Prandstraller, docente alla Bocconi di organizzazione e risorse umane, offre una “relocation di successo” per “un’emigrazione di qualità”. Ma oggi ci sono anche guide differenziate per singolo paese. O per professione, come Doctors in fuga, per i medici che cercano lavoro all’estero.

C’è un’intera collana di ebook edita da Latitudine 40 in collaborazione con il sito Voglioviverecosì, che con 250mila visite mensili è l’altro riferimento online per gli italiani in fuga: Vado a vivere in Canada, Vado a vivere in Australia, Vado a vivere alle Canarie e così via.

Presto arriverà anche Vado a vivere in Brasile di Stefano Gentile, 50 anni, laurea in economia, emigrato in Brasile. Gentile ha deciso di aprire una piccola organizzazione che fornisce tutto l’appoggio necessario per chi vuole trasferirsi o anche solo investire da queste parti (per informazioni scrivere qui).“Nel frattempo ho aperto anche un ristorante. In Brasile è più facile iniziare un’attività: ci sono meno pastoie burocratiche e l’agenzia delle entrate non fa la caccia alle streghe”.

Per un italiano in Germania ci sarà sempre lavoro in cucina, anche se non sa la lingua

Da gennaio 2015 è in funzione www.t-island.eu che offre un servizio personalizzato di coaching, mentoring e supporto a chi è in Italia e vuole un’opportunità lontano da casa. Il sito è curato da Alberto Forchielli e Stefano Carpigiani, due “guru” del settore. Scritta da Forchielli e Carpigiani, uscirà a settembre per Sperling & Kupfer la guida definitiva per il potenziale emigrante: “Oggi l’emigrazione è trasversale”, dice Carpigiani. “Il motto sembra essere: chiunque può, dove riesce, non appena possibile. E le motivazioni, che sono delle più disparate, tendono però sempre più ad avere una connotazione diversa rispetto al passato. Cresce il sentimento di delusione verso un paese che non ha dato opportunità di crearsi un futuro. Dal mio punto di vista, chi se ne va lo fa perché è in cerca di un sistema più meritocratico”.

Una sala dell’università di Groninga, nei Paesi Bassi. (Domiziano Di Figlia, Luzphoto)

Ma come sono, nella pratica, le storie delle famiglie neoemigrate o in procinto di partire? Ne ho raccolte quattro. Sono storie di coraggio e lungimiranza, non tanto diverse in fondo da quella di mio nonno che da bambina rifiutavo di comprendere e dei milioni di emigrati del passato “in bianco e nero”.

Peppe e Alessandra, emigrati in Germania

Peppe è nato a Bari e per anni ha vissuto in Umbria facendo molti mestieri diversi, tra cui il produttore di zafferano. Alessandra è umbra di genitori romani, in Italia ha fatto le pulizie in nero. Hanno entrambi 32 anni e quattro figli di dodici, sette, tre, e un anno. Con una famiglia così numerosa, a Gubbio, dove la crisi è stata particolarmente acuta, era un po’ dura.

Dal settembre del 2014 vivono a Diefflen, un paesino vicino alla Foresta Nera, a due ore da Bruxelles e dalla Francia. Peppe e Alessandra sono raggianti: “Stiamo benissimo”, mi dicono dallo schermo di Skype. Peppe non ha perso l’ironia e dice che a lui non interessa imparare il tedesco, tanto fa il cuoco: “Per un italiano in Germania ci sarà sempre lavoro in cucina, anche se non sa la lingua!”. Al Porto Cervo, il ristorante dove lavora, Peppe è responsabile di una parte della cucina e guadagna 1.600 euro al mese.

“Il comune però ci aiuta perché Alessandra non ha ancora un lavoro. Le pagano un corso di tedesco di sei mesi, dopo il quale il comune proporrà un mestiere per lei. Le faranno tre proposte: se le rifiuta tutte e tre, smetteranno di aiutarla”. L’aiuto consiste in un bonus di quasi 900 euro mensili per i quattro figli, l’affitto della casa, la benzina e l’asilo per il piccolo tutti a spese del comune. “Coi tedeschi funziona così: se stai alle loro regole ti danno una mano, sennò sei fuori”. Alessandra ha faticato un po’ all’inizio, ma ora parla già bene ed è contenta: “Quando sono arrivata ho provato un senso di vuoto. Un silenzio per le strade. Comunque, la gente è gentile, non c’è razzismo”. Quando chiedo a Peppe se torneranno a vivere in Italia mi dice sorridendo: “No, non torneremo mai più”. E poi, serio, aggiunge: “Non vedevo futuro in Italia. Qui lo vedo”.

Ilaria e Adam, da poco emigrati negli Stati Uniti

Ilaria è appena tornata dalla scuola materna, dove ha accompagnato il figlio di sei anni. A Los Angeles sono le nove del mattino. La voce è già squillante. Ilaria fa la fisioterapista, aveva un buon lavoro in Italia anche se non pagato benissimo. Con il marito Adam vivevano a Torgiano, vicino a Perugia. Adam fa il cameraman e durante i periodi in cui lavora per la tv, si è reinventato come montatore fotovoltaico, ovvero monta pannelli solari. Hanno entrambi 36 anni.

Adam ha la cittadinanza statunitense perché è nato e ha vissuto tutta la sua infanzia negli Stati Uniti. Ilaria non aveva mai messo piede negli Stati Uniti prima di trasferirsi nel febbraio scorso e, come mi racconta, per sempre. Negli ultimi anni li ho sentiti spesso dire che vorrebbero mollare tutto e andare: sono stanchi di sopravvivere, vogliono provare a vivere. Dal febbraio scorso vivono a North Hollywood, provvisoriamente a casa della nonna di lui, ma con l’idea di fare presto un piccolo mutuo e comprare casa. Adam ha il sogno di aprire un locale italiano, ma è ancora presto, per ora si dà da fare come pannellista, pagato il doppio esatto che a Perugia.

Ilaria deve fare la conversione del titolo di fisioterapista e poi potrà esercitare il suo lavoro. “Non vedo l’ora, qui il mio mestiere è molto ben pagato: trenta, anche cinquanta dollari all’ora, contro i dieci euro che prendevo a Perugia. Nel frattempo penso che cercherò di fare le pulizie da qualche parte… Qui fai tutto più volentieri. Perché? Perché ti pagano il giusto”. Certo, in California il costo della vita è più alto, e solo le spese per fare i documenti per lei e il bambino, compreso l’avvocato, sono stati un bell’investimento. “Ma noi volevamo fare un salto di qualità, e lo stiamo facendo”.

Andrea Parente, 27 anni, è andato a Groginga per completare il suo dottorato in medicina, nel 2012. (Domiziano Di Figlia, Luzphoto)

Glauco, 50 anni, emigrato a Panama, momentaneamente solo

A quasi 50 anni Glauco, ingegnere elettronico e consulente informatico, decide di cambiare vita. È a Panamá City da qualche mese, ha aperto una società e sta mettendo a punto il trasferimento della moglie e dei tre figli a settembre. A Roma lavorava, ma in modo “sempre meno gratificante e ancor meno remunerativo”.

“Un libero professionista nel mio settore riesce a mettere in tasca circa il 30-35 per cento di quello che fattura, però figura come uno che guadagna un sacco. Con moglie e tre figli a carico, sono arrivato a lavorare anche 14-16 ore al giorno, perdendo la possibilità di studiare, cosa fondamentale per un libero professionista. E senza arrivare a fine mese. Mia moglie è laureata in biologia molecolare con un dottorato, dopo qualche anno nella ricerca, oggi è disoccupata. Negli ultimi otto, nove anni io e mia moglie siamo stati letteralmente demoliti, in primis dallo stato. Abbiamo anche aperto una società insieme pensando di poter costruire qualcosa, ma ci hanno fatto passare qualunque fantasia: se studi a fondo le implicazioni, emerge chiaramente che o evadi o niente. Purtroppo io non ne sono proprio capace. In sostanza, in Italia in questo momento ti tassano anche la voglia di fare. Ho capito che mi ero stressato a sufficienza e che avevo fatto respirare questo stress anche a moglie e figli. E poi i figli, appunto… ho pensato al loro futuro: tra dieci anni i miei figli saranno in età universitaria o lavorativa. Non gli auguro per nessuna ragione di trovarsi lì in Italia”.

Glauco mi racconta che da quando è arrivato a Panamá, la voglia di fare gli è tornata, ha avuto più incontri professionali qui in poche settimane che in Italia negli ultimi dieci anni. “Anche solo per l’effetto positivo sul morale e sull’energia, farò di tutto per non tornare indietro”.

Maurizio, emigrato in India e tornato in Italia. Ancora per poco

Economista e piccolo imprenditore pescarese, Maurizio, 48 anni, moglie ricercatrice e due figli di 11 e 9 anni, ha lavorato per anni con enti privati e pubblici a Roma e ha insegnato all’università. Dopo varie delusioni e difficoltà, è proprio un suo laureando a dargli l’idea di aprire una start up in India. Nel 2008 Maurizio fonda una società di software a Bangalore, insieme a un suo studente, ma rimane in Italia a procurare lavoro per la società indiana. Qualche anno dopo lo contatta una società svizzera che produce antivirus e, vista la sua esperienza internazionale, gli propone di trasferirsi in India e lavorare per loro. È il 2012.

“Il lavoro andava bene, ma sapevo che non sarei riuscito a portare la mia famiglia in India, con i cobra che ti entrano in casa! Facevo il pendolare, tornavo ogni due mesi, ma era dura. Il mio progetto era quello di spostare la famiglia a Singapore, dove la mia società aveva un’altra sede e fare da pendolare tra lì e Bangalore. Fatturavamo quattro volte quello che fatturava la holding. Purtroppo poi sono tornato in Italia l’anno successivo. Ora lavoro per pagare le bollette, ma non ho più entusiasmo”.

Maurizio vorrebbe emigrare in Svizzera o in Danimarca e sta sondando il terreno. L’esperienza in India è stata fondamentale: “Anche se là c’è un casino pazzesco, e può succedere tutto e il contrario di tutto, ci sono possibilità. Qui è tutto statico. A me sembra che l’Italia stia selezionando al contrario: invece di valorizzare quelli che sanno di più, valorizza quelli che non sanno. E che rubano”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it