Tabran Kadm, giornalista televisiva, il 21 maggio 2015. (Ali Arkady, VII)

In genere semplifichiamo l’Iraq, e i suoi 35 milioni di abitanti, dicendo che il sud è sciita, il centro è sunnita e il nord è curdo. In realtà ogni città, ogni area dell’Iraq è un misto di varie confessioni, varie etnie – o di iracheni che interpretano la stessa religione, la stessa origine, in modo diverso. Complessivamente, quindi, è vero, la maggioranza della popolazione è sciita. Circa il 60 per cento. Ma più che una maggioranza e una minoranza, si hanno combinazioni di minoranze. E lì dove qualcuno demograficamente prevale, si scopre presto che è per l’effetto di guerre e di espulsioni. Di trasferimenti forzati, di ritorni impediti: l’omogeneità, cioè, non è naturale, è artificiale. A essere naturale, in Iraq, e non solo in Iraq, è la coesistenza.

Per questo, delle tante critiche nei confronti degli americani, la più diffusa è una: avere scelto per l’Iraq un sistema politico come quello della Bosnia, del Libano, un sistema in cui ogni carica, ogni posizione, e anche ogni appalto, viene assegnato secondo una ripartizione più o meno formalizzata di quote. Il capo dello stato deve essere curdo, il primo ministro sciita, il portavoce del parlamento sunnita. Indipendentemente da tutto. Indipendentemente dalla competenza, e soprattutto, dai risultati delle elezioni. Dalla volontà degli iracheni. Ed è un sistema, accusano in tanti, che non ha ratificato divisioni esistenti: ha piuttosto contribuito a crearle.

In questa attenzione quasi ossessiva per le etnie, la religione, le appartenenze, c’è una minoranza di cui non si parla mai: quella degli iracheni in cui ci si imbatte ogni giorno. Iracheni di tutte le età, di tutte le professioni, di tutte le aree del paese. Che, mentre sunniti e sciiti si combattono per le strade, aspettano barricati in casa che tutto questo finisca.

Ahmad, 31 anni

“In nome del rispetto della cultura, delle tradizioni, delle differenze e di mille altre cazzate, abbiamo perso il lume della ragione, e troviamo spiegazioni e giustificazioni per una serie di cose che non dovremmo affatto spiegare e giustificare. Perché il vero problema, qui, è la religione. Ma ti sembra normale che stiamo tutti a domandarci se siamo sunniti o sciiti? E ci chiediamo chi sono gli yazidi, se venerano la Madonna, un albero o un sasso? Baghdad è periodicamente paralizzata da questi pellegrinaggi, gente che sbatte la testa sugli stipiti delle moschee, che bacia pavimenti, si incatena, si frusta, ogni giorno un martire, un miracolo da commemorare, e nei modi più strampalati – ma li hai visti, in questi giorni? Arrivano da tutto l’Iraq strisciando per terra, come delle rane. Chilometri e chilometri: strisciando. E si insultano, si accoltellano, si squartano, si esplodono addosso: per delle cose che altrove sarebbero al più un’attrazione turistica. Se proprio devo finire carbonizzato da un’autobomba, che sia per una causa seria. Lo scioglimento dei ghiacciai, la fame in Africa. La cura per il cancro. Ma non per un palo della luce dichiarato santo. E voi, in Europa, difendete tutto questo in nome del rispetto della cultura, della società locale. Ma chi ha deciso che l’islam rappresenta l’Iraq, che non esiste nient’altro qui? Solo sunniti e sciiti e matti sparsi? L’identità è molto più multiforme e complessa di un’etichetta univoca. Anche io faccio parte della società locale”.

Zee, 23 anni

“Ero vicino a Baghdad, stavo girando un documentario. Camminavo per queste stradine polverose, e non so, tra queste case mezzo crollate, deserte, c’era qualcosa di strano. Poi ho capito: c’erano solo donne. Gli uomini erano stati tutti uccisi. E c’era questa signora anziana che aveva perso tutti, il marito, i figli, i nipoti, tutti: e aveva pianto così tanto, per anni, da diventare cieca. Pensa cosa significa, per un bambino, crescere in un luogo del genere. Per questo mi occupo essenzialmente di temi sociali. Di quell’emarginazione, di quella povertà, quelle disuguaglianze che sono la causa e l’effetto della violenza, e che però i mezzi d’informazione dimenticano per concentrarsi solo sul fronte. Sui combattenti. Senza mai spiegare da dove arrivano. La loro storia, le loro ragioni. E poi perché credo che raccontare abbia la forza di cambiare le cose. Non è solo denuncia. Testimonianza. Una famiglia, guardando in televisione un mio documentario sui mendicanti, ha riconosciuto il proprio figlio, un ragazzino sequestrato quattro anni prima, e con l’aiuto della polizia è stato possibile rintracciarlo e liberarlo. Adesso sto lavorando sui traumi di guerra. Un tema di cui non si parla, perché in Iraq chiedere il sostegno di uno specialista è considerato umiliante. Ma qui, se hai trent’anni, non conosci che la guerra. Non è questione di mediatori, ormai, di negoziati, ma di psicologi”.

Amar, 21 anni

“Vengo da una famiglia di estremisti islamici. Sono nato e cresciuto in uno degli slum più poveri, e più pericolosi, di Baghdad. Un quartiere sciita in cui sono tutti miliziani. Era quello che volevo diventare anch’io: un guerrigliero. Perché impari a considerare i miliziani come ragazzi coraggiosi e generosi, pronti a morire per difenderti. Per fare giustizia. Uno slum è uno slum: un ghetto in cui vivi completamente isolato dal resto del mondo. La pressione a omologarti è… è… neppure è pressione: perché il modello è uno e non è in discussione, perché nessuno sa che esiste anche altro. Però poi un giorno, per caso, sono entrato in un teatro e si parlava proprio del mio quartiere. Ovviamente in modo critico. O meglio: da una prospettiva a cui non avevo mai pensato. I miliziani non erano eroi, ma teppisti. Al servizio non di ideali, ma di denaro e potere. E da lì è scattata la curiosità, la voglia di scoprire cosa c’era oltre i confini del mio piccolo mondo. E ho imparato che sono una persona, non uno sciita. Che non appartengo alla mia famiglia, al mio quartiere – in cui naturalmente tutti mi bollano come un traditore. Sarei finito al fronte, o più esattamente, sarei finito a spadroneggiare per le strade con il kalashnikov e il passamontagna, sinceramente convinto di essere forte, come tutti i ragazzi con cui sono cresciuto. E che non hanno mai visto altro. Sono convinti di essere forti, e invece quelli sotto attacco, quelli da proteggere, vulnerabili, sono loro. Perché non esistono. Sono solo quello che il loro ambiente ha deciso che siano”.

Ahmed Monica, attore, il 21 maggio 2015. (Ali Arkady, VII)

Ahmed, 24 anni

“In realtà non esistono libri migliori o peggiori, solo libri a cui ti senti vicino, che ti coinvolgono, o libri che non ti coinvolgono – però uno dei poeti che amo di più è Rilke. Rilke quando dice: la vita è breve, ma il giorno è lungo. Perché Baghdad è una città che ti carica di energia. Niente, qui, ti sembra mai abbastanza. Perché è una città di diversità: una città che ha conservato traccia, strato per strato, generazione dopo generazione, di ogni suo abitante. E quindi tutto ti rinvia a un’altra storia, qui. A un altro mondo, un altro tempo. Baghdad è una fucina dell’immaginazione. E poi se vivi qui, sei abituato a vivere… come dire: in profondità. Immerso in questioni complesse, costanti sfide morali e intellettuali. L’identità, l’altro, lo scambio, la differenza. Il riconoscimento. La giustizia. La dignità, la libertà. Il compromesso. O lo scontro, la resistenza. Per voi sono temi da tesi di dottorato: per noi è un caffè tra amici. E poi amo Rilke perché è un nome che da un iracheno uno non si aspetta. Secondo voi, ma anche secondo tanti arabi, Rilke non è parte della mia cultura. Ma sono nero, la mia famiglia è originaria del Kenya, e amo Rilke, e Roth e Franzen e la musica dance semplicemente perché mi piace. Non siamo solo le nostre tradizioni. In questo momento in Medio Oriente tutti guardano al passato. Ma alla fine, siamo quello che scegliamo di essere. Non siamo il prodotto di nient’altro che di noi stessi”.

Hisham, 32 anni

“Non ho alcun sentimento nei confronti di questa città. E sarebbe ora di finirla con questa retorica dei luoghi, delle radici. Della patria. Baghdad per me non significa niente. Non ha il minimo valore. Se penso a Baghdad, penso solo ai miei amici. Alla mia vita.Tutto il resto non mi interessa. Ti chiedono tutti di sacrificarti per il tuo paese, per il tuo popolo: ma il mio paese si è mai sacrificato per me? Cosa ho avuto dall’Iraq? Mio fratello è morto per una malattia banale, una malattia curabilissima. E non sono state le sanzioni, non è che mancavano le medicine. Non è stata la guerra, la povertà, gli americani, i sunniti e gli sciiti: no, mio fratello è stato ucciso semplicemente dall’incuria dei medici. Dall’incompetenza. Abbiamo chiesto un’autopsia, abbiamo chiesto che il suo caso venisse studiato, perché non si ripetesse più: neppure hanno risposto. In questo paese non funziona niente, e la colpa è ogni volta di Bush, di Bremer, dell’islam. Ma nessuno prova a migliorare le cose. A fare il medico con serietà, invece di stare a discutere dell’Iran e dell’Arabia Saudita. Sono chiamato a combattere, qui, per essere un buon cittadino, sono chiamato a rischiare la mia vita, ma per cosa? È il momento di pensare alle persone, non ai luoghi. E invece di domandarci cosa rappresenta questa città, cosa ci lega a questo paese, domandarci cosa rappresentiamo per noi stessi: cosa ci lega gli uni agli altri. È il momento di rovesciare le priorità. Come diceva James Joyce: Let my country die for me”.

Saud, 29 anni

“Sono mandeo. Una di quelle minoranze così minoranze che nessuno sa che esistono, e ogni volta pensano che sei vegetariano, o forse che è una forma di allergia: mandeo. Un albino o qualcosa del genere. La mia è una delle più antiche famiglie di Baghdad. Artigiani dell’ottone. Viviamo qui da sempre. Anche se non è più abbastanza, ormai: abbiamo trovato a casa tre proiettili di avvertimento. Al Qaeda. L’ultima minaccia di morte mi è arrivata un mese fa. Ma non ho nessuna intenzione di andare via, di trasferirmi altrove, perché oggi in Medio Oriente, e non solo, domina il modello Dubai: le città non sono che un assemblato artificiale di edifici, una gara tra architetti. Vogliono stupire, non vogliono ospitare. Accogliere. E invece Baghdad rimane una città costruita a partire dai suoi abitanti, mattone dopo mattone, metro dopo metro, un po’ alla volta: una città costruita sugli scambi, sulle relazioni. Una città in cui tutti si conoscono. In realtà tu Baghdad non puoi vederla: camminiamo per le stesse strade, ma in due città diverse. Baghdad è immateriale, sta dietro ai suoi muri scrostati, ai pilastri pericolanti, alle auto carbonizzate: è una città di persone. Tu vedi uno slargo di cemento, uno spazio, io vedo il mercato dei libri in cui venivamo da studenti, vedo la sua funzione – vedo la sua vita. Anche se non so per quanto ancora. Fino a oggi, sono stati uccisi 149 dei miei amici. Mia madre e i miei fratelli sono vivi, ma solo perché non abitano più qui”.

Murtadha, 23 anni

“Il mio sogno è diventare un fotografo. Cioè, in realtà ho due sogni: il secondo è bere un bicchiere di vino rosso. Perché il mio migliore amico è italiano, è di Pavia. Nicola. Studia geologia. Ci siamo conosciuti a Istanbul, tre anni fa: da allora siamo inseparabili. Ma solo su Facebook, Whatsapp e Skype, perché avere un visto per l’Europa, per un iracheno, è un’impresa. I genitori di Nicola hanno tentato di tutto per aiutarmi con i documenti, con l’ambasciata, perché la procedura è un labirinto, sono necessarie tre lettere di invito, un’assicurazione, svariate migliaia di dollari di deposito in banca. E anche un colloquio finale, tipo esame di maturità: naturalmente, pensano che un arabo di 23 anni poi voglia rimanere in Italia – e quindi non sono mai arrivato al colloquio. La tua richiesta, tra l’altro, viene respinta senza una motivazione, per cui non capisci neppure se e come ha senso provare di nuovo. Ma io non ho la minima intenzione di trasferirmi in Italia. Non è che stiamo tutti con la valigia pronta, qui: l’Europa, per me, è un altro mondo come per te è un altro mondo il Medio Oriente. Non è che siccome c’è il kebab ti senti a casa. Io voglio vivere qui. Voglio semplicemente viaggiare, come tutti, andare e tornare – e inItalia, vedere i luoghi dei film del mio regista preferito: Giuseppe Tornatore. Siete sempre centrati su voi stessi. Ma all’inizio anche la mia famiglia, non solo quella di Nicola, era diffidente. I suoi temevano potessi essere un islamista, un terrorista. Ma anche i miei avevano paura di questo sconosciuto che poteva essere un trafficante di droga, di armi. Perché un italiano, no?, è pericoloso. La mafia ha affari ovunque”.

Mahmoud, 19 anni

“In realtà, il paese di cui sono più curioso è la Green Zone. Non posso entrarci, è l’unica parte di Baghdad che non conosco: non ho la minima idea di come sia. Ed è surreale, perché è la sede del potere, alla fine. E uno fa una guerra e un milione di morti per eliminare un regime, e cioè un potere esercitato senza possibilità di controllo, di indirizzo, di condizionamento, e poi insedia un potere identico a prima: ugualmente inaccessibile. Cioè, onestamente, non è che sono curioso. Non è che mi dispiace non frequentare chi vive lì dentro, perché devono essere degli idioti. Voglio dire, perché è demenziale, è evidente, io non ho idea di come sono loro e loro non hanno idea di come sono io: so solo che pretendono di cambiarmi, di modernizzarmi – di civilizzarmi. E l’unica cosa che conoscono dell’Iraq è la strada per l’aeroporto. Che poi, questa cosa di stare lì barricati… Questa è casa nostra: è inutile costruire barriere, blindarsi, troveremo sempre il modo per attaccarli. La sicurezza non viene dai muri, ma, all’opposto, dalla conoscenza reciproca. Dalla fiducia. Anche se poi questo è solo l’istinto. Cioè, pensare che sono degli idioti. Perché allo stesso tempo è come se ti rimanesse addosso un dubbio: sono sbagliati loro o sono sbagliato io? È come vivere in un’ombra perenne. Con questa presenza misteriosa che ti domina, e che ti ricorda in ogni momento che non sei niente, tu, la tua cultura, la tua società, non siamo che residui arcaici: nel resto del mondo sono tutti più intelligenti di noi. E come posso ricostruire l’Iraq, se non credo in me stesso? Forse è questa l’insicurezza più pericolosa”.

Le foto pubblicate in questo articolo fanno parte del progetto Happy Baghdad del fotografo iracheno Aly Arkady.

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