Bruxelles è tante cose: l’algida e ordinata città delle istituzioni comunitarie, che paiono fatte su misura dei burocrati e tecnocrati che la governano, il paradosso di una città linguisticamente divisa tra fiamminghi e valloni, le banlieues arabe di Molenbeek e Anderlecht.

È stata il rifugio politico di intellettuali costretti all’esilio come Victor Hugo, che qui si appassionò alle sedute spiritiche e, in procinto di lasciare la città, parlò profeticamente: “Belgi, un giorno ci saranno gli Stati Uniti d’Europa”. Uno squattrinato Charles Baudelaire si trasferì da queste parti il 24 aprile 1864 per partecipare ad alcune conferenze e performance teatrali ma, prima di essere colto da un ictus che lo avrebbe portato alla tomba, non ebbe parole tenere nei suoi confronti: “Sono naufragato in una Bruxelles desertica, non comprensiva, ostile”.

In una stradina del centro cittadino, il 10 luglio 1873, il poeta Paul Verlaine sparò per gelosia all’enfant sublime (come lo definirà poi) Arthur Rimbaud, che non voleva lasciar tornare a Parigi dalla moglie: “Siamo andati alla Maison des Brasseurs, sulla Grande Place, dove abbiamo seguitato a discorrere della mia partenza. Rientrati verso le due al nostro alloggio Verlaine ha chiuso a chiave la porta e vi si è seduto davanti. Poi ha caricato la pistola e ha tirato due colpi dicendo: prendi! Ti insegnerò io a partire!”, farà mettere a verbale Rimbaud nel commissariato di polizia dove fu condotto dopo l’arresto di entrambi.

Un pizzico di socialismo

Karl Marx invece vi soggiornò dagli inizi del 1846 al marzo del 1848, riuscendo a scrivere, tra una sigaretta e una partita a scacchi al numero 42 di rue d’Orléans, Miseria della filosofia in risposta alla Filosofia della miseria di Pierre-Joseph Proudhon, ma soprattutto Il manifesto del partito comunista, prima di essere espulso dal Belgio, che pure aveva lodato in un brindisi di fine d’anno all’Associazione operaia tedesca perché, aveva sostenuto, “qui esiste la libertà di discussione, il diritto di associazione” e da Bruxelles “si può spargere la semente dello spirito umanitario per il bene di tutta l’Europa”.

Parole curiosamente simili a quelle che qualche tempo dopo, alla vigilia della prima guerra mondiale, avrebbe pronunciato Stefan Zweig: per lo scrittore austriaco è in questo paese-crogiuolo che si incarnava la vera Europa.

Perché stupirsi, allora, se un pizzico di socialismo, autarchico e con una forte impronta di cattolicesimo sociale, sopravvive ancora oggi, da queste parti, nell’utopia di una comunità insediatasi in una vecchia fabbrica di polvere da sparo e denominata la Poudrière, “la polveriera”?

L’esperienza della polveriera è stata premiata in quanto esempio di comunismo realizzato

Sono andato a visitarla su consiglio di Riccardo Petrella, un simpatico toscano pronto al sorriso e alla battuta sagace. Petrella vive a Bruxelles da anni ed è considerato un punto di riferimento del pensiero noglabal. Docente emerito all’università di Lovanio, professore di ecologia umana all’ateneo svizzero di Mendrisio, autore di libri come Il diritto di sognare e presidente del contratto mondiale dell’acqua, è stato uno dei primi intellettuali a spiegare al mondo perché l’oro blu va considerato un “bene comune” e, in quanto tale, da sottrarre ai profitti delle multinazionali.

All’interno della polveriera recuperata ha aperto un ufficio della sua Università del bene comune, un progetto che comprende le facoltà dell’acqua, dell’alterità, della creatività e della mondialità. Il singolare ateneo è stato ideato nel 2001 dal Gruppo di Lisbona (un think tank messo in piedi per analizzare i cambiamenti prodotti dalla globalizzazione, di cui Petrella è stato uno dei principali animatori) ed è sostenuto da un gruppo internazionale di docenti e personalità esperte “nella promozione di alternative alla mercificazione della conoscenza e dell’educazione” attraverso “un modo nuovo di fare educazione centrato sull’apprendimento del vivere insieme”.

Ogni anno l’università conferisce un dottorato honoris causa in utopia a chi, singolo o collettivo, si è distinto per la sua capacità di andare controcorrente e guardare oltre gli stereotipi del pensiero unico. Tra gli utopisti illustri si conta pure un avvocato di Locri, Domenico Vestito, premiato per aver deciso di tornare a esercitare la sua professione nel paese d’origine in Calabria e per aver messo a disposizione dei concittadini le sue competenze professionali. Noblesse oblige, è stata insignita del premio anche la singolare esperienza degli abitanti della polveriera, considerata un “esempio di comunismo realizzato”.

A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità: da sempre è il principio ispiratore della comunità

Per non arrivarci impreparato ho fatto qualche ricerca e mi sono imbattuto in un singolare reportage a sfondo socioreligioso, opera di tale padre René Carpentier, che nel 1966 era andato a trascorrere una giornata con gli abitanti della Poudrière per rispondere a un’altra domanda: la comunità che si è installata nell’ex fabbrica può essere considerata “propriamente” cristiana? Il fatto che a fondarla fossero stati dei sacerdoti missionari, della congregazione degli Oblati di Maria, lascerebbe propendere per il sì, ma da subito l’essere cristiani non fu un requisito decisivo per entrare a farne parte.

Tra i primi residenti c’erano soprattutto abitanti del quartiere, operai e laici che non a caso avevano adottato come principio ispiratore l’aforisma protosocialista di Louis Blanc “a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”. Al termine della visita, padre René Carpentier arrivò alla conclusione che, più che l’afflato cristiano, a tenere insieme i membri della comunità era uno “spirito fraterno, non solamente a livello di un’amicizia reciproca, o di un’intimità, ma a livello delle relazioni pubbliche, al piano dell’ordine sociale e civile, a livello del regime economico, e a poco a poco, a livello degli accordi internazionali e mondiali, a livello politico”.

Il patto con il diavolo

La Poudrière si trova nel cuore di un intrico di ordinate stradine soprannominato le “coin du diable”, “l’angolo del diavolo”, in virtù di una leggenda risalente al diciassettesimo secolo e riguardante la costruzione del ponte che porta dall’altra parte del canale attraverso il quale il carbone estratto nelle miniere di Marcinelle arrivava da Charleroi. A tramandarla per iscritto fu Jacques Collin de Plancy, un demonologo che visse da queste parti tra il 1830 e il 1837: nel suo Dizionario infernale racconta come l’architetto che progettò il ponte sulla Senne dovette vendere l’anima a Belzebù per evitare che il terreno franasse in continuazione impedendone la costruzione. In cambio della buona riuscita dell’opera, il satanasso volle posare la prima pietra, come un politico qualsiasi in cerca di gloria a buon mercato (e chissà che non si tratti di una metafora).

Il patto però non si esauriva qui: il satanasso sarebbe ripassato dieci anni dopo per portarlo con sé negli inferi. Le cose non andarono esattamente nel modo previsto: il ponte non franò e l’architetto poté godersi il successo fino al giorno in cui Belzebù tornò a bussare alla sua porta e, con aria affabile e modi gentili, annunciò di essere venuto a onorare il contratto stipulato due lustri prima. Quando tutto sembrava perduto, fu un colpo di genio della domestica a salvare l’anima al malcapitato architetto: invitò i due a bersi un’ultima birra, esaudendo l’ultimo desiderio del condannato all’inferno. Il demonio accettò senza sospettare nulla e tracannò avidamente la bevanda, nella quale la domestica aveva versato qualche goccia di acquasanta, che lo fece evaporare all’istante.

Giovanni Morocutti chiamato Vanni, leader della comunità, il 19 giugno 2014. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

Il buon architetto oggi potrebbe andar fiero del suo lavoro. Il ponte sulla Senne è ancora lì, a un passo dalla vecchia polveriera. Ci si arriva rapidamente dal vecchio mercato di Saint Géry riconvertito in tempio della movida giovanile, passando davanti a una scuola araba e voltando a sinistra prima di arrivare sul canale. La ciminiera della Poudrière svetta su tutto il circondario, mentre la facciata è stata ridipinta da un graffitista con gli occupanti di un tempo che salutano, affacciati alle finestre. Al centro, una bilancia della giustizia pende in maniera ineguale.

Nata nel 1958 per iniziativa di un gruppo di preti operai, la comunità si è trasformata negli anni

Come mi aveva suggerito Petrella, vado alla ricerca di Vanni, un italiano diventato il leader della comunità in virtù del suo carisma, dopo la morte del fondatore padre Léon che aveva accolto a pranzo nel 1966 il reverendo Carpentier. Lo incontro nella grande sala che funge da refettorio. Ha il fisico asciutto e il volto scuro, abbronzato, sotto una folta barba bianca. In un angolo ci sono un divano e alcune poltrone, dietro una scrivania si legge l’antico motto “a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”. Vanni mi conduce fino alla cappella che affaccia direttamente sulla strada, al piano di sotto. Testimonia delle origini religiose e operaie di questa comunità che, partendo dall’originaria spinta missionaria di un gruppetto di preti operai, nel tempo si è trasformata in una sorta di comune dove vige “un altro ordine rispetto a quello della società civile che noi conosciamo”, come spiega padre Carpentier nel suo reportage.

Tutto cominciò nel 1958, quando le numerose fabbriche costruite intorno ai canali che avevano fatto meritare a quell’area la definizione di “piccola Manchester” presero a chiudere una dietro l’altra e il quartiere si trasformò in un piccolo cimitero industriale, con un tasso di povertà dickensiano. Fu per questo che un pugno di religiosi, guidati da padre Léon Van Hoorde, un uomo che a quindici anni dalla morte è ancora ricordato come il leader carismatico della Poudrière, occupò insieme a un pugno di abitanti del circondario e di ex lavoratori la fabbrica dismessa, formando da subito una piccola comunità di una cinquantina di persone, cercando “senza idee preconcette”, come scrive padre Carpentier, di entrare in contatto con la gente del quartiere.

I principi fondativi

Ma fu con il movimento del sessantotto che l’originario spirito missionario si contaminò definitivamente con istanze laiche, senza che venissero però stravolti i suoi principi fondativi: presenza nella società senza adottare il suo stile di vita, amicizia, giustizia ed eguaglianza sociale, utopia nel cercare di costruire un mondo nuovo, crescita personale. Obiettivi da raggiungere attraverso il lavoro, la condivisione, uno stile di vita sobrio, l’aiuto reciproco. “Tutti i problemi di ognuno vengono messi in comune; ognuno prende coscienza di una vita dove l’idea del profitto individuale è assente; ognuno è insieme con il suo dono differente”, racconta il reverendo, secondo il quale qui dentro “le varie persone non sono più un individuo”.

Chi entrava nella Poudrière doveva mettere in comune i propri redditi, “non il patrimonio” però, “per evitare di trasformarci in una setta”, spiega oggi Vanni, che arrivò qui dalle Alpi friulane nel 1969. Con il tempo, anche le case di fronte all’ex polveriera cominciarono a essere occupate, un edificio fu adibito a granaio e molti dei vecchi abitanti del quartiere, in segno di gratitudine, presero a lasciare le loro abitazioni in eredità alla polveriera o a venderle loro a prezzi più che ridotti. Il risultato, a cinquantaquattro anni dall’occupazione, è che praticamente tutte le case che affacciano sull’omonima strada e alcune di quelle sulla tangenziale rue des Fabriques sono abitate da esponenti della comunità.

Chi ne fa parte deve lavorare e i frutti del suo lavoro devono essere messi in comune

Anche se in tutta l’area è ben visibile quella che gli americani chiamerebbero gentrification, vale a dire la risistemazione innanzitutto urbanistica del quartiere al prezzo di un aumento del valore degli immobili e della progressiva espulsione dei ceti più poveri, che va di pari passo con la riconversione delle ex industrie abbandonate e la sistemazione dei ponti sul canale, il resto del “coin du diable” è ancora oggi in larga parte abitato da immigrati, in stragrande maggioranza nordafricani.

Sono quelli che vediamo affollarsi nel mercato della Poudrière per acquistare gli oggetti usati ma rimessi a nuovo dagli occupanti o i prodotti delle fattorie che la comunità ha fondato a Rummen, nelle Fiandre, e che garantiscono loro l’autosufficienza alimentare. È aperto tre pomeriggi a settimana e, senza timore di esagerare, si può affermare che con cifre che si discostano poco dal centinaio di euro si riesce ad arredare una casa intera.

Un altro mercato, più grande, è stato aperto in un ex cementificio a Peruwelz, alla frontiera con la Francia, e tutto ciò, grazie all’arte del riciclo e nonostante i prezzi a dir poco competitivi, ha fatto della Poudrière una comunità che tutto sommato riesce a vivere bene, con una gran cura di tutto ciò che è collettivo. Agiata ma ispirata alla sobrietà, e soprattutto con un principio: chi ne fa parte deve lavorare, in base alle proprie capacità, e i frutti del proprio lavoro devono essere messi in comune. “Noi non facciamo assistenza”, ci tengono a precisare, “chi chiede di venire fra noi deve contribuire con il suo lavoro in base alle sue possibilità e gli sarà dato a seconda dei suoi bisogni”.

A decidere, con il metodo della democrazia consensuale, faticoso per loro stessa ammissione perché basta un solo veto a produrre ulteriori discussioni e slittamenti, è l’intera comunità: un’assemblea mensile, denominata “riunione spaghetti”, è destinata alle decisioni più importanti, poi ci sono quelle settimanali o quotidiane per le cose minori. L’argent de poche, una sorta di mini salario di venticinque euro a persona ogni settimana, serve invece per le piccole spese, che non necessitano di un’assemblea per essere decise. Al resto provvede la comunità, in base a un’analisi dei bisogni: cosa comprare e per quale ragione? Il richiedente ne ha davvero necessità? Il consumismo non abita certo qui. Ma non tutto è totalitariamente collettivo: gli spazi personali sono garantiti, a cominciare dalla casa, l’importante è che vengano rispettate le regole della vita comunitaria.

Vanni voleva andare a Cuba per vivere la rivoluzione castrista. Si è invece fermato a Bruxelles

Gli abitanti della Poudrière, oltre al mercatino, svolgono un’attività ormai consolidata di traslocatori. “All’inizio non chiedevamo soldi ma a ognuno di darci quello che poteva. Poi ci siamo accorti che i più ricchi spesso erano quelli che pagavano meno e così siamo stati costretti a mettere delle tariffe, variabili a seconda del committente. Per i più poveri traslochiamo gratis”, dicono. La maggior parte di loro lavora nelle attività della polveriera, alcuni invece hanno un lavoro esterno e versano il reddito alla comunità.

Gli utili vengono utilizzati per le necessità degli abitanti, reinvestiti nelle attività o utilizzati per finanziare azioni di solidarietà o la rete di Emmaus, l’associazione francese contro la povertà fondata dall’abbé Pierre della quale fanno parte. Tra le sessanta persone che attualmente fanno parte della comunità (ma sono arrivati fino a 150 negli anni novanta) ci sono oggi un pastore protestante, Marise, una ragazza che lavora come infermiera in un ospedale e che rappresenta ormai la terza generazione, quella dei nipoti dei primi occupanti, alcuni immigrati musulmani, persone in difficoltà economiche o senza casa che vengono ospitate temporaneamente, ma anche gente che ha deciso di sperimentare un modello di vita alternativo, come il friulano Vanni.

La comunità della Poudrière, il 16 giugno 2014. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

In Italia Vanni lavorava per una ditta di spedizioni, per trent’anni ha montato tensostrutture in Belgio e condiviso i proventi della sua attività con i compagni della Poudrière. Voleva andare a Cuba per vivere la revolución castrista, si è invece fermato a Bruxelles. “Sono venuto per una decina di giorni nel 1969, mentre ero in attesa di un visto dall’Avana che non è mai arrivato. In seguito ho chiesto di tornare perché affascinato dalla radicalità di questo laboratorio di vita comunitaria, più umana, che non esclude nessuno e dove l’individualismo non ha diritto di esistere”, dice. Alla Poudrière ha incontrato la donna della sua vita, una studentessa che come lui era ospite per provare a vedere come si viveva senza essere proprietari individualmente delle proprie cose. Era l’epoca della trasformazione da comunità religiosa a laica, e così quando i due annunciarono di volere sposarsi, ma solo in forma civile, ci fu una lunga discussione in cui alla fine la loro volontà fu accettata.

Il mastice che tiene insieme il tutto

Fu proprio quel matrimonio che cambiò il corso della comunità. Oggi alla Poudrière la religione cattolica non è più un collante, anzi vige una libertà assoluta in materia, ma rimane una “spiritualità comunitaria” fusa in un originale impasto con un radicale anticapitalismo. È questo il mastice che tiene insieme il tutto, ora che ex sessantottini laici si trovano a convivere con vecchi occupanti e giovani musulmani. “Dal governo non vogliamo nulla, né sussidi di disoccupazione né pensioni minime”, affermano convinti.

Nella comunità il rispetto delle regole è anzitutto certezza degli orari. Per cui, nonostante sia giornata di assemblea generale e i temi da discutere siano numerosi, alle 18 ci si ritrova immancabilmente a tavola. Stavolta sono arrivati anche gli abitanti delle due fattorie per partecipare a un’assemblea generale e per questo la polveriera è al gran completo. Vanni mi spiega che, sebbene quello dei pasti sia il momento comunitario più importante, capita sempre che qualcuno si trovi al lavoro e non possa partecipare, o che i giovani nel periodo scolastico siano fuori o ancora che alcune famiglie preferiscano rimanere nei propri appartamenti.

Negli ultimi anni le porte si sono aperte per ospitare immigrati, persone rimaste senza un tetto, giovani in cerca di un’alternativa

Anche le motivazioni per cui si entra a far parte della comunità sono cambiate. Nei primi anni quella religiosa predominava su tutto. Poi, alla fine degli anni sessanta, cominciarono ad arrivare persone alla ricerca di uno stile di vita diverso, alternativo, anticapitalista, com’è il caso di Vanni e di sua moglie. Negli ultimi anni, la crisi economica ha bussato anche alle porte della Poudrière, che si sono aperte per ospitare immigrati, giovani alla ricerca di un’alternativa al neoliberismo o desiderosi di fare un’esperienza anticapitalista, anche temporanea, e persone rimaste senza un tetto. Oltre che per il professor Riccardo Petrella e per gli allievi della sua università del bene comune.

Finisco al fianco di una donna indiana. Proviene da un paesino olandese, dov’è stata adottata da piccola, e mi racconta di essersi trasferita alla Poudrière dopo aver conosciuto suo marito, convinto sostenitore della necessità di ripensare ogni modello sociale. Un giovane è arrivato da Barcellona per capire come si vive fuori dal capitalismo. È venuto a sperimentare la libertà in quest’oasi dove non si applicano le regole economiche e sociali che valgono nel resto del mondo, si è fermato un paio di mesi e ora ripartirà. Accade spesso, perché la Poudrière è un luogo aperto, dal quale si può entrare e uscire liberamente, ciò che è importante è la condivisione delle regole sulle quali si regge la comunità una volta che si è dentro.

Davanti a me ci sono tre ragazzine. Sono nate qui e sostengono di trovarsi molto bene nella comunità e di non aver alcun problema con i loro compagni di scuola, nonostante gli stili di vita molto diversi. Cantano tutti insieme un brano che si intitola Amitiés (eccolo qui, lo “spirito fraterno” di cui scrive padre Carpentier) e mezz’ora dopo, senza che nessuno dia loro il via, si alzano tutti insieme e riassettano il refettorio e la cucina.

Alle 19 è tutto finito e Vanni mi accompagna all’uscita con l’idea di avermi mostrato un’utopia diventata realtà: quella di una comunità che ha messo al bando la proprietà privata e il denaro, fondata sul collettivo e non sull’individuo. Qui, in questo angolo di Bruxelles di fronte all’antico ponte sulla Senne, dove il diavolo e l’acquasanta non smettono di scontrarsi.

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