“Mi piace il nuovo. Mi piace il cambiamento. Ma qualcosa che puoi riconoscere deve restare: qualcosa che permetta a chi ha amato l’anima di un posto di riconoscere quell’anima”. Ornella Tarantola ha lavorato per vent’anni all’Italian Bookshop nel centro di Londra e dell’anima di questa città, di questa zona, conosce qualcosa. Anche se ora talvolta si guarda intorno spaesata. “Giorni fa ero a poche strade da qui, ho guardato i palazzi e ho pensato che avrei potuto essere ovunque. Avrei potuto essere a Manchester”.

Non siamo in un posto qualsiasi. Siamo probabilmente tra le strade con più carattere di Londra, almeno fino a tempi recenti. Dopo una lunga storia a Cecil court, il vicolo affollato di librerie vicino a Leicester square, quattro anni fa l’Italian Bookshop si è trasferito al confine sudest di Soho, vicino a dove Regent street piega, come il bastione curvo di una roccaforte, verso Piccadilly circus. Soho a modo suo è sempre stata una roccaforte.

Qui la libreria condivide gli spazi con lo European Bookshop. “I nostri clienti sono inglesi, che conoscono o studiano l’italiano, e i ragazzi italiani che qui trovano un senso di casa. Magari scoprono gli autori italiani contemporanei che non leggevano in Italia. Lavorano nelle catene di coffe shop per il minimo sindacale, hanno poco a che fare con le favole sugli italiani che arrivano e conquistano subito Londra. Per ogni italiano che riesce, ci sono frotte di ragazzi che servono al banco di un Caffè Nero”.

Non è un segreto che il modello economico preferito di Londra sia quello basato su un ricambio continuo

In poche frasi Ornella ha tracciato un identikit della libreria e di un clima economico. “Amo Londra follemente. Ma se ci arrivassi oggi, non so se ce la farei a restare”. Lo stesso Italian Bookshop ha un futuro incerto: a marzo la libreria sarà sfrattata dalla sede attuale. È una storia che a Londra si ripete ovunque, a chiunque, di continuo. Il proprietario del palazzo vuole rinnovare e rifare e rimodernare, ovvero alzare bruscamente affitti già alti. “Chi potrà permettersi di subentrare allora? Qualche grossa catena. E un altro pezzo dell’anima di questa zona scompare”.

Sarà magari una di quelle catene per cui lavorano i ragazzi che oggi frequentano la libreria. Non è un segreto che il modello economico preferito di Londra sia quello basato su un ricambio continuo – di dipendenti giovani da pagare con salari minimi, affittuari da spremere finché non falliscono, edifici storici da sventrare e rifare all’infinito per ricavarne margini di speculazione sempre maggiori.

Un processo che a Londra accelera senza sosta, più che altrove, grazie a un’economia drogata da un forte afflusso migratorio, da una carenza permanente di spazi immobiliari, e dal potere predatorio concesso alle corporation e agli investitori immobiliari.

La novità è che questi meccanismi hanno intaccato l’ultima zona centrale che ancora viveva, con una sua economia e attirando turisti, proprio in ragione della sua diversità. Soho si è trovata in una “tempesta perfetta” che ha unito le pressioni del mercato immobiliare, le confische legate ai progetti Crossrail – le due nuove ferrovie sotterranee a grossa portata che viaggeranno sotto il centro di Londra – e una volontà di “normalizzare” la zona. La vecchia Soho se ne va. Un certo romanticismo di Londra non ha più casa. È come se la città, infine, divorasse il suo stesso cuore.

Uno striscione con la scritta “Salviamo Soho” su Denmark street, il 21 gennaio 2015. (Carl Court, Getty Images)

Per gran parte del ventesimo secolo, Soho è stato il quartiere delle bettole economiche dove si riunivano scrittori e artisti. Era anche il quartiere a luci rosse di Londra. Negli anni cinquanta fu la zona dei beatnik inglesi, mentre nei sessanta Carnaby street fu il centro della swinging London. Negli anni settanta le vie a sud del quartiere diventarono una Chinatown.

Negli anni ottanta le autorità cominciarono a contrastare locali di striptease e sexy shops, fino a confinarli in un paio di vicoli, mentre in contemporanea arrivava la comunità gay. Negli anni novanta, Soho trovò un equilibrio tra vecchio quartiere bohémien e nuova vita creativa: londinesi e turisti trovavano qui un misto di scantinati-nightclub, pub gay, ristoranti cinesi aperti tutta la notte, uffici di produttori cinematografici, teatri, negozi di dischi, librerie, caffè indipendenti, oltre agli ultimi bordelli clandestini.

La “normalizzazione” di Soho

Il persistere di una vaga aria losca teneva lontani gli animi più borghesi e gli agenti immobiliari, proteggendo la comunità di creativi e outsider vari che vivevano nel quartiere. Coloro che frequentavano Soho in quegli anni ricordano soprattutto un forte senso di comunità. Era uscire dal quartiere, piuttosto, a essere percepito come pericoloso.

Negli anni duemila sono cominciate le chiusure. Ha chiuso il Colony Room, il club per artisti fondato da Francis Bacon. Hanno chiuso caffè italiani come il New Piccadilly della famiglia Marioni, famoso per i tavoli di formica e le tazze di tè a mezza sterlina. Ha chiuso soprattutto l’Astoria, il teatro che aveva fatto la storia della musica dal vivo a Londra. Le proteste popolari non sono bastate a salvare lo stabile, demolito per far posto allo sviluppo della stazione di Tottehnam court road.

Infine, con gli anni dieci, prende il via la “normalizzazione” capillare di Soho. Una sorta di pulizia sociocommerciale negozio per negozio, casa per casa, porta per porta. A volte intervengono ordinanze di ordine pubblico: Madame Jojo’s, locale di burlesque e drag queen usato come set da Stanley Kubrick in Eyes wide shut, ha subìto una revoca della licenza dopo un banale alterco tra un addetto della sicurezza e un cliente. In molti hanno visto in quella revoca il segno di una spinta moralizzatrice che vorrebbe fare di Soho una nuova Covent Garden, l’area vicina ridotta a poco più di un parco a tema: pulita, asettica, senza vita notturna e senza rischi per gli investitori.

È stato allora, sul finire del 2014, che si è costituito il comitato Save Soho, sostenuto da nomi celebri come Stephen Fry e Benedict Cumberbatch. Il comitato ha ricevuto rassicurazioni dal sindaco Boris Johnson, ma a Soho le chiusure continuano quotidiane.

La perdita di spazio pubblico e lavorativo è un aspetto della trasformazione

Le chiusure avvengono spesso all’improvviso e i clienti sfogano la loro sorpresa in rete. La scomparsa di Stockpot, un caffè ristorante a conduzione familiare su Old Compton street, l’ultimo posto di Soho dove si potesse mangiare con meno di dieci sterline, ha provocato una tempesta di tweet.

Altre volte le chiusure sono oggetto di battaglie, come la petizione di 17mila firme che non è riuscita a salvare la sede del 12 Bar Club – dove Jeff Buckley suonò per la prima volta nel Regno Unito e dove Adele ha debuttato. Chiudono altri posti su Denmark street, la strada dei negozi musicali e degli studi d’incisione. Chiudono i pub indipendenti e diventano ristoranti di lusso, punti vendita di catene, o smettono di essere luoghi pubblici.

La perdita di spazio pubblico e lavorativo è un aspetto della trasformazione. Lo spazio residenziale è l’affare più redditizio a Londra, e ovunque ottengono il permesso, i proprietari preferiscono erigere una nuova palazzina di appartamenti che venderanno o affitteranno nelle fasce alte del mercato. Secondo l’Economist, nell’arco di dieci anni in quest’area sono stati convertiti in appartamenti più di 180mila metri quadrati di uffici.

Il consueto paradosso della gentrification: i residenti benestanti sono attratti dalla vitalità di una zona, ma una volta insediati spingono perché la zona diventi più tranquilla.

Scontro tra modelli d’investimento

La battaglia per Soho non riguarda solo il tentativo di salvare le ultime tracce dell’anima della zona, l’idea romantica che una metropoli occidentale possa conservare un cuore di luce-ombra e libertà. Riguarda lo scontro tra diversi modelli di investimento. L’economia di una zona come Soho si basa sul settore dell’intrattenimento e su un patrimonio di individualità che richiama visitatori.

Si basa inoltre su quella idea di capitalismo, evidenziata dieci o quindici anni fa da economisti come Richard Florida, di lavoratori creativi in zone urbane dallo stile di vita libero e anticonformista, capaci di richiamare talenti e produrre innovazione. Oggi, tutto questo è espulso dalle ruspe e dalle gru, dalla forza bruta del valore per metro quadro, dalle opere di sviluppo con burocrazie inflessibili e bilanci miliardari.

Per avere conferma di questi processi si può allargare lo sguardo ad altre parti della città, dove sono coinvolti settori anche più strategici. A Shoreditch, per esempio, le start-up hanno provato a costituire una sorta di Silicon valley britannica, ma molte sono costrette ad andarsene per il costo degli affitti.

A Soho, imprese che un decennio fa sembravano l’avanguardia della città sono oggi vittime trascurabili dei suoi impetuosi cambiamenti. La lista dei locali gay che hanno chiuso negli ultimi anni non smette di allungarsi: Bar Code, Ghetto, Candy Bar, Manbar, Green Carnation, The Edge. Mentre il Curzon Soho, il raffinato multisala che ospita affollati festival di cinema, è minacciato dalla Crossrail 2. Le nuove linee ferroviarie promettono di portare più visitatori, ma cosa verranno a fare quei visitatori, se non ci saranno più luoghi interessanti dove andare?

Due ragazzi davanti a un negozio di strumenti musicali su Denmark street, Soho, il 21 gennaio 2015. (Carl Court, Getty Images)

Poco prima di Natale, ci si ritrova per la presentazione di un libro e un ultimo brindisi all’Italian Bookshop. C’è molta gente. Ci sono la comunità letteraria italiana di Londra, i giovani frequentatori della libreria, il resto della squadra che la gestisce con Ornella. Aria di commozione e qualche risata. Ornella annuncia che la libreria potrebbe riaprire in un’altra parte della città, a South Kensington, ma sarà un negozio molto più piccolo che non le permetterà di fare quello che ama: esporre i libri, mettere in evidenza le novità, fare insomma al meglio il suo lavoro di libraia.

Se l’Italian Bookshop sopravviverà, sebbene in una zona meno comoda e con spazio molto ridotto, sarà in ogni caso una buona notizia. Altri luoghi di Soho intanto resistono e non sembrano avere intenzione di mollare. Non c’è solo una cronaca della fine, in questa prodigiosa città.

Ma c’è un motivo se le elegie sulle chiusure di locali storici e sulla perdita di identità dei quartieri sono diventate un genere onnipresente sui mezzi d’informazione londinese. In una metropoli in movimento febbrile, sovrappopolata e nervosa, dove si vive da stranieri e circondati da stranieri, ciò che conta è salvare qualche senso di comunità.

La storia di Soho conta non solo perché si tratta di una zona storica, di cui proteggere l’architettura e l’atmosfera, ma perché i suoi luoghi hanno finora espresso un senso di comunità e di appartenenza, o di varie comunità intrecciate, pacificamente, nello spazio protetto di un village urbano.

Per alcuni, queste sono solo nostalgie passatiste. Magari è così. Eppure la trasformazione di un luogo risponde sempre a spinte economiche e non è detto che siano quelle più lungimiranti. Disperdere l’anima di un luogo è un investimento costoso e intimamente violento. In nome di quale modello di futuro urbano?

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