“Buongiorno Stalingrado! Sei all’altro capo del mondo, ma quando rombano i tuoi cannoni rombano per me e per tutti coloro che vogliono essere liberi”: scriveva così Langston Hughes, poeta animatore del rinascimento di Harlem, movimento culturale e politico di lotta nell’America segregazionista. Da allora sono trascorsi più di 70 anni. Il mondo è cambiato e quei versi fanno da didascalia a Things fall apart (Il crollo), racconto per immagini che nel titolo cita il capolavoro dello scrittore nigeriano Chinua Achebe.
Alla Calvert 22 foundation, a Londra, fino al 3 aprile, sono in mostra poster, fotografie, manifesti, francobolli, a testimoniare decenni di sforzi della propaganda sovietica nel tentativo di sedurre i neri discriminati negli Stati Uniti e colonizzati in Africa.
L’artista russo-americano Evgenij Fiks, collezionista di immagini, appassionato di storia e mondi sommersi, è l’ideatore della mostra, un progetto nato negli anni novanta, quelli dell’implosione dell’Unione Sovietica e della “fine della storia”: “Mi ero trasferito a New York da Mosca e, intervistando alcuni dirigenti del Partito comunista degli Stati Uniti, mi resi conto di quanto per loro fosse importante l’impegno antirazzista e la militanza degli afroamericani”.
Tracce profonde
Negli anni ne è nata un’indagine sulla propaganda terzomondista dell’Urss, variabile in grado di condizionare le relazioni e gli equilibri nel mondo diviso dalla guerra fredda. Things fall apart attraversa in effetti i continenti, da est a ovest, da nord a sud. Il cuore della mostra è la Wayland Rudd collection, raccolta intitolata a un attore afroamericano che si trasferì a Mosca nel 1932, stanco del razzismo di Hollywood, sedotto dall’ideologia stalinista.
“Nel corso di 60 anni le rappresentazioni sovietiche degli africani e degli afroamericani vivono fasi di maggiore o minore spontaneità, ma lasciano sempre tracce profonde”, osserva Fiks. “I manifesti pubblicitari con disegni di capitribù simili a cannibali scompaiono con l’ascesa di Stalin e con l’imporsi di una propaganda irreggimentata dai dogmi della solidarietà internazionalista, che impone nuovi protagonisti implacabili nella lotta contro l’oppressione coloniale”.
Nelle case della piccola borghesia russa arrivavano porcellane kitsch con principesse africane stilizzate
Mentre a Mosca si celebrano i grandi processi contro gli oppositori, nei poster e nelle stampe sono ritratti capitalisti in giacca, ghette e bombetta che impiccano giovani neri sotto bandiere con il fascio littorio. La denuncia delle violazioni dei diritti umani affianca gli appelli alla rivolta, con gli schiavi che si liberano dalle catene dell’apartheid e salutano il sol dell’avvenire: volti felici e fisici scultorei in marcia, bianchi, neri e asiatici, sotto le insegne del socialismo.
Sono gli anni della decolonizzazione, con i destini dei popoli che si compiono, e con i grandi leader indipendentisti, eroi e martiri, dal ghaneano Kwame N’krumah al congolese Patrice Lumumba, al quale Mosca intitola un’università che accoglie gli studenti del terzo mondo. Il racconto continua nell’era di Leonid Brezhnev, preludio al crollo.
Nelle case della piccola borghesia russa arrivano porcellane kitsch con principesse africane stilizzate mentre i diktat della propaganda sono ormai soffocanti. Nonostante invii di armi e consiglieri militari in Etiopia, Angola e Mozambico – nuove frontiere di una guerra fredda che alimenta conflitti civili e divora popoli – l’Urss non perde la capacità di seduzione.
Anche perché al di là delle motivazioni degli artisti resta il messaggio, sottolinea Fiks: “A un incontro pubblico a New York mettevo in dubbio la sincerità di quella solidarietà internazionalista e un signore distinto, afroamericano, sulla settantina, mi interruppe dicendo che il punto era un altro: nell’America segregazionista quelle immagini erano state un’ispirazione e avevano avuto un potere liberatorio”.
Mosca e la paura dell’altro
E poi cos’è successo? Cosa ne è stato di quei legami al tempo della destrutturazione liberista di Boris Eltsin e del nazionalismo neoimperiale di Vladimir Putin, che pure ha definito il collasso dell’Urss “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”?
A Mosca oggi domina la paura dell’altro, dice Fiks: “Gli ultimi 25 anni hanno distrutto i rapporti tra la Russia e il mondo nero, segnando un arretramento rispetto a ciò che si era cercato di fare nell’educazione alla solidarietà e nel contrasto alla xenofobia e all’antisemitismo”. L’Università per l’amicizia tra i popoli resta al suo posto, anche se non è più intitolata a Lumumba. Nelle sue aule hanno studiato e si sono laureati, sfidando inverni gelidi, decine di migliaia di giovani africani. Come Abderrahmane Sissako, il regista mauritano di Timbuktu, che con i film Oktjabr’ (1993) e Rostov-Luanda (1997) anima alla Calvert foundation una rassegna cinematografica. Di quelle storie nelle cronache moscovite restano poche tracce, per lo più preoccupanti.
“A causa delle aggressioni razziste molti studenti africani hanno paura di prendere la metropolitana dopo le nove di sera”, denuncia Fiks. Che i tempi siano cambiati lo confermano le borse di studio per gli stranieri, molte di meno e meno generose. O le provocazioni di una deputata russa, Irina Rodnina, ex campionessa olimpica di pattinaggio ora fedelissima di Putin. Su Twitter ha postato una foto di Barack Obama nella quale si vede il primo presidente nero degli Stati Uniti con la bocca piena. Sembra guardare una banana, aggiunta con photoshop.
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