Dove c’era l’acciaieria è rimasto il vuoto. Duecento ettari di terreno in abbandono o quasi, affacciati sul golfo di Napoli, tra la falesia di Posillipo e il quartiere di Bagnoli, alle spalle l’abitato di Campi Flegrei e di fronte la spiaggia di Coroglio con l’isoletta di Nisida.
La zona industriale di Bagnoli però è un vuoto cosparso di relitti, antichi e più recenti. I relitti della storia industriale: lo scheletro arrugginito di un altoforno, un camino di mattoni, l’enorme capannone rosso di lamiera che pare una cattedrale all’acciaio e poco altro a ricordare che qui c’era uno dei maggiori insediamenti industriali del meridione, lo stabilimento Ilva, poi diventato Italsider, una storia lunga quasi un secolo e ormai finita. L’ultimo altoforno è stato spento nel 1991, poi la fabbrica ha chiuso e in pochi anni è stata letteralmente smontata, in parte venduta in Cina e in India, in parte rottamata.
Da allora attorno a questo spazio ruotano progetti di riassetto urbano e si scontrano visioni del futuro di Napoli. Doveva diventare un parco pubblico, verde, ricreazione, scienza e tecnologia: uno spazio restituito alla città.
Ma la “riqualificazione” urbana è rimasta incompiuta, ed ecco i relitti più recenti: le tensostrutture bianche di quello che doveva essere un complesso sportivo, ultimato e però mai entrato in funzione (ora è sotto sequestro giudiziario). O la costruzione massiccia chiamata “porta del parco”, o il vecchio impianto di depurazione del acque trasformato nel Turtle Point: doveva diventare un ricovero per le tartarughe marine del Mediterraneo (invece è andato a Portici). Costruzioni che stanno invecchiando senza mai essere state usate.
Eppure la variante di Piano regolatore che doveva ridisegnare la zona è di vent’anni fa. Solo che prima di parchi, centri sportivi e tutto il resto, da quei terreni dismessi dall’industria andavano rimossi i reflui inquinanti accumulati nei decenni. Ma questo è stato fatto solo in parte. Insomma, sono passati venticinque anni dalla fine delle acciaierie, ma la trasformazione di Bagnoli non è decollata.
L’arrivo del commissario non ha rassicurato i bagnolesi, al contrario: molti ci vedono un disegno di privatizzazioni e speculazioni
Se a 25 anni dall’ultimo altoforno Bagnoli è tornata a fare notizia è perché il governo ha deciso di “scavalcare” il comune di Napoli, suscitando una guerra di poteri con l’amministrazione comunale. L’articolo 33 del decreto chiamato Sblocca Italia, varato nel 2014, ha istituito un commissario straordinario per la bonifica e l’urbanistica di Bagnoli.
Finalmente, è stato detto, il ritardo sarà colmato. Si tratta però di un intervento drastico, che toglie alla città di Napoli sia la bonifica (che in effetti spetta allo stato) sia gli interventi urbanistici (che invece sono prerogativa di un’amministrazione comunale), perfino la proprietà dei suoli in questione. Così si è aperto uno scontro istituzionale tra il governo e l’amministrazione del sindaco Luigi De Magistris, che ha presentato un ricorso al Tar (perso) e ora si appella al consiglio di stato. Il commissariamento ha suscitato anche le proteste di comitati, centri sociali e associazioni, con manifestazioni e scontri di piazza nel novembre 2014.
Le proteste, sia istituzionali sia dei movimenti, sono riprese quest’inverno quando il governo ha nominato il commissario straordinario: Santo Nastasi, vicesegretario di palazzo Chigi con un’esperienza di interventi straordinari nell’ambito dei eni culturali. “Un abuso di potere da parte del presidente del consiglio”, l’ha definito De Magistris. Il mese scorso una visita del premier Renzi è stata accompagnata da nuove proteste e scontri di piazza. Dopo venticinque anni, l’arrivo del commissario non ha rassicurato i bagnolesi, al contrario: molti ci vedono un disegno di privatizzazioni e speculazioni.
Inquinamento e lavoro
“La città ha diritto a un risarcimento”, dice Nicola Curci, che vive a Bagnoli fin da ragazzo: già operaio metalmeccanico (alla Selenia di Giugliano) e delegato Fiom, oggi attivo esponente di una rete di comitati e centri sociali, Bagnoli Libera. Siamo davanti alla stazione della ferrovia Cumana su viale Campi Flegrei, una via alberata con aiuole e panchine che taglia un rione di villini inizio novecento: reminiscenza di quando questo era un luogo di svago di napoletani benestanti, con le terme, il lungomare e gli stabilimenti balneari. A quei tempi a Bagnoli c’era già la prima fabbrica metallurgica , inaugurata nel 1910, ma allora era separata dall’abitato da una fascia di alberi e perfino orti urbani, e il rione di villini continuava a pensarsi quasi come un posto di villeggiatura.
La grande trasformazione è del dopoguerra. È allora che la fabbrica ha colonizzato Bagnoli. Tra i villini sono spuntati edifici più alti e sgraziati, il borgo è diventato un rione operaio. Un ampliamento dopo l’altro lo stabilimento è arrivato a costeggiare le case, al posto degli alberi c’erano i depositi di carbone e gli altoforni erano appena al di là del muro di cinta. Di notte gli abitanti delle case più vicine sentivano gli addetti che si davano istruzioni al megafono. Non a caso uno storico cinema del rione si chiamava Ferropoli.
Lungo la spiaggia di Coroglio, invasa di moli e cemento, c’erano la colonia per i figli degli operai e il circolo Ilva (che è ancora lì). Curci ricorda che la vita di Bagnoli era scandita dalle sirene di inizio turno: alle 6, alle 14 e alle 23. La polvere s’insinuava ovunque: “Ci eravamo abituati. Le lenzuola stese diventavano nere, e così i colletti delle camicie”. Accanto all’acciaieria sono arrivati lo stabilimento Eternit, la Federconsorzi e la Cementir (unica azienda privata, del gruppo Caltagirone): con l’indotto, erano tra quindicimila e diciottomila operai che arrivavano ogni giorno da tutta la provincia. Per capire bisogna affacciarsi dai belvedere di Posillipo: dall’alto si vede bene che l’area degli stabilimenti era più grande del rione stesso. “Era inquinamento. Certo, era anche lavoro”, osserva Curci. Lui non rimpiange l’acciaieria, spiega, ma “dov’è il lavoro, dove sono ricerca, tecnologia, innovazione? Qui i giovani non hanno più prospettive”.
Il progetto di De Lucia era liberare l’area dismessa dai manufatti industriali e trasformarla in un parco pubblico di circa 120 ettari
Quando l’Ilva ha chiuso, a Napoli molti hanno continuato a sperare in una riconversione industriale per Bagnoli. “La parola d’ordine era mantenere la capacità produttiva, si parlava di ‘vocazione industriale’: magari industria leggera, compatibile, pulita, ma pur sempre industria”, ricorda Daniela Lepore, docente di urbanistica all’università di Napoli, che ha studiato a fondo il caso di Bagnoli. Il fatto è che al momento della chiusura l’Ilva era già ridotta a 600 dipendenti. Non che fosse uno stabilimento obsoleto, solo pochi anni prima c’erano stati nuovi investimenti. Ma la siderurgia era in declino in tutti i paesi industrializzati. La deindustrializzazione italiana era ormai avanzata e Napoli non faceva eccezione: tra il 1971 e il 1991 la città ha perso 28 mila posti di lavoro industriali (riprendo il dato dal saggio Napoli, una città normale di Enrica Morlicchio ed Enrico Rebeggiani, pubblicato nel numero 2/16 della rivista il Mulino).
Così stavano le cose quando la città elesse sindaco Antonio Bassolino, nel 1993. La sua amministrazione decise di cambiare discorso: basta inseguire l’illusione del rilancio industriale, le aree dismesse di Bagnoli dovevano “tornare alla città”.
Assessore all’urbanistica era Vezio De Lucia, architetto e urbanista: è lui che ha cominciato a parlare di “restituzione”. Il suo progetto era liberare l’area dismessa dai manufatti industriali, salvo pochi elementi da recuperare a testimonianza del passato, trasformarla in un parco pubblico di circa 120 ettari e destinare altro spazio a strutture per lo sport, il tempo libero e la scienza, la spiaggia di nuovo aperta ai cittadini e tre fermate di un nuovo tracciato della ferrovia Cumana.
Il vuoto presente
“A Napoli e provincia c’erano già migliaia di ettari di aree industriali inutilizzate”, spiega De Lucia, che ho incontrato di recente a Roma. “Invece, bisognava restituire a Bagnoli e alla città intera una parte degli spazi e delle attrezzature che lo sviluppo industriale gli aveva negato”. Ricorda assemblee con i “caschi gialli”, gli operai in cassa integrazione, persone che vivevano nell’ansia di un futuro incerto: “Bassolino, pur industrialista convinto, seppe spiegare a quei lavoratori che anche il nostro progetto era sviluppo”. È allora che la fabbrica ormai chiusa è stata davvero smontata. Per il rione operaio è stata una lacerazione, inutile negarlo. Lo ha raccontato Ermanno Rea in un romanzo mirabile, La dismissione.
Ma quello è il passato: il problema presente è quel vuoto. Oggi il “piano De Lucia” è il baluardo da difendere, dice Nicola Curci. Siamo sul pontile nord, quello costruito con l’ultimissima espansione dell’Ilva negli anni ottanta per imbarcare i laminati d’acciaio. Oggi è tra le poche strutture dismesse tornate davvero all’uso pubblico, meta di jogging e passeggiate: chilometrico, arrivati in fondo sembra di stare in mezzo al mare. Su un lato c’è il monumento a Ferropoli, costruito con i rottami della dismissione: ricorda un totem dell’isola di Pasqua in versione ferrosa. Accanto si vede l’Arenile, un lido privato con bar che nei fine settimana diventa una rumorosa discoteca e attira folle di giovani, suscitando le rimostranze nel quartiere. Curci parla di “privatizzazione strisciante”, usurpazione del litorale pubblico.
Sull’altro lato c’è la colmata, uno dei rompicapo della bonifica: l’Ilva aveva riempito un settore di spiaggia di reflui e cemento, ora ci cresce l’erba ma pare che sia un concentrato di residui tossici. C’è una “barriera idraulica”, ma si discute di come sistemarla in modo definitivo: disfare tutto o in parte, o “mettere in sicurezza”.
Almeno in un intento però il piano è riuscito: salvare quei terreni sul mare dalla speculazione edilizia
La “variante di piano regolatore per l’area occidentale” è stata approvata dal consiglio comunale e varata dalla regione Campania nel 1998. In seguito il piano De Lucia è stato accusato di eccessivo “dirigismo”, di non essere economicamente fattibile (ma alcuni studi dicono il contrario), di non concedere abbastanza agli interessi di mercato (forse perché affidava l’attuazione a una società di diritto pubblico). “Diciamo la verità: ai poteri forti non era mai andato giù quel progetto fondato sull’idea di spazio pubblico, verde e loisir. Dicevano che la città non se lo può permettere”, ricorda l’urbanista.
Almeno in un intento però il piano è riuscito, salvare quei terreni sul mare dalla speculazione edilizia. Anche perché nel 1999 il ministero dei beni culturali ha messo un vincolo di tutela sull’area, e perché nel 2000 la zona di Bagnoli-Coroglio è stata dichiarata sito d’interesse nazionale per la bonifica dall’inquinamento industriale (il perimetro è stato più volte ridefinito, ora include 250 ettari a terra e 1.470 a mare).
Il punto dolente della bonifica
Poi però è cominciata una vicenda intricata (gestita da successivi amministratori, perché De Lucia aveva ormai lasciato la giunta Bassolino). C’è stata la Bagnoli spa (che ha condotto la dismissione dell’Ilva, dal 1996 al 2002). Poi la Bagnolifutura, “società di trasformazione urbana” a capitale pubblico (90 per cento del comune di Napoli, 2,5 per cento della provincia e 7,5 per cento della regione Campania), costituita nel 2002 per realizzare il progetto di recupero sui terreni finalmente sgombrati dalle fabbriche: parco, quanto di edilizia era previsto nel piano, viabilità. Alcune di quelle opere sono anche state realizzate, ma sono chiuse o vuote, vanno in malora senza mai essere servite.
Il riassetto urbano infatti era legato alla bonifica, e il vero punto dolente è proprio questo. Si trattava di rimuovere strati di terreno impregnati di sostanze tossiche, individuare tutte le fonti inquinanti, impedire che continuassero a percolare nei terreni o diffondersi in aria. Qualcosa è stato fatto, sembra che i residui di amianto accumulati dalla Eternit siano stati portati via.
Ma la bonifica non è conclusa. “In parte perché all’inizio la contaminazione era stata sottovalutata”, spiega Daniela Lepore, e poi proprio in quegli anni sono state varate nuove normative sui rifiuti e i reflui inquinanti. “Inoltre, per anni si sono trascinate guerre sui soldi e sulle responsabilità. I decreti sulla bonifica di Bagnoli si arenavano in parlamento per l’opposizione della Lega nord, i finanziamenti arrivavano con il contagocce”. C’è la controversia dei costi, stimati nel 1999 intorno a 250 miliardi di lire e nel 2003 a 150 milioni di euro, e sulla ripartizione degli oneri.
Il ricercatore e attivista Massimo Di Dato ricostruisce in gran dettaglio la vicenda all’interno di un libro appena pubblicato, Lo stato della città, un approfondito profilo di Napoli e della sua area metropolitana tracciato da giornalisti e studiosi del gruppo Napoli Monitor.
Le aree da ‘riqualificare’ sono sotto sequestro, le poche opere realizzate non sono mai state usate, la bonifica non è finita
Sta di fatto che nel 2012 Bagnolifutura affermava sul suo sito web che il 65 per cento dei siti contaminati era stato ripulito, ma la provincia ne aveva certificato solo il 45 per cento (riprendo l’informazione da Di Dato). Intanto la magistratura di Napoli aveva aperto una indagine e nel 2013 ha posto sotto sequestro buona parte dell’area. Ora è in corso un processo a carico di amministratori locali, dirigenti di Bagnolifutura e alcune ditte incaricate dei lavori, variamente imputati per truffa, disastro ambientale, smaltimento illegale di rifiuti: pare che residui di amianto rimossi dall’area Eternit siano stati sotterrati dove è poi stato costruito il centro sportivo.
Insomma: le aree da “riqualificare” sono sotto sequestro, le poche opere realizzate non sono mai state usate, la bonifica non è finita. Nel 2014 l’amministrazione de Magistris ha messo in liquidazione Bagnolifutura, l’anno dopo ha discusso con il governo un nuovo “accordo di programma” per rilanciare la riqualificazione di Bagnoli. Invece, il governo è intervenuto d’autorità.
Ora Bagnoli ha un commissario straordinario, una “cabina di regia” (il gergo politico italiano è sempre creativo) e un “soggetto attuatore”, l’ente statale Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, proprietà del ministero dell’economia). Nel primo decreto c’era anche una “società di scopo” pubblico-privata, che a molti è sembrata il preludio a speculazioni private (ma è scomparsa negli emendamenti del febbraio scorso: risultato delle proteste?).
Il sospetto di una speculazione rapida
Invitalia ha avviato una “conferenza dei servizi” per ridefinire gli interventi e procedere a nuova “caratterizzazione” dell’area (con 1,2 milioni di euro), cioè una diagnosi dettagliata del sito e della contaminazione; chiede il dissequestro almeno di alcune aree da “mettere in sicurezza”. “È come ricominciare tutto dal 1996”, osserva Daniela Lepore. “Ma senza il clima di speranza di allora, l’epoca della prima giunta Bassolino, quando Napoli sembrava uscire dal dissesto e riprendere un posto nel mondo”. Secondo lei alcun elementi del piano De Lucia ormai andrebbero rivisti: “Ci sono diversi modi di ‘rinaturalizzare’ un’area, senza pensare a una mitica linea di costa incontaminata, ma senza che ciò significhi speculazione. Ma ridiscutere quel piano pare tabù”.
In effetti oggi tutti parlano di verde, bene pubblico, bonifica. In fondo anche il presidente del consiglio lo ha detto: nessuna cementificazione, rispetteremo il piano De Lucia. Sul sito di Invitalia è comparso un forum aperto ai cittadini, con un appello a “partecipare al rilancio”. Parla di recupero ambientale e sviluppo ecosostenibile, di “conciliare bellezza, valorizzazione, sviluppo economico”, di trasformare l’ex zona industriale “da area di crisi a opportunità di investimento”. Ma a Bagnoli non ha dissipato i sospetti.
La spiaggia libera e il parco pubblico con tutti i progetti ricreativi sono irrinunciabili
Nicola Curci racconta di quando il mese scorso un ingegnere di Invitalia si è presentato per incontrare le “forze locali”: erano invitati anche associazioni e centri sociali, un tentativo di consultazione pubblica. “Ha mostrato le slide del nuovo progetto”, spiega. “Diceva che il piano De Lucia resta integro, ma da quello che ha aggiunto si capisce che non è vero: il parco si riduce da 120 a 85 ettari. Poi non è chiaro cosa intendano fare della spiaggia”. Ha parlato anche di un “miglio produttivo”, dove dovrebbero nascere attività di servizio come il rimessaggio barche. Già, perché c’è anche il progetto del porto turistico, verso Nisida, dove ora ci sono piccoli attracchi semiabusivi. “Nel progetto iniziale era una cosa da 300 barche, ora parlano di 700 e anche di megayacht. E c’è il progetto di un hotel su Nisida”. Il sospetto, spiega Curci, è che mentre i terreni industriali sono bloccati in attesa della bonifica, sul porto e sull’isola si prepari una “speculazione rapida”.
“Per noi la spiaggia libera e il parco pubblico con tutti i progetti ricreativi sono irrinunciabili”, insiste Curci. Tre anni fa i cittadini hanno promosso una petizione popolare, spiega, “una spiaggia per tutti”. Rivendica il vecchio piano di “recuperare la linea di costa” naturale, aree attrezzate ma nessuna installazione privata, e una lunga spiaggia libera: da Bagnoli con i villini che si affacciano sulla “piazza a mare”, con un vecchio lido degli anni sessanta (e un brutto edificio che ospita l’istituto nautico, costruito negli anni ottanta proprio sulla spiaggia), fino al borghetto di Coroglio, vecchie case fatiscenti che andrebbero demolite.
Massima polarizzazione
Ma non è chiaro cosa sarà della “colmata”: disfarla tutta o in parte, oppure “metterla in sicurezza” e coprirla? E non si conosce il destino della Città della scienza, che occupa il vecchio edificio della Federconsorzi ma anche un capannone sul lato mare, quello incendiato tre anni fa. Nei nuovi piani dovrebbe arretrare per liberare la spiaggia: “Ma allora perché è stato permesso di ricostruire dove stava?”.
Dopo l’Ilva, Bagnoli ha cambiato fisionomia. All’inizio, quando ancora tutti speravano nel nuovo piano urbanistico, c’era stata una piccola rigentrificazione, è andata via una parte degli operai che vivevano in affitto, sono arrivati giovani da zone più centrali. Qualcuno ha comprato casa pensando che la zona si rivalutasse, i prezzi sono saliti. Ma è durata poco, la rinascita urbana non c’è stata. Intanto è cresciuta una generazione che l’Ilva non l’ha mai vista. Nel rione post-operaio oggi ci sono insegnanti, impiegati, molti pensionati della fabbrica e i loro figli: giovani che hanno studiato, sono anche laureati, e sono senza lavoro. Eppure non se ne vanno.
“Del passato operaio e sindacale è rimasta una cultura di partecipazione e impegno sociale che si è trasferita alle generazioni più giovani, forse recepita a volte in maniera un po’ ideologica, ma con molta presenza sul territorio”, dice Riccardo Rosa, giornalista di Napoli Monitor e abitante di Bagnoli (lui fa parte della generazione arrivata nel quartiere dopo la dismissione).
In effetti nel rione esiste una rete di luoghi di aggregazione. C’è una libreria che promuove un festival di street art, ci sono tre centri sociali, tra cui villa Medusa occupata con il laboratorio politico Iskra e Lido Pola occupato con il collettivo Bancarotta. Restano anche le attività sociali con gli anziani e con i bambini. E le persone della generazione precedente, come Nicola Curci, che ha passato una vita in fabbrica e nella Fiom, oggi sono parte di questa rete.
Oggi la polarizzazione è massima. Il sindaco de Magistris diserta la “cabina di regia”. Se uno volesse attenersi alle dichiarazioni pubbliche, sembra una guerra tra il sindaco e il presidente del consiglio, ma forse pesa anche la campagna elettorale (a giugno Napoli elegge un nuovo sindaco). In gioco però non c’è una questione di personalità: c’è un governo che ha commissariato un’amministrazione locale.
“È inaccettabile”, sbotta Carmine Piscopo, assessore all’urbanistica della giunta de Magistris, che ho incontrato nel suo ufficio a palazzo San Giacomo, sede dell’amministrazione comunale. “Venticinque anni di ritardi? È un pretesto. Vorrei ricordare che Bagnoli è un Sin, un sito di interesse nazionale per la contaminazione industriale, e la responsabilità della bonifica è dello stato, cioè dei governi che si sono succeduti. In tanti anni Napoli ha visto molti accordi di programma, ma nulla di concreto”. Il commissariamento è “una tautologia”, dice, “il governo commissaria il comune di Napoli per fare qualcosa che doveva fare il governo stesso”.
Qualunque giunta comunale insorgerebbe: “Abbiamo un commissario straordinario con pieni poteri e un ente, Invitalia, a cui è trasferita la proprietà dei suoli e che può approvare varianti al piano regolatore, stravolgendo i piani dell’ente locale”, continua l’assessore Piscopo. Da un’altra sponda, anche Vezio De Lucia è molto critico: “Se avessero mandato un commissario ad attuare la bonifica mai fatta, direi ‘finalmente’: è responsabilità del ministero dell’ambiente ed è in ballo da vent’anni. Ma attraverso la bonifica si rimettono le mani sull’urbanistica, e non spetta al governo. Non si gioca così con le istituzioni”. E però “se la clamorosa invasione di campo del governo fosse il segno di un vero impegno? Se intanto si completasse la bonifica?”.
Bagnoli è stanca, dice Nicola Curci mentre risaliamo verso la Cumana, parlando delle prossime assemblee a villa Medusa e della manifestazione del primo maggio. Troppi commissari speciali che sono finiti in vicende di corruzione e speculazioni, dal terremoto ai rifiuti. Troppe false partenze, troppe speranze tradite: “Ormai molti pensano: che facciano qualunque cosa, purché qualcosa si realizzi”, dice. “Ma ci saranno davvero i soldi da investire nella famosa bonifica? Perché noi denunciamo il commissariamento e i rischi di speculazione: ma il sospetto più forte è che anche questo sia un bluff, l’ennesimo”.
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