A Caivano non è cambiato nulla, e così a Orta di Atella, a Giugliano e negli altri 52 comuni che fanno ufficialmente parte della cosiddetta Terra dei fuochi. Nonostante i proclami degli scorsi anni, la mappatura dei terreni inquinati e i duecento milioni annunciati dal governo Renzi per le bonifiche, il sistema dello smaltimento illecito dei rifiuti non si è fermato. Lo smaltimento segue la stagionalità delle produzioni coinvolte: ora è il tempo dei copertoni delle automobili e degli scarti del tessile, poi arriverà il turno del calzaturiero e delle plastiche per le serre.
Gli attivisti che si battono contro i roghi e gli interramenti dei rifiuti tossici conoscono le discariche abusive una per una. Sono sempre le stesse di qualche anno fa, a testimoniare che in quest’area a nord di Napoli che sconfina nel casertano l’industria dello smaltimento illecito funziona a pieno regime e ha poco a che vedere con cattive abitudini o scarsa coscienza civica.
“Le gomme delle auto sono abbandonate dagli autodemolitori e non dai gommisti, ce ne accorgiamo dal modo in cui sono tagliate. Vuol dire che si tratta degli scarti di un sistema di riciclaggio di automobili, che vengono smontate e almeno in parte rottamate”, spiega Enzo Tosti, un operatore sociosanitario che da anni setaccia ogni palmo del territorio ed è convinto che, per capire di cosa si sta parlando, la monnezza va osservata da vicino, esaminata scarto per scarto. Da buon entomologo della monnezza, da anni setaccia le discariche abusive.
È così che ha intuito che i sacchetti d’immondizia accatastati uno sull’altro non sono altro che uno specchietto per le allodole. Servono a coprire il ben peggio che c’è sotto: gli scarti dell’industria della contraffazione, ma pure delle grandi griffe che affidano la cucitura delle scarpe a un consolidato sistema low cost di lavoro informale casalingo, lo smaltimento selvaggio dell’eternit senza passare attraverso le complesse operazioni di bonifica.
Alla fine, Tosti si è convinto che le discariche abusive siano nient’altro che il sintomo di un “sistema industriale malato”, e che se si volesse eliminarle davvero bisognerebbe agire a monte, colpendo i mandanti. Ma, sostiene, “come si può pensare di eliminare il lavoro nero senza preparare misure economiche per contenere l’impatto sociale che avrebbe lo smantellamento di un sistema che dà lavoro a migliaia di persone?”.
L’ultima volta che ero stato da queste parti, in un viaggio sulle strade della crisi nel sud Italia che sarebbe diventato poi un libro, Il paese del sole, Tosti mi aveva portato a vedere una discarica a cielo aperto nelle campagne di Orta di Atella. C’erano residui della lavorazione di scarpe ovunque, taniche di collanti, ritagli delle tomaie. Tosti li aveva raccontati così: “Quest’area è da sempre un polo calzaturiero importante. Ora le grandi griffe parcellizzano il lavoro, affidando l’assemblaggio dei prodotti a centinaia di persone che lo fanno a casa loro. Una volta si premuravano di smaltire gli scarti, ora invece lo fanno fare a queste persone, perché non si possa risalire a loro in nessun caso”.
Le ecoballe sono ancora lì
Nella Terra dei fuochi l’emergenza si è trasformata in uno stato di fatto che ormai impressiona pochi. Il sistema degli sversamenti è rimasto quello di prima: la forestale ha censito 52 “buche” in cui sono stati interrati rifiuti tossici, in genere scarti di grandi industrie, ma nessuno tira fuori i soldi per bonificarle. Persino le poche aree ripulite rischiano di tornare come prima, se non vengono riconvertite e rimangono consegnate all’incuria.
Anche le piramidi di ecoballe della megadiscarica di Taverna del Re, avvolte nella plastica e accatastate una sull’altra tra il 2001 e il 2008 senza distinguere tra i rifiuti, sono ancora lì. Doveva essere un sito di stoccaggio provvisorio ed è diventata una città della monnezza imballata recintata con un muro alto tre metri e sorvegliata giorno e notte.
Ogni collina, in questa zona piatta come un tavolo da biliardo, nasconde qualche mistero
Una delibera quadro approvata dalla nuova giunta regionale guidata da Vincenzo De Luca prevede che sette milioni di ecoballe da una tonnellata ciascuna accatastate su quest’enorme spianata grande come 130 stadi di calcio siano aperte una per una, il materiale differenziabile venga recuperato e il resto sia depositato in cave abbandonate, impiegato nei cementifici o bruciato in inceneritori fuori regione.
Un’impresa titanica, se mai comincerà: gli ambientalisti locali hanno calcolato che, se pure si fosse deciso di bruciarle nel vicino inceneritore di Acerra, usando quest’ultimo al pieno delle sue capacità (1.267 tonnellate al giorno) si impiegherebbero 4.736 giorni, quasi tredici anni, a smaltire tutta la spazzatura accumulata a Taverna del Re. Figuriamoci a doverla spacchettare, selezionare e riciclare o tumulare.
Che fare, poi, delle 31mila tonnellate di fanghi tossici provenienti dall’Acna di Cengio, nel savonese? “Indagini giudiziarie hanno accertato che i rifiuti e il materiale provenienti dall’attività di bonifica del Sin (sito d’interesse nazionale) di Cengio sono stati interrati in un’area ricompresa nel territorio di Giugliano, già ampiamente e forse irrimediabilmente compromesso da un punto di vista ambientale”, ha messo nero su bianco la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie.
Ogni collina, in questa zona piatta come un tavolo da biliardo intorno al deposito di ecoballe di Giugliano, nasconde qualche mistero: qui secondo gli inquirenti sono state sepolte 807mila tonnellate di rifiuti industriali sospetti. A salirci sopra, si vedono spuntare dall’erba pezzi di pneumatici tritati e altri scarti. Dove la terra è scivolata via emerge quel che c’è sotto: un telo nero come quelli che ricoprono le ecoballe di Taverna del Re.
L’allarme dell’Istituto superiore di sanità
Alla metà di gennaio, un rapporto dell’Istituto superiore di sanità ha lanciato l’allarme: nei 55 comuni della Terra dei fuochi è stata rilevata “un’elevata mortalità per un insieme di patologie neoplastiche” e un’altrettanto “elevata prevalenza alla nascita di malformazioni congenite”. Le 194 pagine del dossier, denso di cifre e casistiche paese per paese, affermano una verità che è sulla bocca di tutti, ma che nessun governo ha finora certificato come tale: tra i diversi fattori che possono aver provocato queste malattie c’è “l’esposizione a emissioni o rilasci di siti di smaltimento incontrollato di rifiuti pericolosi o solidi urbani”.
I tumori più diffusi sono quelli a fegato, stomaco e polmoni, vale a dire legati a ciò che si mangia, si beve o si respira. Ma il dato più inquietante riguarda i bambini: è esploso il numero di ricoveri per cancro e leucemie nel primo anno di vita.
Tutti sanno che si tratta della terribile conseguenza di una devastazione del territorio cominciata negli anni novanta, quando la camorra locale faceva affari con lo smaltimento dei rifiuti industriali. Un sistema oliato che è andato avanti indisturbato fino a pochissimi anni fa.
“Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del casertano rischiano di morire tutti di cancro”, aveva profetizzato già nel 1997 il pentito dei Casalesi Carmine Schiavone davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti.
L’ex malavitoso oggi defunto, svelando i retroscena di trent’anni di sversamenti illeciti, aveva definito tutta la zona a sud di Latina fino al casertano e al napoletano come “la pattumiera d’Europa”. Già nel 2004 la prestigiosa rivista Lancet aveva definito l’area tra Acerra, Marigliano e Nola come “il triangolo della morte”, proprio in relazione alla crisi dei rifiuti.
Uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 2007 segnalava un “eccesso significativo” di mortalità per gli uomini del 19 per cento in provincia di Caserta e del 43 per cento nei comuni del napoletano, mentre per le donne era del 23 per cento nel casertano e del 47 per cento nel napoletano. Secondo il dottor Antonio Marfella, oncologo all’ospedale Pascale di Napoli, “negli ultimi vent’anni l’aspettativa di vita in Campania si è ridotta di due anni”, proprio a causa dell’inquinamento ambientale.
L’attivista si è ammalato
Gli esperti del ministero sollecitano al governo un piano di risanamento ambientale e “studi epidemiologici” sulla popolazione. È quello che sostiene pure Enzo Tosti, che qualche mese fa ha scoperto di essere malato pure lui. Da un controllo del sangue di routine è emerso un anomalo aumento dei leucociti. Ci ha pensato poi un ematologo, dopo ulteriori controlli, a diagnosticargli una leucemia linfatica.
Da buon entomologo di se stesso, in questo caso, l’ambientalista della Terra dei fuochi ha deciso di indagare più a fondo. Ha fatto delle analisi tossicologiche in un centro specializzato, a Oderzo in Veneto, scoprendo di avere nel sangue percentuali anomale del temibile Pcb, messo al bando in mezzo mondo e in Italia prodotto, fino al 1983, dalla Caffaro di Brescia. È la stessa sostanza che fu trovata nel sangue di Michele Liguori, il vigile urbano antiroghi di Acerra, morto nel 2014 ad appena 59 anni. Anche quest’ultimo, come Tosti, andava in giro per discariche, segnalava, denunciava e soprattutto respirava i veleni tossici. In un’intervista video alla Stampa pochi giorni prima di spegnersi, aveva affermato: “Non potevo far finta di non vedere”.
La maggiore emergenza ora riguarda proprio le risorse idriche
“L’ematologo mi ha detto che potrebbe essere stato il Pcb a provocare la leucemia, ma io non vivo vicino a un impianto chimico. Com’è stato possibile?”, si chiede Tosti. Dove sono state accertate contaminazioni da Pcb, come a Brescia appunto, si è appurato che questa sostanza finisce nel suolo e da lì nelle acque.
La maggiore emergenza ora riguarda proprio le risorse idriche. “A Giugliano molte falde superficiali sono compromesse, se non si interviene i veleni intaccheranno anche quelle più in profondità”, dice Tosti. Ai contadini della zona è vietato usare i pozzi, ma tutti sanno che ciò non accade.
A Brescia hanno fatto delle analisi epidemiologiche sulla popolazione che hanno dimostrato la correlazione tra i tumori e l’esposizione al Pcb, invece nella Terra dei fuochi è tutto fermo. Il problema è che le analisi tossicologiche individuali sono costose e solo lo stato sarebbe in grado di fare uno screening di massa.
È quello che chiede il battagliero comitato di mamme antiroghi che, come le madri argentine di Plaza de Mayo, non perdono occasione per sfilare mostrando le gigantografie dei loro piccoli scomparsi. Il dottor Marfella è riuscito a far analizzare alcuni cittadini: il picco più alto di Pcb e diossine fu trovato in un pastore poi morto, e analoghi livelli furono trovati nelle sue pecore (la storia è stata raccontata nel documentario Biutiful cauntri di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero).
Naturalmente, è molto difficile dimostrare la correlazione tra le malattie e le sostanze presenti nel sangue. Ma come si spiega la presenza del Pcb nell’organismo dei pochi che si sono fatti controllare? “Qui tanta gente ha veleni nel sangue e non lo sa”, conclude Tosti. “È giunta l’ora che tutti sappiano”.
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