“Caro viaggiatore, le persone che vedi qui sono in fuga da fame e da guerre. Noi, semplici cittadini, cerchiamo di accoglierli con rispetto e umanità. Della tua sosta a Como serba anche questo ricordo”, il volantino, in italiano e in inglese, con scritte bianche su sfondo azzurro accoglie il turista che arriva alla stazione di Como San Giovanni in un weekend di fine estate. Sulle colonne della piccola stazione ferroviaria nell’Italia settentrionale, i volontari hanno appeso una lettera indirizzata ai viaggiatori per spiegare cosa sta succedendo in questo luogo di passaggio, diventato un rifugio per centinaia di persone, respinte dalla Svizzera in Italia al valico di Chiasso dall’inizio dell’estate.

Coperte di lana e sacchi a pelo sono ammucchiati sulla banchina del primo binario della stazione e una decina di ragazzi eritrei, etiopi e sudanesi è steso per terra: sono avvolti fino alla testa da lenzuola colorate. Provano a dormire malgrado lo sferragliare dei treni.

Mohammed è seduto per terra con il cellulare in mano, ascolta musica per ammazzare il tempo. È etiope di etnia oromo. È arrivato in Italia qualche settimana fa da Bale Robe, nel centro dell’Etiopia. Dice di avere 18 anni, ma a vederlo sembra più giovane. Ha attraversato il Mediterraneo per scappare dalle persecuzioni contro gli oromo nel suo paese, e ora sta seduto per terra su una coperta di lana ad ascoltare musica. “Conosci la musica oromo?”, mi chiede. Lo guardo divertita, allora mi passa le cuffie e me la fa ascoltare.

Una frontiera invalicabile

Mohammed ha provato ad attraversare la frontiera con la Svizzera sei volte nelle scorse settimane e sei volte è stato respinto. Nel mese di luglio e di agosto la frontiera tra Italia e Svizzera sembra essere diventata invalicabile. È stanco Mohammed, il suo programma è quello di riposarsi per qualche giorno alla stazione per poi riprovare a superare il confine.

“Voglio andare in Germania, ho la mia famiglia lì e nel mio paese gli oromo rischiano di essere uccisi o di finire in prigione”, dice. Davanti alla stazione ci sono altri ragazzi stesi per terra sulla scalinata: Badu, Hosman e Medan. Sono tutti eritrei. Giocano, si lanciano un coniglio gigante di peluche che qualcuno gli ha regalato, ascoltano musica anche loro, anche loro dicono di aver provato sei volte a prendere il treno per Chiasso e di essere stati respinti. Tutti raccontano più o meno la stessa storia.

Ci siamo dovuti spogliare completamente davanti agli altri

Le guardie di frontiera svizzere sono salite sul treno pochi metri dopo il confine, e hanno chiesto i documenti a tutti i neri, presumendo che fossero irregolari. Chi non aveva il passaporto è stato fatto scendere dal treno. I ragazzi raccontano di essere stati portati in un bunker sotterraneo per essere perquisiti e interrogati, gli è stato ordinato di denudarsi.

“Ci siamo dovuti spogliare completamente davanti agli altri, anche le parti intime abbiamo dovuto scoprire”, racconta Hosman e non nasconde la rabbia per questa richiesta, che molti di loro considerano un vero e proprio abuso sessuale. Sono stati interrogati senza un interprete, senza un avvocato.

Hanno manifestato la volontà di chiedere asilo, ma le loro richieste non sono state prese in considerazione; sono stati caricati su dei pullman e sono stati riconsegnati alle autorità italiane qualche metro più in là, oltre la frontiera. Per alcuni questo processo è durato ore, per altri qualche giorno.

La tendopoli davanti alla stazione di Como San Giovanni, il 31 agosto 2016. (Simona Pampallona per Internazionale)

L’ultima volta che hanno provato ad attraversare il valico, Hosman e i suoi amici sono stati messi su un pullman da Chiasso e sono stati trasportati fino all’hotspot di Taranto, in Puglia. Più di mille chilometri più a sud. Ma dopo qualche giorno sono scappati di nuovo per tornare a Como: dove aspettano di capire quando potranno ritentare l’impresa. Alcuni ragazzi giorni fa ce l’hanno fatta. E questa ora è la speranza e il tormento di molti di loro: essere tra i pochi fortunati che riescono a passare.

Secondo i dati forniti dal corpo delle guardie di confine della Confederazione elvetica, elaborati dall’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi), nell’aprile del 2016 sono entrati in Svizzera 826 migranti irregolari e di questi sono stati respinti in Italia il 7 per cento, in base a un accordo bilaterale tra Berna e Roma del 1998. Tuttavia solo quattro mesi dopo, nell’agosto del 2016, i respingimenti sono diventati il 7o per cento.

A luglio i migranti hanno provato ad attraversare il confine italosvizzero 4.834 volte e 3.406 volte sono stati respinti in Italia, con una procedura che secondo l’Asgi e Amnesty international viola una ventina di norme nazionali ed europee tra cui il regolamento Dublino, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il trattato di Schengen a cui la Svizzera aderisce anche se non fa parte dell’Unione europea. In totale tra luglio e agosto, le autorità svizzere hanno fatto quasi settemila riammissioni in Italia di cittadini stranieri, delle quali almeno seicento hanno riguardato minori stranieri non accompagnati.

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“Ogni giorno dieci o 15 persone provano ad andare a piedi attraverso i monti, per cinque ore o più, camminano attraverso vecchi sentieri”, racconta Sabil, un giovane sudanese che parla un inglese fluente e sta a Como da sette settimane. Ma non c’è modo di passare inosservati, Berna ha schierato anche dei droni che pattugliano i boschi della Spina verde per monitorare l’eventuale ingresso illegale di migranti nel paese. “Tutti vengono arrestati e portati indietro continua Sabil, anche i minori, le donne incinte e i malati. E il rischio a questo punto è di essere deportati”, dice.

Sabil era un attivista per i diritti umani nel suo paese, nel 2011 ha creduto in un movimento di democratizzazione e di rinnovamento del Sudan legato alle primavere che hanno scosso molti paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. Ma le sue speranze sono state tradite ed è dovuto scappare per mettere in salvo la pelle.

“Da Taranto la scorsa settimana un gruppo di 48 sudanesi è stato espulso dall’Italia e deportato in massa in Sudan grazie a degli accordi di cooperazione che l’Italia ha siglato con Karthoum”, racconta Sabil. “L’Italia ha fatto un patto con il demonio”, dice con fermezza, riferendosi al presidente sudanese Omar al Bashir, che governa il paese dal 1989 e che è accusato dalla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia di crimini di guerra e genocidio.

Un minore straniero nel cortile della mensa della Caritas a Como, il 31 agosto 2016. (Simona Pampallona per Internazionale)

Contro Al Bashir pende un mandato di arresto internazionale, ma questo non ha impedito ai governi europei, tra cui quello italiano, di concludere accordi con quello sudanese sull’immigrazione, come previsto dal processo di Karthoum e dal cosiddetto migration compact. “L’Italia sta dando soldi a un dittatore, a un uomo che è responsabile della morte di centinaia di migliaia di persone. L’Italia gli sta dando soldi per fermare i migranti, ma questi soldi non faranno altro che produrre altri migranti, altre persone costrette a scappare da un regime sanguinario”, conclude Sabil. Gli chiedo perché non vuoi chiedere asilo in Italia. E lui risponde con grande semplicità: “Parlo inglese e francese, perché dovrei rimanere in Italia?”.

Mentre Sabil definisce con lucidità le condizioni di vita del suo popolo e l’insensatezza degli accordi dei paesi europei con dittature come quella eritrea e sudanese, penso a una frase dell’ex sindaco di Rosarno Giuseppe Lavorato citata in un libro di Antonello Mangano Gli africani salveranno Rosarno:

La storia ci insegna che molti capi di stato africani sono stati emigranti, così come il nostro Sandro Pertini che ha fatto il manovale in Francia. Forse qui a Rosarno e negli altri paesi dell’immigrazione c’è qualche giovane che un giorno diventerà presidente della repubblica nel suo paese.

Una gara di solidarietà

Fa un caldo appiccicoso a Como, gruppi di turisti giapponesi e americani scendono dal treno appena arrivato da Milano e trovano ad accoglierli i monti grigi, punteggiati di ville liberty, che incorniciano il panorama dal piazzale della stazione. In un angolo un’ambulanza della Croce rossa fornisce assistenza medica a un gruppo di migranti. In un altro punto della stazione i volontari distribuiscono la colazione.

I ragazzi appena svegli fanno la fila dietro a un tavolo e ricevono pane con la nutella, caffè, tè. “Gestivamo da tempo un servizio di distribuzione dei pasti per i senza fissa dimora alla stazione”, spiega Laura, una delle volontarie.

“Ed è così che ci siamo accorti all’inizio di giugno che la Svizzera aveva chiuso la frontiera a singhiozzo: ogni mattina abbiamo cominciato a trovare questi ragazzi che avevano passato la notte in stazione perché erano stati respinti. A luglio la situazione è peggiorata, centinaia di migranti venivano a dormire in stazione”, racconta. Al momento sono circa trecento, ma oscillano molto nel corso della settimana e si arriva a picchi di seicento persone. “La sera alla mensa della Caritas vengono distribuiti cinquecento pasti”.

La mensa della Caritas a Como, il 31 agosto 2016. (Simona Pampallona per Internazionale)

I volontari nel frattempo si sono organizzati e hanno messo in piedi un Tavolo, coordinato dal comune, che riunisce decine di associazioni locali e che si occupa di distribuire i pasti e i vestiti. “Da pochi giorni abbiamo cominciato a fornire anche un po’ di assistenza legale”, aggiunge Laura.

I minori stranieri non accompagnati sono stati portati nella parrocchia di Rebbio, nella periferia di Como, dove don Giusto Della Valle li assiste, aiutato da una vasta comunità di volontari. “Il problema è che questi ragazzi non vogliono restare in Italia, vogliono raggiungere le loro famiglie, andare in altri paesi”, spiega don Giusto. Dal 14 luglio al 23 agosto, sono stati affidati alla Caritas e collocati nella struttura presso la parrocchia di Rebbio 454 minori stranieri non accompagnati riammessi in Italia dalla Svizzera, alcuni minori sono stati riammessi più di una volta in alcuni casi addirittura sei volte.

La grande emergenza è la mancanza di informazioni

Come a Calais, a Idomeni e in tutti i campi informali che sono nati in Europa in seguito alla chiusura delle frontiere, la grande emergenza è la mancanza di informazioni e di assistenza legale per i migranti, che spesso non hanno idea dei loro diritti e del contesto legale e amministrativo in cui si muovono.

Nella piccola tendopoli, spuntata nel giardino davanti alla stazione San Giovanni, gli attivisti No borders hanno aperto un infopoint, una tenda tra le tende, in cui cercano di dare informazioni in tutte le lingue ai profughi e ai richiedenti asilo: “Facciamo lezioni di lingua inglese, gli spieghiamo come funziona la normativa italiana ed europea, e cerchiamo di dargli qualche nozione di geografia; cerchiamo in questo modo di aiutarli a capire qual è il contesto in cui si muovono e quali sono i loro diritti”, osserva Teresa, una delle attiviste, mentre un gruppo di ragazzi del Gambia gioca a palla nello spiazzo davanti alla tenda canadese su cui è appeso uno striscione colorato che dice “Open the border”.

Una partita di calcio tra gli attivisti No borders e i migranti alla tendopoli davanti alla stazione di Como, il 31 agosto 2016. (Simona Pampallona per Internazionale)

Nelle ultime tre settimane i No borders hanno deciso di istituire delle assemblee quotidiane cui partecipano migranti, attivisti e volontari. “Le assemblee si svolgono ogni giorno alle 21 e sono tradotte in sei lingue diverse, durano parecchio, ma il risultato è che le decisioni sono prese insieme. Non ci sono loro e noi, ma siamo tutti noi. Le diverse comunità di migranti hanno eletto un rappresentante e in questo modo è stata scritta una lettera alle autorità e ai cittadini di Como, per chiedere la riapertura della frontiera con la Svizzera”, spiega Teresa.

Il prefetto di Como Bruno Corda, il 17 agosto, ha annunciato che a partire dall’inizio di settembre i migranti saranno spostati in un campo container con 400 posti per risolvere la situazione umanitaria alla stazione, ma alcuni attivisti temono che non gli sarà permesso accedere al campo profughi. L’assemblea dei migranti e degli attivisti ha scritto nella lettera alla città:

Chiediamo il rispetto delle leggi che riconoscono il nostro diritto di movimento, che sono in questo momento violate dalla Svizzera. Chiediamo nuove leggi che possano fornire una soluzione per ciascuno di noi, o un provvedimento straordinario che possa permetterci di muoverci. Se questo al momento non è possibile, chiediamo almeno che la sua voce possa unirsi alla nostra, per fare pressione sulle autorità svizzere e europee, provando a sbloccare questa insostenibile situazione che sta rovinando le nostre vite e ci sta rendendo un fastidio per gli abitanti della città.

Una strada legale

Lisa Bosia Mirra è una parlamentare svizzera e insieme ai volontari dell’associazione Firdaus, di cui è presidente, è arrivata a Como dal Canton Ticino verso la metà di luglio per capire cosa stava succedendo al confine. “La polizia svizzera dice che sta applicando i regolamenti come al solito, ma a noi risulta che i migranti che fanno richiesta d’asilo, e tra loro anche molti minori, siano comunque respinti”, afferma la parlamentare, che spiega l’irregolarità dei respingimenti collettivi, in particolare nel caso dei minori.

Secondo Bosia Mirra, sta emergendo una grossa contraddizione nelle politiche europee dell’immigrazione: i migranti non chiedono di accedere al sistema di ricollocamento per quote all’interno dell’Unione europea (relocation), perché sanno che i tempi di attesa sono molto lunghi e i ricollocamenti stentano a funzionare.

La parlamentare svizzera ha cominciato a raccogliere le richieste di ricongiungimento

Per questo, secondo Bosia Mirra, i migranti si sottraggono ai centri di accoglienza istituzionali e cercano di raggiungere con i propri mezzi i paesi dove si trovano i familiari o dove pensano di avere più possibilità di inserimento lavorativo. Ma una volta arrivati a destinazione sono rimandati indietro nel paese d’ingresso dell’Unione europea, come previsto dal regolamento di Dublino. “Queste persone non ricevono nessuna informazione sulle procedure da attivare per chiedere il ricongiungimento familiare”, spiega la presidente dell’associazione Firdaus.

Per questo insieme ad altri collaboratori e volontari svizzeri e italiani come Luciana Carnevale, la parlamentare svizzera ha cominciato ad aiutare i ragazzi bloccati alla stazione di Como ad accedere alla procedura di ricongiungimento familiare.

I pullman con a bordo i migranti diretti a Taranto, al valico di Chiasso, il 31 agosto 2016.
(Simona Pampallona per Internazionale)

“Parlando con i migranti ci siamo resi conto che molti di loro dicevano di avere parenti molto stretti in Svizzera e anche per questo ci è sembrato strano che alla frontiera non avessero fatto richiesta d’asilo”, spiega e racconta di aver seguito una trentina di casi di questo tipo, tra i quali quello di 16 minori. Il suo cellulare è pieno di immagini di matrimoni e di foto di padri che hanno riabbracciato mogli e figli: “Gli abbiamo spiegato che i loro parenti avrebbero dovuto fare richiesta per il ricongiungimento e così in poco tempo tempo siamo riusciti a trovare un canale legale per aiutare i migranti a riavvicinarsi alle loro famiglie”.

Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty international, conferma che storie simili sono frequenti: “Profughi e migranti che hanno dei familiari in un altro paese europeo si sottraggono al sistema di accoglienza istituzionale e cercano di raggiungere autonomamente le loro famiglie. Queste persone, a Como come a Ventimiglia, restano bloccate nelle frontiere interne dell’Europa e le autorità si rimbalzano la responsabilità sulla loro situazione e sul loro futuro”.

Tra tutti i casi Lisa Bosia e Matteo de Bellis ricordano la storia di Robiel (nome di fantasia) incontrato alla stazione di Como San Giovanni qualche settimana fa. “Robiel è un ragazzo eritreo di trent’anni. La moglie e la figlia di un anno e due mesi erano arrivate un anno fa in Svizzera, dove hanno presentato la domanda di protezione internazionale e sono in attesa di risposta”. Robiel e sua moglie si erano dovuti separare in Libia, durante il viaggio, perché non avevano abbastanza soldi per la traversata, così la moglie e la bambina erano partite prima.

L’ultima frontiera è lì, a nove chilometri dalla stazione di Como

Robiel è stato respinto per due volte alla frontiera di Chiasso, benché al secondo tentativo abbia presentato una dichiarazione di richiesta di protezione internazionale e la copia dei documenti della moglie. Solo al terzo tentativo Robiel è stato ammesso alla procedura di asilo in Svizzera. “Mi ha appena mandato la foto della sua famiglia che ha potuto finalmente riabbracciare”, afferma Lisa Bosia Mirra e di casi come questi ce ne sono stati diversi.

Mentre attraversa la tendopoli di Como, Lisa Bosia Mirra viene fermata dalle persone che gli chiedono aiuto, c’è una donna eritrea che ha il marito in Svizzera, un uomo che ha un fratello. “Gli spiego la procedura, gli spiego che se non la seguono rischiano di essere portati di nuovo nell’hotspot di Taranto. Loro fanno cenno di aver capito, ma poi mi dicono che riproveranno comunque a varcare il confine”.

L’ultima frontiera è lì, a nove chilometri dalla stazione di Como, venti minuti in auto, qualche ora di cammino sulle montagne. Stasera Badu, Hosman e Medan ci riproveranno, hanno paura di essere fermati un’altra volta, ma per ora non pensano di avere alternative.

Dove dovremmo andare dopo l’ultima frontiera
Dove volano gli uccelli dopo l’ultimo cielo
Dove dormono le piante dopo l’ultimo respiro
(Mahmoud Darwish, La terra si sta richiudendo su di noi)

Nota. La parlamentare svizzera Lisa Bosia Mirra, intervistata in questo articolo, è stata fermata dalla polizia svizzera a San Pietro di Stabio, il 1 settembre, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il giudice deve convalidare l’arresto. In Svizzera l’articolo 116 della Legge sugli stranieri prevede che sia punito con una pena detentiva fino a un anno o con una pena pecuniaria chiunque facilita o aiuta a preparare l’entrata, la partenza o il soggiorno illegali di uno straniero.

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