Freddo, le dita dei piedi che bruciano per il freddo. Mussie saltella per scaldarsi le estremità congelate. Ha 15 anni, è eritreo e viaggia da solo. È arrivato a Roma da qualche giorno con il treno da Vibo Valentia, in Calabria, dove è sbarcato dopo essere stato soccorso al largo della Libia. La sera in cui è arrivato alla stazione Tiburtina, a Roma, non sapeva dove andare, si è guardato intorno, ma non c’era nessun habeshia, nessun passante di origine eritrea o etiope, a cui chiedere informazioni nella sua lingua, il tigrino.
“Faceva freddo e non sapevo dove andare”, racconta. “Allora mi sono messo a girare intorno alla stazione per scaldarmi, ho camminato di più quella sera che in tutto il viaggio dall’Eritrea”, scherza. Grazie a un ragazzo di origine africana incontrato qualche ora dopo il suo arrivo a Roma, Mussie ha scoperto che dietro la stazione un gruppo di volontari e associazioni distribuisce pasti caldi e assistenza ai migranti in transito. “Ero così stanco per aver passato la notte in bianco e al freddo che non sono riuscito nemmeno a mangiare quello che mi davano i volontari”, ricorda Mussie, mentre saltella nella sua enorme giacca a vento blu, gli occhi che spuntano sotto un cappello di lana bianco con i paraorecchi calato fin sulle sopracciglia.
Alle sei del pomeriggio in un giorno di metà gennaio è già buio e le temperature sono vicine allo zero a piazzale Spadolini, sul retro della stazione Tiburtina. Alcuni ragazzi di origine eritrea si sono costruiti dei ripari dietro un muro e sono seduti sul marciapiede, sotto una montagna di coperte. I lampioni rilasciano una luce arancione, fioca, che si riflette nell’aria densa di umidità. Una quarantina di migranti si è radunata sul piazzale per mangiare.
Stasera ci sono riso e pollo al curry e molti dolci fatti in casa: crostate, ciambelloni , torte al cioccolato. Tutto cucinato dai volontari della Baobab experience, che hanno montato una mensa su un paio di panchine. Poco più in là si è fermato il camper di Medici per i diritti umani (Medu) e alcuni ragazzi si sono messi in fila per farsi visitare. I rumori della città si sentono all’orizzonte, in lontananza.
Un rifugio per la notte
Mussie sembra meno spaesato stasera. Dopo aver mangiato si ripara nella stazione Tiburtina, che con le sue forme arrotondate e avveniristiche pare una navicella spaziale atterrata sulla piazza, dove migranti e volontari si muovono come ombre lontane dal caos della città. Mussie cerca di scaldarsi un po’, in attesa di andare nel centro A28 per i minori vicino a piazza Fiume, a poche fermate di autobus.
Ventiquattro posti letto, un grande appartamento seminterrato con delle camerate e i letti a castello, bagni e docce per i ragazzi in transito, e una cucina con dei tavoli spaziosi dove mangiare e rifocillarsi un po’. “Al momento questo centro è l’unico posto dove possono essere ospitati i transitanti a Roma; solo i minori, perché la città non sta affrontando la questione da un punto di vista politico”, spiega Giovanni Visone, portavoce di Intersos, l’organizzazione che gestisce il centro.
“Da circa due anni abbiamo questa situazione assurda di tende che si spostano da un piazzale all’altro della città e un sistema di accoglienza che si regge sulle spalle dei volontari e delle associazioni”, continua Visone. “Avere questa situazione in pieno inverno significa creare tutte le premesse per provocare un’emergenza d’estate. Ma questa non è un’emergenza, è un fenomeno strutturale, legato al peso dei regolamenti europei sui sistemi nazionali. Queste persone sono vittime della burocrazia”.
Visone spiega che le associazioni umanitarie e i volontari stanno riempiendo un vuoto nel sistema di accoglienza. “Abbiamo ripetutamente chiesto alle istituzioni di affrontare queste situazioni in maniera strutturale, ma finora purtroppo non siamo stati ascoltati”, spiega Visone.
Senza vie legali
Mussie stasera dormirà al caldo. Nella piazza ha incontrato Luca e Sammy, due operatori dell’unità mobile di Intersos, che gli hanno indicato dove passare la notte. “Veniamo alla stazione Tiburtina da novembre con un furgone e un generatore elettrico, forniamo elettricità ai ragazzi in modo che possano ricaricare i cellulari e connettersi a internet”, spiega Luca. “Per loro la comunicazione con le famiglie e con gli amici è fondamentale, ma senza wifi e senza elettricità sarebbe impossibile”.
“Frequentiamo tutti i posti in cui questi ragazzi s’incontrano”, continua. “Si tratta di luoghi di aggregazione informale come lo stabile occupato di piazza Indipendenza e il Salam palace. Cerchiamo di capire chi sono e di cosa hanno bisogno, poi li indirizziamo verso il centro notturno per toglierli dalla strada. Incontriamo una media di otto, dieci ragazzi non accompagnati al giorno. Dal 2011 al centro A28 ne sono transitati quattromila”, spiega Sammy, un ragazzo italiano di origine eritrea che lavora come mediatore. Nel 2016 il numero dei ragazzi ha raggiunto la cifra record di 900, confermano gli operatori.
Le storie sono sempre più complicate. “Abbiamo molti ragazzi eritrei che si sottraggono al servizio militare obbligatorio nel loro paese, ma negli ultimi tempi vediamo molti ragazzi dalla Guinea, dal Gambia, dall’Etiopia. Ragazzi che hanno tra i 14 e i 17 anni”, raccontano gli operatori.
“Il 99 per cento di loro viene identificato subito dopo lo sbarco”, spiega Sammy. “Ma la maggior parte di loro non vuole rimanere in Italia, vuole raggiungere parenti e amici in un altro paese europeo”. Tuttavia non esistono vie legali per farlo, ci sarebbe il ricongiungimento familiare previsto dal Regolamento di Dublino, ma è una procedura molto lunga e complicata e spesso i ragazzi non hanno la pazienza di aspettare. Inoltre molti hanno l’esigenza di ripagare il debito che hanno contratto per il viaggio, quindi vogliono poter cominciare a lavorare il prima possibile. E il canale del ricollocamento in altri paesi europei in base a un sistema di quote per i minorenni non è stato attivato. “Ci troviamo di fronte a situazioni paradossali”, continua Luca. “Questi ragazzi, dopo un viaggio così lungo e pieno di pericoli, non vogliono fermarsi in Italia anche se attraversare le frontiere interne dell’Europa è sempre più difficile”, spiega.
“Incontriamo ragazzi minorenni che hanno in mano decreti di espulsione anche se non potrebbero essere espulsi in quanto minorenni. Ricordo un ragazzo arrivato dall’hotspot di Pozzallo con un decreto di espulsione in mano, anche se la data di nascita scritta sui documenti dagli stessi poliziotti indicava che era minorenne. Sono situazioni terribili che danno un sacco di grattacapi al nostro team legale”, spiega Sammy. “Altri due ragazzi a Crotone sono stati considerati maggiorenni dalla questura solo in base alla valutazione sommaria dei poliziotti, senza che fossero disposte tutte le verifiche necessarie per determinare l’età”, aggiunge Sammy.
Secondo l’ong Save the children, i minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia nel 2016 sono stati il doppio rispetto all’anno precedente: 25.800. Molti avevano meno di dieci anni.
Nel 2016 il gruppo più numeroso di minori è stato quello degli eritrei (3.832), seguito dai somali (1.584), dagli etiopi (401), dai siriani (220) e dai palestinesi (110). Salvo pochissime eccezioni, questi ragazzi sono fortemente determinati a raggiungere il più in fretta possibile altri paesi europei dove vivono familiari e amici. Per farlo si affidano a trafficanti che li aiutano ad attraversare le frontiere con espedienti sempre più pericolosi. “‘Come faccio a uscire da questo limbo?’. È questa la domanda che i ragazzi di passaggio a Roma ci rivolgono più spesso”, conclude Sammy.
Una legge per i minori
Piazza Fiume, con i suoi bei palazzi ottocenteschi sembra deserta. Alle nove e mezza di lunedì sera anche la Rinascente è chiusa, spente le vetrine luccicanti allestite per i saldi. Giuseppe arriva con la sua auto davanti al centro A28 e scarica pacchi di cose da mangiare, i ragazzi non sono ancora arrivati, ma tra poco il centro si animerà. Di giorno Giuseppe lavora nelle scuole come educatore per i ragazzi autistici, ma due notti a settimana viene nel centro per transitanti di piazza Fiume.
“Quando sono qui mi piace cucinare con i ragazzi, è un modo per entrare in confidenza e per farli parlare della loro situazione, davanti a un piatto di pasta è tutto più semplice”, racconta, mentre mi spiega come funziona il centro insieme a Emanwele, un mediatore culturale di origine eritrea.
“Quando arrivano li registriamo, poi gli diamo dei vestiti puliti, in modo che possano farsi la doccia e cambiarsi”, spiega Emanwele. “I ragazzi arrivano qui grazie al passaparola, e a volte prima di arrivare hanno dormito alcuni giorni per strada”. Mentre ci mostra la struttura, qualcuno suona il campanello. Due ragazzi del Gambia e uno della Guinea scendono le scale: “Ciao, siamo venuti a dormire”. Non è la prima notte che vengono qui, c’erano anche ieri sera. Parlano un po’ di italiano, imparato in Sicilia, nei centri, appena arrivati.
“Dicono di essere minorenni. Hanno dei documenti che lo attestano, ma per le autorità italiane non sono validi, e a causa della loro corporatura la questura li ha dichiarati maggiorenni. Per qualche giorno li stiamo ospitando da noi, intanto che gli avvocati li aiutano a farsi mandare delle integrazioni ai documenti dal Gambia, poi dovranno trovare un’altra sistemazione per la notte”, dice Emanwele.
“L’accertamento dell’età del minore è una delle questioni più delicate e più dibattute”, spiega Valentina Murino, esperta di protezione dei minori nell’unità migrazione di Intersos. “In Italia si usa ancora l’accertamento attraverso la misurazione del polso o la radiografia mano-polso. È un metodo arretrato, medievale. È noto che questa tecnica è insufficiente e sono necessarie valutazioni del livello di maturità psicosociale, cognitiva o comportamentale attraverso dei colloqui multidisciplinari”, afferma Murino.
La ricercatrice spiega che la legge Zampa (proposta C.1658) sulla protezione dei minori non accompagnati contiene, tra le altre cose, misure che stabiliscono dei protocolli comuni in Italia su questa materia per evitare esami invasivi e inefficaci. La legge è stata approvata nell’ottobre del 2016 dalla camera dei deputati in prima lettura, a tre anni dalla presentazione della proposta, ma ora è ferma in senato.
“Speriamo che la legge sia rapidamente approvata dal senato, perché recepisce tutte le indicazioni degli addetti ai lavori per la protezione di queste persone vulnerabili”, spiega Murino.
“I 24 posti del centro in alcuni periodi dell’anno non ci bastano, fino a prima di Natale abbiamo avuto dei picchi di 40 minori a notte, abbiamo dovuto usare i materassi gonfiabili per ospitare tutti”, racconta Murino. “Per questo stiamo aprendo un centro più grande a Torre Spaccata, in cui potremo ospitare anche i ragazzi che hanno appena compiuto 18 anni. Anche loro sono molto vulnerabili perché dal giorno successivo al compimento della maggiore età non hanno più diritto alla protezione e all’accoglienza, nonostante siano inseriti in progetti virtuosi di formazione e integrazione. È come se tutto il percorso che hanno fatto fosse in questo modo vanificato”.
Abel e gli altri
“A tavola”, urla Giuseppe dalla cucina e i ragazzi si raccolgono intorno al tavolo un po’ alla volta. Si siedono e mangiano un piatto di pasta al sugo in silenzio. Stasera sono undici. È arrivato anche Mussie con un amico. Scherzano tra loro finché Emanwele non gli chiede di raccontare la storia del treno. Rafael voleva andare a Milano, per poi provare ad attraversare la frontiera, è salito su un treno alla stazione Tiburtina, ma poco dopo è stato fermato da un controllore, che gli ha intimato di scendere a Firenze.
“Ho fatto finta di scendere e mi sono nascosto nel bagno. Ma quando il treno è partito qualcuno ha cominciato a bussare con forza alla porta. Io ho aperto e ho trovato un altro ragazzo eritreo che cercava di non farsi vedere dal controllore”, scoppia a ridere Rafael. Ha sedici anni ma con i suoi ricci arruffati e la sua corporatura esile ne dimostra molti di meno.
“Il controllore ci ha visti tutti e due e ci ha fatto scendere, così ci siamo ritrovati in una città che non conoscevamo e abbiamo deciso di tornare a Roma. Abbiamo preso il primo treno che ci portava indietro come in un gioco dell’oca. Ma il treno si è fermato a Termini e a me non sembrava nemmeno di stare a Roma, ho dovuto chiedere aiuto per tornare alla stazione Tiburtina, da dove ero partito”, racconta. I ragazzi che hanno finito di mangiare in fretta si alzano e tornano nelle camerate. Rimangono a parlare con noi solo i due ragazzi eritrei.
Mentre comincia a rassettare la cucina, Giuseppe spiega che gli operatori non rimangono mai in contatto con i ragazzi: “Sono gli altri ospiti del centro ad aggiornarci sul loro viaggio. Noi non possiamo e non vogliamo interferire con il progetto migratorio dei ragazzi”. Ricorda la tragica storia di Abel Temesgen, un ragazzo eritreo di 17 anni, che per lungo tempo è venuto a dormire nel centro A28. Abel aveva diritto al ricongiungimento familiare con suo fratello che vive in Germania, ma si è rimesso in viaggio da solo verso Bolzano, dove è morto nel novembre del 2016, mentre provava a salire su un treno merci diretto al Brennero. “Siamo sempre molto in pensiero per loro, ma non abbiamo molti strumenti per tutelarli, a parte dargli un pasto caldo e un letto dove dormire”, dice Emanwele.
Rafael è partito dall’Eritrea qualche mese fa, senza dirlo a sua madre, per paura che le sue lacrime gli avrebbero fatto cambiare idea. Vuole raggiungere suo fratello che ha già ottenuto lo status di rifugiato in Svizzera. Per ora sa che deve andare a Milano e da lì cercherà un modo di raggiungere la Svizzera. “C’è un modo di chiedere la relocation?”, chiede. “No, non c’è”, risponde Emanwele. “Questa parola, relocation, li ha mandati in confusione, chiedono di accedere alla relocation, ma la relocation per i minori non è mai partita”. Emanwele ci pensa, poi con fare protettivo suggerisce al ragazzo di provare la strada del ricongiungimento familiare. “I nostri legali ti possono aiutare”, dice. Ma Rafael è già con la testa sul treno: “Domani ci riprovo, prendo il treno, non ho paura di dormire per strada, dopo la Libia non ho più paura di niente”.
I nomi dei minorenni sono di fantasia per tutelarne l’identità.
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