25 novembre 2020 13:36

“C’è la fuga, il rischio della propria vita e di quella di tuo figlio. Ma prima c’è il non capire, il dirsi: ‘Ma no, non lo farà mai. L’ho fatto arrabbiare io’. Ci sono le volontarie dei centri antiviolenza e c’è il terrore di andare da loro, che lui possa scoprire e infuriarsi. C’è il comando dei carabinieri, poi il pronto soccorso, e la vergogna di dover dire: ‘È stato mio marito’. Ci sono gli occhi che ti guardano con tenerezza o con distacco. E tu senti di essere totalmente sola”, ci racconta in una lettera Maddalena (nome di fantasia per proteggerne l’identità). È una delle donne (più di un centinaio) che durante il primo confinamento causato dall’epidemia di coronavirus a marzo si è rivolta al centro antiviolenza di Cosenza per chiedere aiuto.

Durante il primo lockdown e subito dopo la fine del confinamento, le chiamate ai centri antiviolenza italiani sono aumentate del 73 per cento, secondo l’Istat. Nelle prime settimane di restrizioni tutte le strutture hanno registrato una repentina diminuzione delle richieste di aiuto, poi nelle settimane successive la tendenza si è invertita. “Presumiamo che le donne maltrattate abbiano prima provato a sopportare in nome della situazione di emergenza, ma quando hanno capito che l’isolamento si sarebbe protratto a lungo hanno cominciato a cercare delle vie di uscita”, spiega Claudia Gravina, operatrice antiviolenza nel centro Roberta Lanzino di Cosenza, il primo in Calabria e uno dei primi in Italia, attivo dal 1986.

Il 25 novembre tutti fanno dichiarazioni di condanna, ma poi nel resto dell’anno i centri antiviolenza sono dimenticati

“Nel primo lockdown non riuscivamo a collocare in nessuna struttura le donne che ci chiedevano aiuto. Siamo state molto in difficoltà, perché le case rifugio non accettavano nuovi ingressi per paura del virus e perché c’erano restrizioni agli spostamenti”, continua Gravina. Le donne maltrattate inoltre avevano difficoltà a contattare i centri, perché erano costrette alla convivenza forzata con il maltrattante. “Avevano difficoltà a chiamarci, lo facevano di nascosto quando andavano a buttare la spazzatura, oppure dal balcone. Ci sono arrivate telefonate nel cuore della notte, però abbiamo fatto fatica a trovare delle strutture che le potessero accogliere. Nella nostra provincia c’è solo una casa rifugio”, spiega l’operatrice.

Maddalena, mesi dopo la sua fuga, prova a raccontare la sua presa di coscienza: “C’è tua madre al telefono a centinaia di chilometri che ti urla di scappare via, che lui ti avrebbe ammazzato. C’è la consapevolezza che ti viene tutta in una notte, quando ti rinchiudi in casa a chiave, con il tuo cane incollato a te e un coltello sotto il cuscino. C’è il mio dolore davanti al volto terrorizzato del mio bambino che mi chiede: ‘Perché papi fa così?’ e vuole proteggere la sua mamma e non mangia più. E poi le denunce, le ore in questura”.

Nella sua lettera la donna parla della vergogna che ha provato spesso durante il percorso che ha dovuto affrontare per allontanarsi da suo marito, ma anche della forza che ha riconosciuto man mano che si allontanava da un destino che sembrava obbligato: “La vergogna, quella si affaccia ancora ogni tanto, ma tu la ributti giù perché è più forte la dignità da sopravvissuta. Ci sono le paure di tuo figlio, i tribunali, le assistenti sociali contro di me, che dicono che io mi sono inventata tutto. C’è il lasciare fare, in modo che tutte le istituzioni coinvolte passino ai raggi x la tua vita, con domande sul vostro matrimonio, sul tuo dolore, sulla tua vita da quando sei nata a oggi. Poi c’è forse l’aspetto migliore. Il coraggio di accettare un aiuto da parte della psicologa, di cui ti fidi, che senti che ti condurrà fuori da quel tunnel buio”.

Il centro antiviolenza per donne e bambini del comune di Roma a Torrespaccata, 3 agosto 2016. (Alessandro Serranò, Agf)

Per Gravina, tuttavia, il 25 novembre (giornata nazionale contro la violenza sulle donne) è diventato un po’ come l’8 marzo, “tutti fanno dichiarazioni di condanna e si impegnano pubblicamente”, ma poi nel resto dell’anno i centri antiviolenza sono dimenticati, invece di essere considerati strutture fondamentali per la prevenzione e il contrasto alla violenza: “Durante la crisi sanitaria abbiamo avuto spese straordinarie, ma gli aiuti ce li hanno dati i privati e la rete Dire, non sono venuti dalle istituzioni. Avevamo bisogno di comprare mascherine, gel, termoscanner e dispositivi di protezione”. Gravina racconta che da qualche anno il centro beneficia dei fondi regionali, che sono annuali, ma che impiegano sempre più di un anno per essere erogati.

La denuncia viene anche del rapporto di Action Aid Tra retorica e realtà. Dati e proposte sul sistema antiviolenza in Italia secondo cui non solo l’Italia continua a essere carente di strutture e centri contro la violenza maschile sulle donne, ma i fondi previsti dal piano triennale contro la violenza sono sempre stati erogati con un ritardo preoccupante, che spesso ha creato gravi problemi alle strutture esistenti. La legge 93/2013, che ha ratificato in Italia la convenzione di Istanbul, prevedeva l’implementazione del piano strategico triennale (2017-2020). Ma i fondi stanziati per il piano antiviolenza (132 milioni di euro) sono stati erogati con ritardi considerevoli anche nelle regioni più virtuose come l’Emilia Romagna.

“Al 15 ottobre 2020, le risorse ripartite dal dipartimento pari opportunità per il biennio 2015-2016 sono state liquidate dalle regioni per il 72 per cento, il 67 per cento per quelle del 2017. A distanza di 15 mesi dal trasferimento dal governo alle regioni, le regioni hanno liquidato solo il 39 per cento delle risorse del 2018, ovvero circa 7,6 milioni di euro a fronte dei 19,6 stanziati”, è scritto nel rapporto.

Per il 2019, il dipartimento pari opportunità ha distribuito tra le regioni 30 milioni di euro. Per rispondere ai nuovi bisogni delle strutture di accoglienza, soprattutto durante la pandemia, la ministra Elena Bonetti ha firmato il 2 aprile 2020 un decreto di procedura accelerata per il trasferimento delle risorse per il 2019. Eppure, nonostante l’urgenza, a distanza di sei mesi dall’incasso delle risorse, solo cinque regioni hanno erogato i fondi: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto. “Nel dettaglio le risorse liquidate per l’annualità 2019 sono pari al 10 per cento”, continua il rapporto annuale di monitoraggio dei fondi destinati al contrasto della violenza. “Mai come oggi mi sembra che ci sia un divario tra retorica e realtà”, afferma Isabella Orfano, tra le relatrici dello studio di Action Aid.

“Solo il 10 per cento dei fondi stanziati nel 2019 sono arrivati ai centri antiviolenza. Ci sono regioni più virtuose e regioni meno virtuose, ma in ogni caso i fondi impiegano circa un anno e mezzo ad arrivare nella disponibilità dei centri. Forse nel 2021 arriveranno i soldi del 2020. La politica deve farsi carico di questi ritardi, non è possibile che si faccia a scaricabarile tra regioni e governo centrale, spesso le operatrici hanno dovuto impegnare le loro proprietà per prendere prestiti bancari in attesa dei fondi pubblici”, continua Orfano.

“Il contrasto alla violenza di genere deve essere all’ordine del giorno e la pandemia non è stata altro che una cartina di tornasole che ha fatto emergere problemi già presenti”. La crisi sanitaria ha infatti aggravato la situazione già difficile dei centri che hanno poche risorse e poca capacità. “Nelle interviste che abbiamo condotto abbiamo registrato una grande stanchezza soprattutto nei centri antiviolenza delle zone più colpite dal virus”, racconta Orfano. “Senza risorse hanno dovuto spesso far fronte anche a una riduzione del personale che si è ammalato di covid-19 e hanno continuato a garantire il loro sforzo ventiquattr’ore su ventiquattro”.

Tra le regioni in cui c’è stato un aumento maggiore delle chiamate durante il lockdown ci sono state il Lazio e la Toscana. Francesca Innocenti del Centro donna Lilith di Latina, attivo dal 1986, racconta che circa novanta donne si sono rivolte per la prima volta alla loro associazione proprio durante il confinamento. “Un dato importante. Di solito ci chiamano quindici donne al mese”, spiega Innocenti.

“La convivenza forzata ha scatenato una forte violenza domestica, in cinque situazioni che seguivamo sono dovute intervenire le forze dell’ordine perché era tutto estremamente grave”, racconta Innocenti. Per far fronte alle richieste superiori alla norma, le donne scappate dalla violenza domestica sono state ospitate da strutture alberghiere. “Nella provincia di Latina abbiamo solo sette posti letto in una casa rifugio e già ogni anno dobbiamo rifiutare la richiesta di quaranta donne, che dobbiamo trasferire fuori dalla provincia”, racconta Innocenti. In 35 anni di attività il centro donna Lilith ha aiutato cinquemila donne a uscire da situazioni di violenza, mentre nella sua casa rifugio sono state ospitate circa duecento donne e più di duecento bambine e bambini.

Durante il lockdown, a fronte dell’aumento delle richieste di aiuto, è stato ancora più complicato seguire i diversi casi: “Le donne quando scappano da casa per sottrarsi alla violenza non portano con sé delle valige, è stato difficile in quel momento anche solo reperire dei vestiti, perché i negozi erano chiusi, abbiamo attivato delle consulenze online da parte delle operatrici per quanto è stato possibile”. Ma per Innocenti l’anno che verrà sarà ancora più difficile: “Con più o meno gli stessi fondi di prima stiamo facendo fronte a molte più spese straordinarie, se si pensa alle sanificazioni, ai tamponi per le operatrici, ai dispositivi di sicurezza”.

E le istituzioni non stanno facendo abbastanza per garantire finanziamenti regolari ai centri antiviolenza, ma soprattutto per sostenere percorsi di autonomia e di lavoro per le donne che escono dalla violenza. “Solo attraverso il lavoro le donne riconquistano l’autonomia economica e psicologica necessaria per uscire davvero dalla violenza. Non sono soggetti fragili che devono essere assistiti, vogliono essere messe nella condizione di essere autonome”, conclude l’operatrice.

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