Il 1 giugno ho partecipato a un comizio di Donald Trump a Sacramento, in California. Per cinque ore ho parlato con decine di persone e ho ascoltato i loro discorsi, non da giornalista ma come uno spettatore tra tanti – ero in jeans, scarpe da lavoro e cappellino con la visiera – e ho notato che tutti erano cordiali, educati e, con poche interessanti eccezioni, abbastanza ragionevoli. Il raduno era pacifico e patriottico come un picnic per la festa dell’indipendenza del 4 luglio.

Eppure sono andato via portando con me tutta una serie di nuove domande e timori, per esempio: perché gli organizzatori hanno scelto di aprire e chiudere il comizio con Tiny dancer di Elton John? Quanto è preoccupante sapere che a nessuno dei presenti interessava veramente quello che Trump diceva? Il fatto che i suoi sostenitori non siano tutti matti da legare ma rappresentino in realtà un’ampia e trasversale porzione della popolazione americana, con molte più donne di quanto sia ragionevole aspettarsi, significa che Trump potrebbe davvero vincere le elezioni?

Sono uscito dall’autostrada e, guidato da uno schieramento ben organizzato di poliziotti, coni spartitraffico e sirene, mi sono diretto verso la zona periferica dell’aeroporto di Sacramento dove, in un hangar vuoto, Trump avrebbe tenuto il suo comizio. C’erano 35 gradi, l’aria era soffocante, il cielo azzurro e il sole implacabile.

Non erano ancora le quattro di pomeriggio e il comizio non sarebbe cominciato prima delle sette, ma il parcheggio era già pieno di auto e furgoni, non tutti fabbricati negli Stati Uniti. Ho parcheggiato e ho notato che nella macchina accanto alla mia c’erano un ragazzo e una ragazza, entrambi vestiti con abiti da ufficio informali, impegnati in un’informale attività amorosa. Vedendo arrivare la mia macchina, la ragazza si è aggiustata la gonna, il ragazzo le ha tolto la mano dal reggiseno, ma per il resto hanno continuato come se niente fosse.

È stato il primo di una serie di momenti in cui ho capito che una buona parte del pubblico non era lì semplicemente per assistere a un evento politico ma anche per fare qualcos’altro: divertirsi, vendere gadget, bibite e panini, pomiciare nel parcheggio.

Poi ha detto che le persone si sbagliano sull’atteggiamento di Trump nei confronti del Messico, e che il candidato ha più sostenitori tra i latinoamericani di quanto si pensi

È ormai da un anno che seguo la candidatura di Trump come almeno metà della popolazione statunitense e come tutto il resto del mondo: all’inizio come un innocuo teatrino, poi come un teatrino preoccupante, poi come un teatrino sempre più surreale e pericoloso e infine come un incubo terrificante che ricorda Mussolini, il maccartismo, Hitler e la notte dei cristalli.

Alcuni articoli e filmati hanno dipinto i comizi di Trump come baccanali protofascisti e orge di suprematisti bianchi, alimentate da uno sfacciato razzismo, da saluti pseudonazisti e minacce di violenza nei confronti di chiunque osi criticare il candidato. Per mesi sono stato convinto che quella di Trump fosse la campagna presidenziale più pericolosa della storia moderna degli Stati Uniti. Ma la realtà di un comizio di Trump, o almeno del comizio a cui ho assistito, è minacciosa quanto un concerto country di Garth Brooks.

I biglietti d’ingresso ai raduni di Trump sono gratuiti e possono essere presi online da tutti: basta stamparne uno dal sito della campagna elettorale. Ho deciso di non andarci con un tesserino da giornalista perché – come è emerso varie volte nel corso della serata – i sostenitori di Trump, e lui stesso, sono estremamente diffidenti nei confronti dei mezzi d’informazione. Se avessi fatto le mie domande con un taccuino o un microfono in mano, avrei ricevuto risposte diffidenti e scontate, sempre che qualcuno avesse accettato di parlare con me. Ho preferito mettermi in fila con tutti gli altri, sapendo che le sei o sette persone accanto a me sarebbero state la mia finestra per capire almeno una piccola parte dei sostenitori di Trump e la loro mentalità. Così ho preso posto in fondo a una fila ordinata.

“Visto?”, ha detto l’uomo davanti a me, indicando la scia bianca di un aereo sopra di noi. “Sono dell’aeronautica. Stanno spruzzando merda nel cielo”. Lo chiamerò Jim. Un uomo sul metro e ottanta, con la pancia gonfia da bevitore di birra, indossava un paio di calzoncini e una maglietta gialla con la scritta “non calpestatemi” sotto il disegno di un serpente a sonagli. Aveva capelli e baffi color ruggine, gli occhi piccoli e lo sguardo sospettoso.

Nei novanta minuti successivi, mentre aspettavamo e ogni tanto facevamo qualche passo avanti verso l’hangar, Jim mi ha illustrato le sue teorie su tutta una serie di complotti del governo e delle multinazionali. La prima è quella secondo cui da trent’anni l’aviazione rilascia nell’atmosfera un miscuglio di sostanze chimiche tossiche. “Manipolano gli eventi atmosferici con la tecnologia”, ha detto, “e lo chiamano cambiamento climatico. Ma sono loro a cambiare il clima con la tecnologia”. Mi ha indicato una striscia di cirri a ovest. “Vedi quelle nuvole finte? Le usano per coprire il sole. È per questo che non abbiamo più la primavera”.

Citando le sue parole, mi rendo conto di farlo sembrare un pazzo. Ma Jim non era un pazzo. Le sue teorie erano un po’ bizzarre, ma le esponeva con calma ed era cordiale e gentile con tutti quelli che erano in coda con noi. Rideva al momento giusto. Era amichevole e generoso, continuava a comprare acqua per quelli che erano intorno a lui, mostrava interesse per gli altri, insomma si comportava come una persona normale. Tra poco lo citerò di nuovo e lo farò sembrare di nuovo un pazzo, ma a questo punto posso solo dire che quando passi un’ora e mezzo con qualcuno riesci a valutare il suo livello di follia, e quello di Jim era piuttosto basso, non molto diverso da quello dello zio che c’è in tutte le famiglie, che è divertente ma ha strane idee su argomenti come la fluorizzazione dell’acqua.

Anche Jim aveva strane idee sulla fluorizzazione dell’acqua. Visto che c’erano 35 gradi ed eravamo in un parcheggio sotto il sole in pieno pomeriggio, i venditori di bottigliette d’acqua facevano affari d’oro. Quando uno si è avvicinato a noi, spingendo un carrettino rosso, Jim gli ha chiesto se l’acqua era della Nestlé. Il venditore ha guardato una delle bottiglie ed è sembrato sollevato nel vedere che non era imbottigliata dalla Nestlé. Jim ne ha comprate due.

“Le consiglio di non comprare mai quella robaccia della Nestlé, dentro ci mettono il fluoruro”, mi ha detto Jim porgendomi una bottiglietta.

Ho cercato di ridargli i soldi, ma lui non li ha voluti. Gli ho chiesto perché la Nestlé dovrebbe mettere il fluoruro nell’acqua.

“Per intontirci e non farci votare per Trump”, ha detto tra il serio e il faceto. “Non conosci la storia? È stato Hitler a cominciare”.

Gli ho chiesto perché Hitler facesse mettere il fluoruro nell’acqua. Non sapevo per quanto tempo saremmo rimasti in fila, quindi dovevo ammazzare il tempo.

“Per intontire la gente”, ha detto Jim. “Per renderla apatica”. Poi ha alzato di nuovo gli occhi al cielo verso le scie degli aerei che passavano. “E poi spargono schifezze nel cielo, come rinforzo. E lo fa la nostra aviazione. Invece di servire il paese…”. Ha sospirato e bevuto un sorso della sua H2O senza fluoruro.

Sullo sfondo la colonna sonora era fornita da un tizio di nome Kraig Moss, un uomo anziano molto gentile con la chitarra e una storia terribile da raccontare. Era vestito come un cowboy, jeans, stivali, gilet di jeans e un cappello consumato. Aveva sistemato nel parcheggio un piccolo altoparlante collegato a un microfono. Moss segue i comizi di Trump in tutto il paese suonando le sue canzoni, tutte disponibili su un cd che porta con sé per venderlo e intitolato Donald Trump for president.

“Mi chiamo Kraig Moss”, ha detto al microfono parlando sopra la registrazione di una delle sue canzoni, Trump train. “Vengo da Oswego, nello stato di New York. Ho scritto questa canzone e molte altre, che trovate in questo cd. Il 6 gennaio del 2014 ho perso mio figlio per un’overdose di eroina. È successo a Oswego. Ora racconto ai giovani dell’epidemia di eroina. Di quanto è facile trovarla. E di quanto è importante evitarla. Mi mantengo da solo. Non sono ricco. Non ricevo nessun contributo dalla campagna elettorale di Trump. Sono qui solo per informare la gente, parlarci, suonare un po’ di musica. E poi parto per il comizio successivo. Ne ho visti già trentatré”.

Ho comprato due cd di Kraig e ne ho dato uno a Jim. Erano canzoni country con titoli come Save our nation, Americans will win, Trump chant short e Trump chant long.

Davanti a me e Jim c’era una famiglia di tre persone. La madre, che chiamerò Belinda, era una donna minuta sulla quarantina, capelli neri e aria giovanile, in canottiera bianca, enormi occhiali da sole e un berretto da baseball rosa. La figlia, una sua versione più giovane e più alta, era vestita più o meno come lei, mentre il figlio, ben oltre il metro e ottanta, era in canottiera e berretto da baseball con la visiera dritta. Sono stati zitti per tutto il tempo, e i ragazzi hanno sopportato educatamente il monologo quasi ininterrotto di Jim e di un altro predicatore, che chiamerò Ron.

Più di tutti gli altri, Ron incarnava l’elettore di Trump che mi aspettavo d’incontrare. Era un bianco di mezza età. Portava una maglietta bianca con il logo di Trump, nuova di zecca, infilata in un paio di jeans che sembravano appena stirati. Portava scarponcini da lavoro e occhiali da sole a specchio ed era in forma per la sua età. Aveva il fisico di un professore di ginnastica o di un ex marine. Ron preferiva stare a qualche metro di distanza dalla fila, come un generale che ispeziona le sue truppe. Se ne stava a braccia conserte rivolto verso il fondo della coda, e all’inizio ho pensato che fosse uno degli addetti incaricati di controllare i partecipanti per individuare eventuali spie. Ma dopo un po’ è sembrato chiaro che era semplicemente un uomo a cui piaceva avere un pubblico, e per buona parte dell’ora successiva, appena Jim smetteva di parlare di scie chimiche e di fluorizzazione, Ron cominciava a tenere banco, guardando Jim, Belinda, i suoi figli e me come se fossimo stati clienti che era costretto a intrattenere e a educare.

“Ha letto i suoi libri?”, ha chiesto Ron a Belinda, riferendosi ai tanti libri firmati da Trump e scritti da qualcun altro.

Belinda ha scosso la testa. “No, lo seguo solo su Twitter”, ha detto.

“Ho letto i suoi libri anni fa e l’ho sempre adorato”, ha detto Ron. “Ho sempre sperato che si candidasse. I suoi libri sono facili da leggere. Sono scritti in un inglese semplice. Li legga e penserà: ‘Santo cielo, quest’uomo ha la sfera di cristallo! Ha previsto tutto, l’11 settembre, tutto. È un maledetto genio. Quando si è laureato aveva un quoziente d’intelligenza di 159. Immaginate oggi”.

D’accordo, sto facendo sembrare pazzo anche Ron. Ma neanche lui lo era veramente. Era simpatico e socievole, considerato il bisogno disperato che aveva di trovare qualcuno che lo ascoltasse parlare dei suoi due eroi: Donald J. Trump e Ronald Reagan. Secondo lui, sono due grandi uomini fatti della stessa stoffa. Nell’arco di un’ora ho sentito Ron raccontare tre diverse versioni del suo incontro con Reagan. La storia era più o meno questa: “Ronald Reagan. Io l’ho conosciuto. Quando ero bambino ero negli scout. E sono stato uno dei pochi che lo hanno conosciuto. È stato a San Jose, in California. Tutti gli scout volevano vederlo. Tutti i miei amici erano andati lì, ma a me non interessava. Poi i miei genitori mi hanno detto: ‘Devi conoscere quell’uomo. Un giorno potrebbe diventare presidente’. Così ci sono andato. Aveva una testa enorme. Se ne stava seduto lì e mi ha fatto un mucchio di domande. Era veramente interessato a me. Era un uomo simpatico. E aveva anche delle mani enormi”.

Dopo tanti anni, Ron era ancora emozionato e stupito per l’attenzione che Reagan gli aveva dedicato da bambino. Era veramente commovente. Ancora più commovente è stata la felicità mostrata dall’uomo quando ha scoperto che Belinda era di origine messicana, cosa che la donna ci ha detto dopo che un gruppo di manifestanti si è avvicinato a noi gridando: “Trump è un fascista”. Uno di loro sventolava una bandiera messicana. “Io sono ispanica”, ha detto Belinda a Ron.

“Mia madre è messicana”. Poi ha detto che le persone si sbagliano sull’atteggiamento di Trump nei confronti del Messico, e che il candidato ha più sostenitori tra i latinoamericani di quanto si pensi. Lei e sua madre, ha detto, sono favorevoli alla proposta di Trump di costruire un muro tra Messico e Stati Uniti.

“Anche un mio amico è messicano”, ha detto Ron a Belinda e a tutti quelli che erano lì. “Ha ottenuto la cittadinanza e ha lavorato per la campagna di Obama a Chicago, facendo porta a porta con dodici gradi sotto zero. Ma oggi è con Trump. Ho anche un amico musulmano, viene dall’Afghanistan. Lavoro con lui tutti i giorni perché la sua concessionaria di automobili è vicina al mio negozio. Prendo le consegne per lui, e lui prende le mie. Anche lui voterà Trump, ed è musulmano. Perciò non credete ai giornali”.

Forse a questo punto dovrei fermarmi e dare un po’ di contesto. Trump ha promesso di costruire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti, un progetto che secondo gli esperti costerebbe agli Stati Uniti 25 miliardi di dollari, anche se lui sostiene che a pagare sarà il governo messicano. Poco prima del comizio di Sacramento, Trump aveva insinuato che il giudice Gonzalo Curiel, assegnato a un processo contro Trump e l’università da lui fondata, doveva essere sostituito per via delle sue origini messicane (Curiel è nato nell’Indiana). Davanti alla reazione negativa suscitata dalle sue parole, Trump ha fatto quello che sa fare meglio: ha raddoppiato la posta, sostenendo che anche un giudice musulmano avrebbe dei pregiudizi nei suoi confronti. Queste due affermazioni hanno provocato grande indignazione, e perfino un rimprovero del leader repubblicano Paul Ryan, che ha definito l’uscita di Trump “razzista”, una parola che i repubblicani non usano quasi mai.

Illustrazione di Gipi

Ma tutto questo non ha influenzato la discussione del nostro gruppetto in coda a Sacramento.

“Lo accusano di essere razzista e di incitare all’odio”, ha detto Ron. “Aspettate un momento. Sono quarant’anni che amate quest’uomo, e lo accusate di tutte queste cose? I conti non tornano”.

Mentre aspettavamo, dietro di noi si erano aggiunte altre cinquecento persone. I venditori andavano avanti e indietro lungo la fila con magliette di Trump, distintivi e asciugamani. Il tutto nella massima tranquillità. Sarà stato il caldo. Sarà stata la fluorizzazione di cui parlava Jim. Ma tutti i partecipanti al comizio potevano essere scambiati per gente in attesa di entrare a Disneyland o Walmart durante i saldi. Erano socievoli, educati, tutti in sandali, canottiere e pantaloncini rossi, bianchi e blu, eppure tutti sorprendentemente diversi gli uni dagli altri.

Per la maggior parte erano bianchi, ma c’erano anche alcuni afroamericani, molti latinoamericani e un numero inaspettato di americani di origine asiatica. Com’era prevedibile, c’erano motociclisti con le Harley-Davidson in gilet nero a frange, ma c’erano anche dei disabili. C’erano famiglie, professionisti, reduci di guerra e un ufficiale della marina di origine filippina in uniforme. Non era quel mare omogeneo di bianchi arrabbiati che ci si sarebbe potuti aspettare. Sembrava una selezione abbastanza rappresentativa della popolazione della California settentrionale.

E questo rendeva l’interazione con i manifestanti piuttosto strana. Quelli che contestavano Trump avevano tutti i motivi di essere arrabbiati per le sue affermazioni, ma sembrava ci fosse un abisso tra le posizioni estremiste del candidato e le opinioni più moderate delle persone che erano lì. Un ragazzo ci è passato vicino con un megafono, seguito da un gruppetto di fotografi e operatori video. “I sostenitori di Trump sono tutti coglioni e imbecilli”, diceva.

“Non gli dia retta”, ha detto Jim a Belinda. Il ragazzo con il megafono ha ripetuto la sua accusa per mezz’ora attraversando l’intero parcheggio.

“L’hai pensata tutta da solo?”, gli ha gridato Jim.

La fila avanzava. Mentre ci avvicinavamo all’hangar, le bancarelle diventavano più frequenti e i venditori più sorprendenti. Una donna che parlava inglese con un forte accento straniero e indossava un berretto della Service employees international union, un sindacato che riunisce lavoratori di vari settori dei servizi, vendeva magliette di Trump color verde acceso. Un’anziana coppia di afroamericani era vicino a un banchetto con decine di magliette, distintivi e cappellini diversi.

“Avete l’aria di essere elettori di Trump!”, ha detto Jim. Loro hanno annuito ridendo e gli hanno chiesto se voleva comprare qualcosa. Le magliette costavano venti dollari l’una.

Intorno alle cinque hanno aperto l’hangar e la fila è avanzata rapidamente. All’entrata c’erano alcune decine di poliziotti in assetto antisommossa che facevano passare la gente attraverso i metal detector. Le macchine fotografiche troppo grandi non erano ammesse. E neanche i termos e le bottigliette di vetro. Non era permesso portare dentro cartelli e striscioni. C’erano addetti alla sicurezza di Trump in giacca e cravatta che si aggiravano intorno alla zona dei controlli, alla ricerca di persone pericolose o semplici piantagrane. Altri distribuivano cartelli con la scritta “Reduci per Trump”.

Una volta attraversati i metal detector, eravamo liberi di muoverci nell’hangar. L’ingresso era rivolto a ovest, e il sole del pomeriggio entrava trasformando tutto e tutti in sagome controluce. La folla gironzolava allegramente come a una fiera di campagna o a un concerto. Accanto all’ingresso avevano montato gli altoparlanti dai quali uscivano le canzoni di improbabili sostenitori di Trump come Bruce Springsteen (Born to run), i Queen (Under pressure e Hammer to fall) e i Rolling Stones (Start me up).

Alcune centinaia di persone si erano già piazzate dietro le transenne che separavano l’hangar dalla pista di atterraggio. Ma la maggior parte degli spettatori era dentro, all’ombra, e mentre giravo tra loro scattando fotografie mi sono accorto di un altro dettaglio demografico: almeno la metà erano donne. C’erano donne di tutte le età, etnie e classi sociali. Donne nere, bianche, indiane americane, adolescenti, donne eleganti, donne vestite come se stessero andando a una festa sulla spiaggia, donne con i tacchi alti, donne più anziane in gruppi numerosi, una vecchietta con il cappello dei “reduci delle guerre all’estero”. Anche se tutte le cose che dice Trump fanno pensare, o dimostrano, che nel migliore dei casi è un maschilista e nel peggiore un misogino e una minaccia per i diritti fondamentali delle donne, il fascino che esercitava sulle donne di Sacramento era indiscutibile.

Su una parete dell’hangar c’era un’enorme bandiera degli Stati Uniti, sotto la quale erano state sistemate alcune file di sedie pieghevoli destinate agli uomini e alle donne più anziani che avevano prestato servizio nelle forze armate. Un reduce in tuta mimetica, che si appoggiava a un carrello, si è avvicinato a una sedia. Due file ordinate di persone aspettavano di prendere l’acqua da una serie di distributori. Mi sono messo anch’io in coda, e mentre aspettavo ho visto un uomo anziano cercare di fotografare un tipo barbuto con il figlio. Le sue mani tremavano troppo per scattare la foto, perciò si è rivolto a me: “Può aiutarmi?”. Mi ha dato la macchina fotografica dell’uomo barbuto e padre e figlio si sono messi in posa: il ragazzo davanti al padre che lo circondava con le braccia. Hanno sorriso e io ho spinto il bottone rosso dello smartphone. “Scusate”, ha detto l’anziano a me e al padre. “Le mie mani…”, e si è allontanato tremando.

Un piccolo numero di persone si era seduto sul pavimento, all’ombra, e aspettava sventolandosi con i cartelli dei Reduci per Trump. Erano circa le cinque e mezzo, e mancava ancora più di un’ora all’inizio del comizio. Mi sono seduto vicino a un indiano americano che se ne stava da solo a leggere un libro tascabile dalle pagine ingiallite. Ho guardato il titolo. Era Passaggio in India di Edward Morgan Forster. Giuro che è la verità. Poco dopo una donna si è seduta accanto a noi. Era un’afroamericana sui 35 anni che indossava una maglietta di Trump e ingannava l’attesa guardando cose sul telefono. Il suo braccio destro era coperto di bruciature.

Ho aperto il cd di Kraig Moss. Dentro c’era la foto di un bel ragazzo con gli occhi azzurro intenso e un sorriso dolce. Era Rob JR Moss, suo figlio. Sotto la foto c’era un messaggio di Kraig: “Tutti affrontiamo la morte in modo diverso. Sostenere la candidatura di Donald Trump e cantare per chi partecipa ai suoi comizi mi ha permesso di parlare di mio figlio Rob JR Moss, delle sofferenze provocate dall’eroina a chi la usa e alla sua famiglia, oltre a farmi incontrare tante persone ECCEZIONALI, molte delle quali hanno provato il mio stesso dolore”.

Mi sono seduto e sono rimasto a guardare la folla che si muoveva nell’hangar. C’era un gruppo di giovani abbronzati in camicia senza maniche e cappello da cowboy che sembravano modelli pronti per una seduta fotografica in un ranch per turisti. Un giovane imitatore di Trump gironzolava tra la folla con un amico, che gli faceva da manager chiedendo alla gente se voleva farsi fotografare con lui. Avranno avuto quattordici anni. Visto da vicino, l’abbigliamento dell’imitatore era sorprendentemente azzeccato. Abito blu e cravatta rossa, somigliava al Trump degli anni ottanta, con il viso senza rughe, i capelli gialli, e l’atteggiamento da bullo di quartiere. Ogni volta che posava per una foto, si piegava all’indietro, socchiudeva gli occhi e puntava i tozzi indici in aria.

Le persone avevano un’aria così tranquilla e serena che, quando dagli altoparlanti sono uscite le prime note di Tiny dancer, la canzone non è sembrata affatto fuori luogo. Quell’ora nell’hangar era stata allegra e festosa, l’aria calda e il cielo azzurro. Quando hanno annunciato che l’aereo di Trump stava per atterrare, la folla si è avvicinata alla pista, e una serie di politici locali ha fatto un breve discorsetto sui meriti di Trump, sulla fiducia e sulla diversità. Quando hanno finito, abbiamo visto l’aereo avvicinarsi all’hangar, mentre gli altoparlanti continuavano a diffondere Tiny dancer. Per qualche minuto, mentre le donne si mettevano in punta di piedi e centinaia di obiettivi venivano sollevati in aria, la canzone ha sovrastato tutto: “Blue jean baby, LA lady, seam­stress for the band / Pretty eyed, pirate smile, you’ll marry a music man. / Ballerina, you must have seen her, dancing in the sand. /And now she’s in me, always with me, tiny dancer in my hand” (Bambina in jeans, ragazza di Los Angeles, sarta della band, occhi belli, sorriso da pirata, sposerai un musicista. Ballerina, devi averla vista danzare nella sabbia. E adesso è in me, sempre con me, piccola ballerina tra le mie mani).

Per un momento è sembrato possibile che la persona che stava per scendere dall’aereo fosse un uomo gentile dai gusti raffinati, un uomo che poteva apprezzare una simile bellezza, abbastanza sicuro di sé da arrivare a Sacramento al suono di una canzone di quarantacinque anni fa scritta da un cantautore gay.

Jesus freaks out in the street
Handing tickets out for God

(I fanatici di Gesù giù in strada
distribuiscono volantini per Dio).

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Ma quando l’aereo si è avvicinato, Tiny dancer ha lasciato il posto alla colonna sonora del film Air force one. La musica era alta e solenne, e l’atmosfera è drasticamente cambiata, passando dalla struggente tenerezza di Elton John, che evocava l’immagine di un uomo stanco di girare che veniva a salutare i suoi sostenitori in quel tardo pomeriggio californiano, a qualcosa di molto più teatralmente fascista. Quando l’aereo si è avvicinato, nella mente del pubblico, almeno per un attimo, la figura di Harrison Ford che nel film interpretava il presidente degli Stati Uniti doveva confondersi con quella di Donald Trump nello stesso ruolo. Il vero Air force one, la sua versione cinematografica e l’aereo di Trump dovevano diventare una cosa sola.

L’aereo ha rullato lentamente verso l’hangar, poi si è girato per scivolare sulla pista parallelamente alla folla ed è andato a fermarsi dietro al podio. In quel momento la musica di Air force one si è interrotta e, appena il portello si è aperto e Trump è uscito, la colonna sonora è cambiata di nuovo: una musica dance elettronica che ha mandato in delirio la folla.

Trump indossava un abito blu, una camicia bianca e il suo berretto rosso con la visiera. Non è mai stato il tipo da berretto da baseball, non è mai apparso in pubblico vestito in modo informale. È difficile trovare foto di lui in calzoncini corti o in jeans, indumenti che di solito accompagnano un cappello così. Eppure quel berretto è diventato un emblema della campagna elettorale, ed è il souvenir più richiesto dai fan.

Ma l’unico motivo della sua esistenza è che Trump non può apparire in pubblico all’aperto rischiando che la precaria scultura di zucchero filato dei suoi capelli si sfasci. Per anni è stato fotografato con i capelli biondi ritti in testa che lasciavano scoperta la cupola calva e puntavano verso il cielo. Lo facevano sembrare ridicolo e vulnerabile, lo facevano somigliare a un clown. Così, all’inizio della campagna elettorale, ha trovato una soluzione: il berretto.

Illustrazione di Gipi

Anche se ha risolto il problema dei capelli che svolazzano, Trump non ha idea di come si porti un berretto da baseball. Lo porta molto basso sulla fronte, e questo fa in modo che in cima si formi una cupola come quella del cappello di un fornaio o di un capotreno. Ma il berretto di Trump, anche se portato male, ha ottenuto un risultato inatteso. Grazie a quel cappello rosso in testa, il miliardario che vive in un lussuoso appartamento di Manhattan sembra avere qualcosa in comune con il resto degli abitanti del paese quando vanno alla partita, quando guidano il trattore nei campi di grano o fanno un barbecue nel giardino di casa. E forse, proprio perché lo fa sembrare così ridicolo, il berretto diventa una specie di livella.

“Grazie tante. Grazie tante. Reduci. Adoro i reduci”, ha cominciato. “Per questo ho raccolto quasi sei milioni di dollari per loro, e la stampa mi ha massacrato. Incredibile”. Era appena atterrato e aveva già cominciato con la solita solfa. “Sapete, quando vedi certe cose, ti si stringe un po’ il cuore”.

Queste sono state le prime frasi pronunciate da Trump, e fanno capire perché sia un oratore così convincente. Prima di tutto, non ha fatto preamboli. Non c’è stata la solita litania di ringraziamenti ai politici locali. Al contrario, Trump non ha ringraziato nessuno degli oratori che lo hanno preceduto e lo hanno elogiato. È andato subito al sodo, è entrato nel vivo e ha pronunciato parole incisive come “sei milioni di dollari”, “reduci”, “stampa”, “massacrato”. Tutto questo a braccio. Poi si è fermato e si è mostrato un attimo vulnerabile: “Ti si stringe un po’ il cuore”. Erano tutti incantati.

“Ma la stampa”, ha continuato, “vuole sempre far sembrare tutto negativo. Sono brutta gente. Sono brutta, brutta gente”. La folla ha guardato verso la tribuna stampa e ha cominciato a fischiare. Trump ha preso in giro i giornalisti molte altre volte durante il suo discorso, definendoli “bugiardi”, “spregevoli”, “pessimi esseri umani”. A proposito del principale quotidiano della città, ha detto: “Qualcuno sa che diavolo è il Sacramento Bee? Sono stati molto gentili con me, incredibile”.

Trump ha cavalcato questa contraddizione per tutto il discorso: da una parte dichiara di essere in guerra con la stampa, ma d’altro canto la sua campagna elettorale ha tanto successo proprio perché i mezzi d’informazione raccontano costantemente ogni cosa che fa e dice. E anche se lo criticano, i mezzi d’informazione hanno tratto grande vantaggio dal fascino che Trump esercita sulle persone. Lui si è perfino vantato dell’enorme attenzione ricevuta. “Siamo letteralmente sulla copertina di tutte le riviste”, ha detto. “Tutte le riviste. E ci siamo stati molte, molte volte”.

“Mi dicono che ci sono undicimila persone nell’hangar”, ha detto, scatenando uno scroscio di applausi. “Ieri sera ho visto che da Bernie ce n’erano tremila. Niente male. I giornali hanno scritto che ‘al comizio di Bernie Sanders c’era una folla di tremila persone’. Sapete quante sono tremila persone. Sono un pubblico irrisorio. Non sono niente rispetto alla folla che c’è qui, guardate che roba”. Tutti hanno applaudito di nuovo.

In realtà, la capacità dell’hangar era di 2.500 persone, e quel giorno non era pieno neanche per metà. Ma l’obiettivo dei discorsi di Trump non è dare informazioni accurate. L’obiettivo è divertire, e in questo Trump non delude mai. Ogni frase del suo discorso è un misto di vanterie, battute, lamentele, insulti, minacce, esagerazioni e conclusioni illogiche, il tutto presentato in modo teatrale, senza spiegazioni e con un grande effetto comico, aiutato dal suo accento gutturale e dal suo linguaggio crudo ma incisivo. Nei 44 minuti successivi ha tirato fuori una serie di duri commenti sul North american free trade agreement, Nafta (“un disastro totale”), e sull’Organizzazione mondiale del commercio (“una catastrofe”). Ha detto che i leader di Washington sono “stupidi” e che Hillary Clinton “non ha nessun talento”. Il fatto che le abbiano permesso di correre per la presidenza, nonostante quell’imbroglio delle email, è “una vera vergogna”.

Ma per almeno metà del tempo Trump ha parlato di sé e dei tanti affronti che ha subìto. Ha detto che durante i primi dibattiti con i suoi avversari nelle primarie repubblicane chiedeva sempre che ci fosse un numero dispari di candidati. “Non mi piaceva quando eravamo pari. Volevo che fossimo dispari, perché così sarei stato al centro!”. Anche quando parlava di questioni di sicurezza nazionale o di scambi commerciali trovava il modo di lamentarsi del fatto che quei problemi nazionali influivano sui suoi affari personali e sul suo patrimonio. Quella che segue è una trascrizione parola per parola di uno dei suoi vaneggiamenti: “Ci riprenderemo i posti di lavoro. Faremo andare tutto meglio. Non lasceremo che quei paesi la passino liscia per quello che stanno facendo. Vi stanno derubando. Vi stanno togliendo il lavoro. A proposito, avete visto quello che è successo nel golf? Hanno spostato il campionato mondiale, che era sponsorizzato dalla Cadillac, un grande sponsor la Cadillac. Lo hanno trasferito da Miami a Città del Messico. Da non crederci. Ma ci pensate? Hanno spostato il campionato mondiale di golf da Miami, dove ovviamente sono furiosi, a Città del Messico. Non va bene. Ma ci penserò io, ragazzi! Sistemerò tutto. Votate per Donald Trump e tutto questo finirà”.

Ha accennato al fatto che lui è proprietario del campo da golf di Miami che ha sempre ospitato quel campionato? Certo che no. Forse lo sapevano già. Ma hanno comunque applaudito forte, anche se non si capiva per quale motivo. Cosa doveva finire? Cosa avrebbe sistemato? Avrebbe fatto tornare il campionato a Miami? E cosa c’entrava la Cadillac?

“Vi piace quell’aereo?”, ha detto indicando con il pollice alle sue spalle. “Bello, vero? È stato fabbricato in America. Qui in America. Dalla Boeing”. La folla ha esultato e ha guardato l’aereo. Ma a osservarlo bene aveva qualcosa di strano. Sembrava arrivare da un’altra epoca. Dagli anni ottanta. La parola Trump era scritta sulla fusoliera con un carattere che si chiama Akzidenz Grotesk, che andava di moda trent’anni fa. Sulla coda c’era una gigantesca “T”, disegnata in modo da sembrare mossa dal vento: un altro motivo di moda in quegli anni, di solito si vedeva sulle scarpe da basket.

Come nel caso di molti spettacoli comici, tutto il loro fascino consisteva nel piacere proibito di sentir dire cose terribili al microfono: non possiamo credere che qualcuno le abbia dette davanti a tante persone

E poi ho messo insieme i pezzi. Avevo ascoltato il discorso di Trump, visto la folla ridere, applaudire e divertirsi al sole del tardo pomeriggio, e per tutto il tempo avevo cercato di capire cosa mi ricordasse quel comizio. Quel ritorno agli anni ottanta aveva fatto accendere una lampadina: Andrew Dice Clay. Forse fuori dagli Stati Uniti non è molto conosciuto, ma a quell’epoca, per qualche anno, è stato il comico più famoso del paese. Si presentava vestito come Fonzie – jeans, giubbetto di pelle e maglietta bianca – e raccontava barzellette politicamente scorrette ma spesso divertenti. All’apice della sua fama riusciva a riempire gli stadi.

Erano solo sketch, naturalmente. Ma, come nel caso di molti spettacoli comici, tutto il loro fascino consisteva nel piacere proibito di sentir dire cose terribili al microfono: non possiamo credere che qualcuno le abbia dette, su un palcoscenico o su un podio, davanti a tante persone.

Da più di un anno i sondaggisti, i mezzi d’informazione e il mondo in generale sono sconvolti dal fatto che la popolarità di Trump non venga intaccata dalle sue provocazioni o dalle idiozie che scrive su Twitter. E da un anno diamo tutti per scontato che i sostenitori di Trump sono d’accordo con lui quando dice qualcosa di xenofobo, sessista o offensivo nei confronti del miliardo di musulmani del mondo o del miliardo di cattolici (vi ricordate quando se l’è presa con il papa?) o dei tre miliardi e mezzo di donne.

Ma non è così. Sta succedendo qualcosa di molto diverso. I suoi sostenitori non lo ascoltano veramente. Applaudono quando Trump promette che aiuterà i reduci o che costruirà un muro, ma in fin dei conti non sono interessati a quello che dice. Non gli importa se costruirà davvero un muro. Se domani Trump dovesse cambiare idea, alzerebbero le spalle e continuerebbero a sostenerlo. Si è dichiarato a favore e contro il controllo delle armi. Si è detto a favore delle attività di Planned parenthood, un’organizzazione che aiuta le donne ad abortire, e poi ha proposto di incriminare le donne che interrompono una gravidanza. Ha detto che la guerra in Iraq e la maggior parte delle operazioni statunitensi in Medio Oriente sono state un errore, ma vorrebbe bombardare a tappeto lo Stato islamico. Ha cambiato idea su quasi tutti i temi più importanti, spesso nella stessa settimana, e non è mai entrato nello specifico di nessuno dei suoi progetti, anche se a proposito delle infrastrutture a Sacramento ha detto: “Costruiremo nuove strade, ponti e roba del genere”.

Ai suoi sostenitori non importa. Non sono interessati al suo programma. Nessuna scelta politica è importante. Nessuna promessa è importante. Non c’è nessun cattivo, nessun capro espiatorio che per loro conti veramente. Se domani Trump dicesse che i canadesi sono stupratori e spacciatori e che costruirà un muro lungo la frontiera a nord nessuno batterebbe ciglio. Perché per i suoi sostenitori non c’è nessuna posizione e nessuna affermazione che conti. C’è solo l’uomo, il nome, il marchio, la persona famosa che hanno visto in tv.

Credere che i sostenitori di Trump siano tutti fascisti o razzisti è un grave errore. A Sacramento ho visto un quadro molto diverso: un migliaio di persone normali entusiaste del fatto che Trump fosse arrivato lì su un aereo con il suo nome scritto sopra. Entusiaste della sua impertinenza quando ha definito “stupido” il presidente. Divertite dal suo modo particolare di pronunciare la parola huge (enorme), senza l’acca iniziale (il pubblico ripeteva “uuuuge!” ridendo un po’ con lui e un po’ di lui). Come qualche anno fa abbiamo applaudito Clay quando ha recitato come un vero attore in un film di Woody Allen, il pubblico dei comizi di Trump pensa: quanto sarebbe divertente se questo tizio si sedesse al tavolo con Angela Merkel? Sarebbe magnifico.

Gli americani che hanno votato per Trump alle primarie non lo hanno fatto perché sono d’accordo su tutto quello che dice o promette, ma perché è divertente. È un’attrazione volgare e accattivante, un ottimo attore comico. Il fascino che esercita è rafforzato da questi comizi e dai mezzi d’informazione, e dietro non c’è nessuna sostanza, solo il suo desiderio di dire cose folli in modo sguaiato. Corey Lewandowski, che fino a qualche settimana fa è stato il manager della sua campagna elettorale, ha sempre sostenuto che bisogna “lasciare che Trump si comporti da Trump”, ed è innegabile che la strategia ha funzionato. Finché andrà avanti a dire stupidaggini, continuerà a essere al centro dell’attenzione dei mezzi d’informazione e ad attirare le folle. Nel momento in cui smetterà di essere divertente, svanirà nel nulla.

O forse la gente si annoierà anche prima. A Sacramento è successo. A metà del suo discorso la gente ha cominciato ad andarsene. Dopo 25 minuti aveva cominciato a ripetersi e a leggere discutibili statistiche sulla situazione economica della città. Non interessavano a nessuno. A un certo punto ha letto un brano di un articolo che ha detto di aver ritagliato da un giornale. Stava diventando troppo specifico e non faceva più ridere.

Quelli che erano nelle prime file hanno cominciato a indietreggiare e ad andare verso l’uscita. La prima è stata la donna anziana con il berretto dei Reduci delle guerre straniere. Lei e altre due persone che l’aiutavano si sono fatti strada tra la folla nel buio dell’hangar. Poi è cominciato un regolare flusso in uscita. Erano arrivati lì alle quattro, avevano aspettato tre ore e adesso, alle sette e mezzo, se ne andavano.

Trump stava ancora parlando, ma loro non avevano paura di perdersi qualcosa, perché non gli interessava. Lo avevano visto, avevano sentito le sue battute, scattato un paio di foto, e ora si dirigevano verso il parcheggio per essere i primi a ripartire e non trovarsi intrappolati nel traffico.

Quando Trump ha finito di parlare, dietro di me non c’era più nessuno. L’hangar era quasi vuoto. Le uniche persone rimaste erano le poche centinaia che erano fuori, schiacciate contro le transenne, in attesa che lui firmasse i loro poster e i loro cappelli. Mentre camminava lungo la fila, e il sole finalmente tramontava lasciando il posto al fresco della sera, dagli altoparlanti ha ricominciato a uscire la musica struggente di Tiny dancer.

Hold me closer tiny dancer
Count the headlights on the highway
Lay me down on sheets of linen
You had a busy day today

(Stringimi più forte, piccola ballerina.
Conta i fari sulla strada.
Adagiami su lenzuola di lino.
Hai avuto una giornata pesante oggi).

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2016 a pagina 80 di Internazionale con il titolo “L’America vista da un comizio di Trump”. Compra questo numero | Abbonati

La versione originale è uscita il 17 giugno 2016 sul Guardian.

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