Un giorno di fine ottobre ero a Betlemme, città di muri e di natività. Ho raggiunto la stazione dei taxi collettivi: per cinque shekel ho preso un pulmino sgangherato per Battir. Ero con donne palestinesi cariche di buste della spesa, bambini che tornavano al villaggio dopo la scuola. Il grande taxi è uscito da Betlemme, ha aggirato la barriera di cemento e ha imboccato una strada secondaria che costeggia l’area del check-point. La nostra rotta era libera da posti di blocco: siamo scivolati via veloci, poi discesi a capofitto fino a Battir. Il muro era alle nostre spalle, eppure eravamo ancora in territorio palestinese.
A Battir ancora raccontano di Hassan Mustafa che salvò il villaggio. Era la primavera del 1949, il tempo in cui le cancellerie del nuovo stato di Israele e della Giordania negoziavano la linea del confine. I cartografi di re Hussein e gli strateghi dell’esercito israeliano tracciavano le frontiere dove il fuoco era cessato. Poteva accadere che le linee non combaciassero: i territori contesi divennero no man’s land, aree in cui era vietata la presenza di forze militari e di civili.
Battir era un obiettivo strategico perché nella valle sottostante passava la tratta ferroviaria che collegava Gerusalemme a Tel Aviv
In quella primavera Battir diventò terra di nessuno: gli abitanti rimasti avrebbero dovuto lasciare il villaggio. Ma Hassan Mustafa non obbedì agli ordini perché temeva che l’abbandono delle abitazioni avrebbe facilitato un’invasione israeliana. Battir era un obiettivo strategico perché nella valle sottostante passava – e passa ancora oggi – la tratta ferroviaria che collegava Gerusalemme a Tel Aviv. Fu così che Hassan e sei amici si nascosero nel villaggio. La sera accendevano le candele in ogni casa, la mattina stendevano sui fili panni appena lavati. Da lontano, agli occhi delle vedette, Battir appariva un posto abitato, resistente e risoluto. «E l’esercito non entrò. Ecco come Hassan Mustafa salvò il villaggio», raccontano a Battir.
Poi si strinsero gli accordi dell’armistizio di Rodi e fu tracciata un’unica Linea verde che separava Israele dai territori sotto il controllo giordano. La linea tagliava in due i coltivi di Battir, concedendo allo stato ebraico il controllo della ferrovia. Ma Hassan Mustafa riuscì ad aprire un negoziato e ottenne un risultato straordinario: ai contadini di Battir fu concesso di oltrepassare il confine per coltivare i campi sulla collina di fronte all’abitato. Fin da quei tempi lontani qui il confine è fluido.
Patrimonio dell’umanità
Quando sono arrivato a Battir, l’atmosfera era di calda quiete. Le case antiche e la moschea si aggrappano in cima alla collina, poco sotto si trova una grande cisterna romana. Un torrente fluisce dalla cisterna e raggiunge le terrazze coltivate a cavoli, erbe aromatiche, ortaggi. In fondo alla valle si vedono le vigne e i primi ulivi, poi il serpente della ferrovia scorre sinuoso. Sul versante opposto ci sono solo ulivi esposti a meridione. Fin dall’epoca romana esiste a Battir una rete di canali e un sistema di chiuse. L’acqua scorre in stretti percorsi scavati nella pietra, raggiunge la prima terrazza, ne irriga gli orti squadrati e rigogliosi. Quando il primo sbocco viene chiuso, il torrente discende e s’insinua nella terrazza sottostante, e poi giù fino a valle. Nell’estate del 2014 l’Unesco ha dichiarato il paesaggio di Battir patrimonio dell’umanità.
Ho preso il sentiero che scende fra le terrazze. La ferrovia era sempre più vicina e dall’alto sentivo diffondersi l’invito alla preghiera. In fondo alla valle c’è una scuola, gli allievi erano intenti a bacchiare l’ulivo del cortile. Anche i contadini intorno raccoglievano le olive, mi hanno salutato con una mano sul petto. Una donna anziana velata è sbucata da un tunnel con un sacco di olive sulle spalle. È un sottopassaggio che attraversa la ferrovia e permette ai contadini di andare oltre il confine.
Il sentiero s’inerpicava su rocce che accoglievano arbusti spinosi e cardi rinsecchiti. Mi sono voltato: la ferrovia era in basso e di fronte vedevo le case di Battir, i muretti a secco. “Perché”, mi sono chiesto, “ancora nessuno mi ha fermato?”. Ho sentito un rombo di motore alle mie spalle, camminavo disinvolto come un turista in scampagnata. Non era un mezzo dell’esercito, ma un piccolo fuoristrada biposto, rombante. Dentro c’erano due ragazzi con occhialoni, polvere intorno, una bandiera israeliana sfrangiata sventolava dal tettuccio. Dalla parte opposta sono giunti ciclisti in tuta tecnica e caschetto. Li ho salutati: “Shalom”.
Sotto un pino ho consumato il mio pranzo. Il sentiero continuava a mezza costa, parallelo alla ferrovia. Un pick-up si è avvicinato sulla strada asfaltata alle mie spalle. Un uomo con un cappellino rosso è sceso, il veicolo si è allontanato. L’uomo aveva i baffi, il volto olivastro alla luce meridiana. Era ebreo sefardita? Oppure arabo? La frontiera a Wadi el Jundi è labile, le identità si mescolano. Ho lanciato un saluto in inglese. L’uomo mi ha rivolto un cenno amichevole e ha imboccato il sentiero che porta a Battir.
Più avanti il sentiero si è trasformato in cantiere. Il nuovo acquario Sea Israel era in costruzione: filo spinato intorno, lavoratori arabi che andavano avanti e indietro. Oltre la ferrovia, m’è apparso il checkpoint che separa le colonie dai villaggi palestinesi. Ma io sono andato avanti libero lungo il mio cammino – avanti oltre lo zoo, oltre la stazione ferroviaria, fino alle porte di Gerusalemme.
Il sole calante gettava i suoi raggi sulla torre del Technology park e io sono entrato nel quartiere di Malha, all’estrema periferia meridionale della città. Una volta qui sorgeva il villaggio di Al Maliha. Nel 1948 le milizie paramilitari dell’Irgun attaccarono Al Maliha, gli abitanti fuggirono e non tornarono più. Oggi Malha è una zona residenziale israeliana aggrappata alla collina, le villette s’affacciano sull’immenso Malha mall. Sono entrato nel centro commerciale. Lungo corridoi di boutique, fast food e gioiellerie mi hanno sfiorato giovani soldati, gruppi di donne velate e sorridenti, famiglie ortodosse, coppie di arabi. Nel viavai mi domandavo ancora: “Come mai ho eluso i bastioni di Israele?”.
Campo di forze
Nel 2015 la corte suprema israeliana ha bocciato il progetto governativo che prevedeva la costruzione di un muro a Battir. Il responso della corte – rafforzato dal riconoscimento dell’Unesco – ha ottenuto il plauso dei coltivatori di Battir, dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e degli ambientalisti israeliani. Anche i coloni dell’area sono contrari al muro perché la barriera di Battir isolerebbe i loro insediamenti in un’enclave compresa fra la Linea verde e Betlemme. Il muro, poi, costringerebbe gli enti pubblici a una spesa forse eccessiva e impedirebbe l’espansione di colonie come Beitar Illit.
È come se il paesaggio di Wadi el Jundi fosse un campo magnetico dove si scontrano forze materiali e contingenti: gli interessi degli agricoltori palestinesi, le esigenze israeliane nel controllo dei trasporti, le logiche del turismo, il bilancio dei conti pubblici, le mire dei coloni. Anche le ragioni che s’ammantano di assolutezza – il patrimonio dell’umanità da difendere, la bellezza della natura da preservare – sono onde d’energia in conflitto sul territorio. Il varco che ho attraversato è la risultante di un sistema di tensioni politiche ed economiche.
A Wadi el Jundi ho compreso che esistono luoghi di frontiera dove il controllo è lasso. Così è possibile – anche a un palestinese – raggiungere Betlemme, poi Battir, poi Gerusalemme senza esibire un documento. Dunque la barriera non è impermeabile e non funziona ovunque, piuttosto è discontinua, frammentaria, porosa. Eppure la sua esistenza negli anni è stata giustificata dalla ragion di sicurezza. Forse la sicurezza è solo un argomento parziale, che cela le altre funzioni del muro: l’affermazione di un rapporto di forza, il controllo dei territori, la conquista di aree coltivabili e di spazi edificabili. Il muro non offre una sicurezza infallibile, ma un dominio geografico.
Per quale motivo lasciare un varco aperto?
Un tè con Nasser
Una sera rileggevo i miei appunti e una figura m’è apparsa come un ricordo che riemerge dall’oblio: era l’uomo con il cappellino rosso e i baffi incontrato lungo il cammino. Chi era? Perché un’auto l’ha portato fino all’intersezione fra la strada e il sentiero di frontiera? Forse – ho immaginato – era un lavoratore palestinese impiegato illegalmente in Israele. Sono tornato a Battir per ottenere nuove informazioni.
Cadeva la prima pioggia dopo mesi di siccità, ho preso un tè con Nasser di Battir. Nasser ha sedici anni e ama andare a scuola. “Ogni tanto però vado anche a lavorare”. Mi ha sorriso, si è accarezzato il viso. “Sembro un ragazzino, non ho la barba ancora. Posso passare senza problemi. La mattina prendo il sentiero e lavoro un giorno intero a Gerusalemme. Mi pagano duecento shekel a giornata. Faccio di tutto: muratore, piastrellista, qualsiasi cosa».
I palestinesi, a meno che non abbiano permessi speciali o siano residenti a Gerusalemme, non possono attraversare il confine. Chi attraversa illegalmente si trasforma in lavoratore privo di diritti. “Un giorno eravamo al villaggio e il mio amico qui, Mohammed, ci ha detto: ‘Adesso me ne vado a Gerusalemme’. Lo abbiamo preso in giro. Dopo due ore ci ha inviato una foto, aveva i palazzi alle spalle e sorrideva”.
Gli ho chiesto se passano in tanti. “Mio zio passa per andare a lavorare. A volte mio nonno passa carico di verdure, le va a vendere nella città vecchia”. Allora il varco non è una falla, né una svista. Al contrario, è funzionale all’economia dell’area. “E non credere che siamo solo noi ad attraversare”, mi ha detto Nasser, “anche loro vengono qui per visitare il villaggio. Noi sappiamo che sono israeliani. Sono benvenuti. Io detesto l’occupazione, non le persone”.
Se le forze dell’ordine mi avessero fermato, avrei interpretato la parte del turista svampito
Hiba, la mia amica di Ramallah, si è stupita quando le ho raccontato delle mie camminate di frontiera. “Hamdulillah! Grazie a Dio, non ti hanno sparato”. Sin dalla prima occhiata al paesaggio, tuttavia, avevo intuito che l’area non era sotto il controllo dell’esercito. Il rischio, per me, era minimo: se le forze dell’ordine mi avessero fermato, avrei interpretato la parte del turista svampito.
Altri amici palestinesi hanno avuto la stessa reazione di Hiba: “Ti è andata bene, potevano aprire il fuoco”. Perché serpeggia una paura così intensa fra i palestinesi? Io credo che il timore sia un effetto del muro. I blocchi di cemento – come i controlli, il filo spinato, i checkpoint – hanno un impatto psicologico: raggelano, inquietano, turbano. Oltre a essere una membrana di materia dura, il muro è anche un’entità simbolica che grava sulla vita quotidiana degli uomini e delle donne. Il muro è un incantesimo.
E poi, ho pensato sotto la pioggia di Battir, il muro esiste per rispondere alle paure degli israeliani. Il terrorismo e la sicurezza sono il retto e il rovescio del muro. Così la linea di cemento appare come un incubo che grava su tutte le creature, al di qua e al di là del confine.
Sono tornato a Betlemme, vicino alla barriera un negozio vende souvenir con i dipinti di Bansky. Qui gli artisti disegnano graffiti e noi scattiamo fotografie al colosso per diffondere testimonianze d’oppressione. Così aumentiamo l’effetto spettacolare del muro. Bansky crede di contestare il muro, ma di fatto ne rafforza l’origine simbolica e nutre l’incubo d’un congegno totale. Allora vorrei dissolvere il gioco simbolico di questa muraglia mediterranea: una passeggiata attraverso confini labili è una magia che disincanta.
Racconto dove il muro non funziona come barriera di sicurezza, dove esso è debole, fluido, intermittente. Provo a soffiare via le paure, e con le paure le identità; allora intravedo che le ragioni del conflitto non riguardano tanto le etnie e le religioni, ma i rapporti di lavoro, lo sfruttamento in assenza di diritti e la proprietà della terra.
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