11 febbraio 2017 10:32

Poveri e nudi, ovunque voi siate
a sfidar scrosci spietati di tempesta,
come potrete senza un tetto a ripararvi,
con i vostri fianchi affamati,
i vostri stracci tutti buchi e finestre,
difendervi da un tempo come questo?
William Shakespeare, Re Lear

Ho conosciuto un uomo che somiglia a una mongolfiera e il cui nome significa “luce della religione”. In arabo è Nur al din, ma preferisce farsi chiamare Marco. Mi piace di più, dice, non significa niente. Dice anche di essere un mago, e potrebbe essere vero. Ha una testa enorme che si apre su un viso rotondo e ambrato; gli occhi sono grandi, le guance gonfie e le labbra grosse; il naso è largo. Sta spesso seduto, e sempre sulle ginocchia, la pancia sulle cosce, il sedere sulle caviglie, le tibie su un sacco azzurro con dentro la sua roba. Davanti ha una cassetta della frutta rovesciata, sopra c’è un piattino con degli spicci. Sto atterrato qui, dice.

Qui è il marciapiede di fronte a una rosticceria di piazza Re di Roma, a pochi metri dall’ingresso del supermercato dove dorme da anni. Racconta che c’è finito dopo che è morta sua moglie e i parenti l’hanno cacciato per prendersi la casa. È di Casablanca, ma vive in Italia da oltre vent’anni. Ha fatto a lungo il cameriere, ma a un certo punto non ha più trovato lavoro ed è finito per strada. Ti faccio una magia, dice. Tira via le mani enormi da sotto la coperta che lo avvolge, le muove lentamente, porta la destra dietro la cassetta, la fa riapparire con una bottiglietta di tè, e beve. Poi la riporta dietro la cassetta, strizza l’occhio e la mano ricompare con una bottiglia di birra. Tira giù un sorso e ta-dà, sorride, piaciuta la magia?

La prima volta che gliel’ho visto fare era il 6 dicembre scorso, erano passate le undici di sera e c’erano otto gradi. Mi sono fermato con lui per i motivi per cui può farlo un qualsiasi bianco italiano borghese: per curiosità, per paura, per capirci qualcosa, per un poco di umanità, per una sola di queste cose e per tutte queste cose messe insieme.

Per gli stessi motivi quella sera avevo cominciato a dare una mano ai volontari della Comunità di Sant’Egidio nei giri in cui portano cibo, coperte e bevande a chi gravita intorno alla stazione Termini e dorme per strada. Durante questi giri, e dopo, ritornando dalle persone a cui poco prima avevo dato della pasta o un mandarino, ho sentito storie che mi hanno spaventato, sorpreso, infastidito, atterrito, sconfortato e dato qualche speranza. Per dei motivi a cui arrivo tra poco, vorrei raccontarne qualcuna alla sindaca di Roma Virginia Raggi, bianca italiana borghese.

Cosa succede a Roma
A Roma le persone che vivono per strada sono quasi ottomila, ma i posti su cui possono contare per dormire nei periodi più difficili, e cioè d’inverno e d’estate, sono 1.200. La Comunità di Sant’Egidio stima che nel 2017 circa 2.800 dormiranno sui marciapiedi, nelle stazioni, nei sottopassaggi, 300 in più dello scorso anno; tremila lo faranno in edifici occupati o abbandonati, e nei parchi pubblici.

Il Piano freddo previsto dal comune ha messo a disposizione 520 posti, un centinaio dei quali per dormire, gli altri per fare docce, lavatrici, mangiare. Le stazioni metro aperte sono 4 su 74: e solo da mezzanotte alle cinque del mattino, il venerdì e il sabato dall’una e mezza alle cinque.

Dormo un paio d’ore di pomeriggio e poi mi riaddormento presto: alle otto e mezza, massimo alle nove di sera. All’una mi devo risvegliare perché il bar di fronte chiude. Finché ci sono loro c’è gente, e finché c’è gente qualcuno un occhio lo butta, non mi può succedere niente di grave. Dopo è un casino. Passano quelli che ti rubano le cose, gli spicci o le sigarette. Ci sono quelli che menano. A te manco le mutande ti resterebbero addosso, ah ah, ma io mi difendo. Lo so chi sono, prima o poi li becco e gli faccio passare il vizio, ah ah. (Francesco, via Nazionale, 3 gennaio, ore 22, sette gradi)

A parte il Piano freddo, le mense dove possono mangiare tutto l’anno sono 40, altrettanti i gruppi che portano cibo per strada, 22 i posti dove poter fare delle docce, 38 quelli in cui curarsi: 12 i numeri di telefono da chiamare se si è in difficoltà. Una sera ho visto comporre alcuni di questi numeri.

Storia di Rosa
Il 13 gennaio alle otto e mezzo di sera ci sono tre gradi e molti si aspettano che venga giù la neve: intanto piove e il vento batte le porte e le persone. Tra lo sferragliare degli autobus e qualche lampo, in piazza dei Cinquecento la Croce rossa italiana ha aperto le porte del camper dove ogni venerdì visita chi ha bisogno. Nel giro di mezz’ora, i volontari distribuiscono decine di giacche, cappelli, guanti, sciarpe, coperte. Il tè caldo disegna nuvole davanti alle facce di chi lo beve.

Debora Diodati, presidente della Croce rossa di Roma, me ne offre un bicchiere. Le avevo chiesto se potevo passare la serata con loro per capire come lavorano. Idea poco originale. Una volta all’anno, politici e giornalisti si fanno sorprendere dall’inverno, scoprono il freddo e lo chiamano emergenza. Le associazioni accettano l’attenzione perché altrimenti si ridurrebbe lo spazio già risicato che hanno su giornali e tv. Quella sera c’è la troupe di un tg, ma molti non vogliono farsi riprendere. La strada non cancella il pudore, come si può credere, ne alza il recinto. Qualcuno dà del coglione al giornalista, qualcun altro si agita, i volontari fanno calmare tutti. Il problema è che vogliamo che queste persone soddisfino i nostri stereotipi su di loro: che siano brutti, ma docili; che se ne stiano in disparte, ma senza disperazione; che siano eroi romantici, ma senza morire di fame. E non c’è niente di più sbagliato, perché non ce ne sono due uguali. Ci sono persone per bene e persone storte, alcuni hanno delle fragilità, altri delle dipendenze, altri ancora si incazzano e urlano, come tutti.

Ti metto il coltello nel cuore, io ti uccido, e si muore una volta sola. Si muore una volta sola, stronzi. Io sono un pericolo, sono un montanaro. (Omar, metro A, stazione di San Giovanni, 16 gennaio, 20.30, 5 gradi)

Con Diodati raggiungiamo alcuni dei volontari che circumnavigano la stazione per assicurarsi che chi dorme sui cartoni stia bene. I volontari della Croce rossa sono medici e infermieri che di giorno lavorano negli ospedali della capitale, o persone formate dall’associazione con dei corsi.

A metà di via Giolitti, mentre il freddo s’imperla sulle vetrine del nuovo Mercato centrale, ci avvicina un’adolescente. Minuta, la pelle olivastra, gli occhi neri, stringe una tazza di cioccolata che le ha macchiato le manine e il viso, e un pacchetto con dentro dei dolci. “Me li ha comprati una signora lì dentro, la Caritas mi ha promesso un posto, ma poi se ne sono andati”, dice. Un accenno di lacrime negli occhi. “Ho paura, marocchini tunisini rumeni, tutti uomini, mi fermano, mi fanno domande”. Debora Diodati e le altre volontarie cercano di capire cosa ci faccia lì da sola. “Mi chiamo Rosa, ho 18 anni e sono bosniaca”. Alle domande risponde in modo confuso.

Cominciano le telefonate per cercarle un posto, ma è tardi, i letti a quest’ora sono già tutti occupati. Forse alla Caritas c’è qualcosa, dice qualcuno al telefono. L’ostello è dall’altra parte della stazione, tutti sono scettici ma tanto vale provarci. Rosa si rincuccia sui sedili dietro, guarda fuori dal finestrino e trema un poco.

Il presidio sanitario della Croce rossa di Roma fuori della stazione Termini, 13 gennaio 2017. (Croce rossa di Roma)

La città sfila davanti ai suoi occhi finché a un certo punto, all’inizio di quella specie di grand canyon che è via Marsala, indica qualcuno, e dice: “Sono loro quelli che mi hanno promesso il posto”. Loro però sono i volontari dei City angels, e non le hanno promesso alcun posto, ma cominciano a farle domande, a dirle che non ha fatto bene a scappare. Rosa si irrigidisce, così Diodati li ringrazia e si attacca al telefono con i suoi finché non salta fuori un posto nel loro centro per migranti di via del Frantoio.

“È un lettino in segreteria”, dice a Rosa, “non proprio un albergo, ma è caldo e c’è qualcuno che ti aiuterà, va bene?”. Rosa fa sì con la testa e ringrazia. Per la prima volta da quando ha chiesto aiuto il viso le si scioglie, e chiede se vogliamo uno dei dolci del suo pacchettino. Qualche giorno dopo, i volontari ricompongono la sua storia. Ne vien fuori una ragazzina cresciuta in un campo rom di San Remo, che prova a scappare in Francia col fidanzato e viene fermata a Ventimiglia. Lui è maggiorenne e lo arrestano perché ha qualche precedente, lei no e finisce in una comunità per minorenni. Compiuti i diciott’anni non ha più diritto a restarci e così sale su un treno e raggiunge Roma, fino a perdersi e a essere ripescata.

Storia di tutti
È probabile che una storia del genere possa far pensare che il problema si agiti dentro recinti ben precisi. Ma se si guarda agli ultimi dati Istat sulle persone che vivono per strada ci si deve ricredere. In Italia sono 50mila, ed è una stima per difetto se si considera che è stata calcolata sulla base dell’utilizzo di almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni in cui è stata condotta l’indagine.

Le persone che hanno una casa ma che vivono in povertà assoluta sono molte di più: nel 2015 erano 4,5 milioni, il numero più alto mai registrato dal 2005. Per usare un’immagine, vuol dire che ci sono tanti poveri quanti sono i cittadini del Veneto. Queste persone hanno un tetto sopra la testa ma non possono permettersi di riscaldarlo, non hanno un’alimentazione adeguata né il minimo necessario per vestirsi, istruirsi e curarsi, dice l’Istat. A loro non viene appiccicata l’etichetta di senza dimora, ma è facile capire che il rischio di finire per strada è molto alto. Dei cinquantamila che ci sono finiti, il 42 per cento è italiano.

Con loro lavora per lo più la Caritas. A Roma lo fa in due strutture, entrambe fondate da don Luigi Di Liegro: l’ostello di via Marsala, a poche centinaia di metri da Termini, e la Cittadella della carità alle porte del Pigneto.

Nato nel 1987, l’ostello è una costola della stazione, ci si accede dalle cinque del pomeriggio alle dieci di sera, e quasi sempre su segnalazioni di parrocchie, municipi, centri ascolto. “I posti sono passati da 80 a 180, un buon 70 per cento sono italiani”, dice Roberta Molina, responsabile del centro. “A ognuno facciamo un colloquio e si prova a costruire qualcosa, tenendo presente che molti hanno situazioni difficili, e che non devono vivere questo posto come una galera, altrimenti ci lasciano”.

Tu sai cos’è il deserto? Signora, tu sai cos’è il deserto? Non lo sai? Solo noi algerini sappiamo cos’è il deserto: il deserto è la nostra anima. Al deserto diamo la nostra anima e lui ci dà la sua. (Ahmed, via Torino, 6 dicembre 2016, 22.31, otto gradi)

L’ostello qualche anno fa è stato ristrutturato e chi ci lavora è molto contento, parlano tutti di due particolari che potranno sembrare insignificanti e che sono invece decisivi: dalle stanze sono spariti i letti a castello, un incubo per i più anziani e per chi ha delle infermità; e tutte ora hanno una finestra, il che significa aria e luce. “Sono anche colorate, il che non guasta”, dice una volontaria. Le sezioni sono due, una maschile e una femminile, e poi ci sono le lavanderie, le docce e la mensa che nel 2015 ha dato da mangiare a 79mila persone.

Chiedo a Molina quali sono i motivi più frequenti che portano le persone per strada. “Alla base ci sono quasi sempre situazioni familiari complesse, fatte di rotture, violenze, ma anche divorzi o lutti. L’età media qui è sui 50-60 anni, gli anni in cui chi perde il lavoro e non ha una rete familiare che lo protegge finisce in strada prima che in passato, i tempi si sono accorciati”.

Io una casa per fortuna ce l’ho, ma sto in affitto e c’ho una pensione di 500 euro. A mangiare non ce la faccio, non mi vergogno a dirlo. Perciò m’aiuto con quello che danno le associazioni. A Natale mi faccio pure il pranzo di Sant’Egidio. Tonino, me lo dai un invito, io sono un cliente fisso ormai. (Stefano, via Marsala, 13 dicembre 2016, dieci gradi)

Anche Alberto Farneti, responsabile della Cittadella della carità, parla di un cambiamento in atto da anni. Farneti ha cominciato a lavorare con la Caritas nel 1993. “In 24 anni ho visto cambiare tante cose”, dice. “Quando fu fondata, nel 1990, la Cittadella accoglieva 30 persone con gravissimi disagi psichici e forti dipendenze. Oggi ce ne sono 87, le donne sono una ventina, quattro gli stranieri, i disagi mentali non sono così estremi”.

La Cittadella somiglia a un campus universitario. C’è il dormitorio, con stanze da massimo tre letti e il bagno, e poi la mensa, la cucina, le sale dove vedere film, leggere giornali, fare laboratori. Nella corte interna ci sono una piccola chiesa e un supermercato dove chi ha bisogno può andare a fare la spesa senza soldi. Le persone ricevono una tessera su cui sono caricati dei punti ogni mese e con quei punti si comprano i prodotti forniti da supermercati e donazioni. “Un’insegnante ci aveva detto che veniva a fare la spesa per persone che conosceva, ma poi abbiamo scoperto che la faceva per lei”, racconta Farneti. “Non le abbiamo detto niente, a volte gli equilibri sono delicatissimi, e il senso di fallimento, di vergogna è sempre una minaccia”.

Io c’avevo questa fissa: mi dovevo lavare le mani in continuazione. Toccavo qualcuno, e subito tiravo fuori una bottiglietta d’acqua e dei fazzoletti e mi pulivo. Ora va meglio, ma sono stata tanto depressa, sai? Dodici anni di pillole e dottori. Dopo che sono tornata dall’Inghilterra, mia mamma è morta. Aveva 51 anni, l’angelo mio, e io mi sono sentita male. Sono cresciuta povera, ma c’avevo lei. Sono stata in Germania e in Inghilterra a lavorare, ma la testa sempre a lei ce l’avevo. Quando è morta, sono morta pure io. Ma ora va meglio, c’ho un posto dove dormire a Tor Bella Monaca e le mani non me le lavo più così spesso. C’ho una foto di mia mamma, l’angelo mio, la vuoi vedere? (Daniela, prostituta di 76 anni, stazione Termini, 12 dicembre 2016, nove gradi)

Negli ultimi dieci anni, poco dopo l’inizio della crisi nel 2008, l’età media degli ospiti della Cittadella si è abbassata, e oggi ci sono persone anche sotto i sessant’anni, qualcuna sotto i cinquanta. “Il disagio degli italiani è cresciuto, la coda della crisi è lunga e colpirà ancora chi si trovava già in condizioni di debolezza”, dice Farneti.

Storia di Marina
Ecco una storia che dà forma a questo concetto di debolezza. Me la racconta Marina davanti ai tornelli della metro di Termini. È l’11 gennaio, sono le 23 e ci sono due gradi. A quest’ora il respiro della stazione è più lento, quasi tutti i negozi sono chiusi e i tavoli di McDonald’s e Spizzico si riempiono di persone che bevono vino scadente, sonnecchiano, chiacchierano.

Marina sta sempre accanto alle biglietterie e prova a dare una mano ai turisti. L’ho vista parlare l’inglese, il portoghese, il francese. Bionda, il viso tondo e chiaro, gli occhi verdi, ha 61 anni e qualche ruga. “Lavoravo per la Panasonic, ho girato l’Europa e l’Italia”, racconta. “Poi sono stata assunta da un’azienda a Roma che però mi ha fregata, sono falliti e ho scoperto che non mi hanno mai versato i contributi. Da un anno vivo per strada”.

Vicino alla stazione Termini di Roma, gennaio 2017. (Michele Cirillo)

Di giorno sta a Termini e se trova qualche turista disposto a fare un giro a Santa Maria Maggiore o alla basilica di San Paolo Fuori le Mura gli fa da guida. Di notte prende l’ultima metro e prova a dormire nei corridoi del secondo piano del Policlinico. “Non è facile, non sono sola, c’è un romeno che fa sempre casino, e allora vengono le guardie e ci sbattono fuori. Quando fa troppo freddo provo a restare nell’androne, ma lì non si si dorme: passano infermieri e dottori che fanno il turno di notte, le persone arrivano con qualche problema, è pieno di spifferi”.

Mi dice che ha provato a chiedere in parrocchia se le trovano un lavoro, una signora da accudire, un appartamento da pulire. “Ho solo mia madre, ma è anziana, da anni è in una casa di riposo a Milano e tutto quello che faccio lo faccio per lei, le nascondo tutto, perché se lo sa che vivo per strada muore, anche se la mia paura è di morire prima di lei”.

Storie dei morti
Morire è un fatto che le persone come Marina mettono in conto senza agitarsi troppo. Il 31 gennaio sera, Salvatore Stella di Sant’Egidio per la prima volta dopo mesi ci dice di svegliare le persone che incontriamo. La raccomandazione era sempre stata un’altra: “Se dormono, non svegliateli, si spaventano, possono reagire male, lasciamogli le cose e andiamo via”. Questa volta: “Chiamateli, smuoveteli, cercate di capire se respirano. Stanotte andremo sotto zero e negli ultimi giorni sono già morte quattro persone”.

Grzegorz Sieja, 58 anni, polacco, viveva in un angolo di strada fra un distributore di benzina e le case popolari del Trullo, periferia sud di Roma. Due compagni di strada polacchi vedendo che non si muoveva hanno chiamato l’ambulanza, ma Sieja era già morto. Data del decesso: 19 dicembre 2016. Motivo: freddo.

Paola Petrassi, 53 anni, aveva problemi psichici e viveva in una roulotte a Tor Marancia, periferia sud di Roma. È lì che i carabinieri l’hanno trovata il 12 gennaio. Nessun segno di violenza sul corpo, motivo del decesso: freddo.

Amantina, 51 anni, era originaria di Santo Domingo. Il suo corpo è stato trovato nel parcheggio di piazza Mancini, Roma nord, il 15 gennaio. Motivo del decesso: freddo.

Le ore più brutte sono tra le tre e le quattro del mattino. Il cemento è ghiacciato e i cartoni non isolano tanto. Io vengo dall’Afghanistan, conosco il freddo, ma certe notti qui non si resiste proprio. Devi dormire sempre con un occhio aperto, se no ti fregano le cose, e se ti fregano le cose ti devi mettere a camminare per riscaldarti, ma poi sei stanco e il giorno dopo non fai niente. Io sto cercando lavoro. Sono stato in Grecia, in Francia, in Sicilia. A Trapani e Marsala ho lavorato nei campi, ma i soldi erano pochi, o niente. Ho fatto un corso da parrucchiere e uno da pizzaiolo, a Bologna e a Ravenna. Ma lavoro non ce n’è. (Amir, Termini, 31 gennaio, ore 22.20, dieci gradi)

Bisogna fermarsi un attimo e capire cosa significhi morire di freddo. Il nome medico è ipotermia e indica l’abbassamento della temperatura del corpo sotto la media fisiologica. Questa media è solitamente sopra i 35 gradi. Tra i 35 e i 32, una persona comincia a sentire dei brividi. Tra i 32 e i 28 i brividi passano, si finisce in uno stato soporoso. Tra i 28 e i 24 si perde coscienza. Sotto i 24 si muore. E sono morti impensabili. Oltre all’ipotermia, le persone come Sieja o Petrassi muoiono per una coperta o una tenda che va a fuoco, per una bronchite non curata, per cirrosi, per infezioni non curate, per il rifiuto di farsi curare. Muoiono da soli, come gli elefanti, ma senza romanticismo.

È quello che è successo a Renato, una delle prime persone che ho visto quando ho cominciato a fare i giri con Sant’Egidio. Era il 6 dicembre 2016 e c’erano otto gradi. Io ero con Salvatore, Stefania e padre Vincenzo a piazza della Repubblica. Renato era da solo. I giri che organizzano i volontari della comunità intorno a Termini servono a questo: raggiungere le persone che preferiscono stare da sole. La stazione funziona da riparo e collante, forma gruppi e equilibri. Tra loro ci sono anche violenze e angherie, ma paradossalmente c’è anche più sicurezza. Se qualcuno si sente male c’è qualcun altro che chiama aiuto, se c’è una rissa c’è la speranza che qualcuno intervenga per fermarla, i fascisti ci pensano prima di organizzare una spedizione. È una bolla fatta di compromessi. Chi non riesce a respirarne l’aria pesante se ne va.

Pasha non parla con nessuno, avviciniamoci piano. Sta su questa panchina da sei mesi. La madre è algerina, il padre era tedesco. Vivevano a Mallorca, poi il padre è morto, e la madre ha deciso di tornare in Algeria. Per Pasha è stato uno shock e ha cominciato a dare segni di squilibrio. La madre lo ha mandato dai parenti del padre in Germania. Pasha ha vissuto con loro per anni, curandosi. Lo scorso agosto è venuto in Italia e qualcosa si è rotto di nuovo. Ha finito le medicine e nel giro di poco è stato risucchiato in uno stato di paranoia. La scorsa settimana si è fatto male, ha la testa aperta in due, ma non vuole aiuto. La madre e i parenti hanno provato a portarlo via, ma non c’è verso, ogni giorno che passa è ridotto peggio. (Lorenza, volontaria di Sant’Egidio, 17 gennaio, piazza dei Siculi, ore 22.15, sei gradi)

Di Renato altre persone che dormono a piazza della Repubblica dicono che abbia le piattole: “È marcio, c’attacca le malattie”. Quando ci avviciniamo si alza da terra, una foglia secca che trema a ogni parola, e rifiuta cibo e tè. “Sono stato dal medico, sono sotto metadone”, dice, “la scorsa settimana me la sono vista brutta, una notte avevo bevuto e ho vomitato tutto, il medico m’ha detto che non devo bere”. “Ma qualcosa la devi mangiare, no?”, dice Salvatore. “No, no”, ripete. È morto una settimana dopo. Qualcuno aveva chiamato l’ambulanza ma lui ha rifiutato di andare all’ospedale, si è riaddormentato e non s’è più svegliato.

Storia di chi ci prova
Quando è morta Paola Petrassi, Virginia Raggi ha accusato il governo. “La tristezza è aggravata dal fatto che in neanche 24 ore ha caricato oltre 24 miliardi di euro sulle spalle dei cittadini per salvare una banca”, ha detto la sindaca di Roma, “mentre in anni non ha approvato il reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle: abbiamo bisogno che lo sblocchi perché è una questione di povertà”.

Il reddito di cittadinanza, cioè la possibilità per le fasce più deboli della popolazione di ricevere un reddito dallo stato, è il primo punto del programma del movimento fondato dal comico Beppe Grillo, ed è al centro del dibattito pubblico anche all’estero. Tuttavia, lo stato delle cose spinge a essere un filo pessimisti su una sua realizzazione nel breve e medio periodo. E non è detto che possa essere la soluzione per chi vive per strada, come parrebbe credere la sindaca di Roma. Le associazioni si interrogano da anni su questo tema: di quanti soldi si parla, funzionerebbero senza una politica che intervenga sugli affitti, lo riceverebbero anche gli stranieri, come sarebbero spesi da chi ha dipendenze o disturbi? La polemica politica è l’ultima cosa che serve per affrontare il problema, ricondurlo alla mancata approvazione del reddito di cittadinanza significa ridurlo alla sola dimensione economica, una dimensione che gli va stretta. Andando avanti così, nel breve e medio periodo, persone come Renato o Paola continueranno a morire. Nel breve e medio periodo, bisogna affidarsi a soluzioni meno rivoluzionarie, più noiose, perfino scontate.

La più banale delle quali potrebbe essere quella di smetterla di considerare le stagioni un’emergenza e di farsi sorprendere ogni anno dall’inverno o dall’estate. “Questa storia del piano freddo deve finire”, dice Girolamo Grammatico, “bisogna occuparsi del problema prima che il freddo arrivi, costa meno ed è più etico”. Grammatico ha 38 anni e da 17 lavora con chi vive per strada. Ha cominciato all’ostello della Caritas: “Ogni sera una lotta tra chi poteva entrare e chi no, mi hanno tirato addosso di tutto, una volta uno si è pure presentato con un coltello. E sai che ti dico, mi sorprende che nessuno mi abbia picchiato seriamente. Molti si sono rovinati da soli, molti no, in entrambi i casi li abbiamo espulsi, e questo, senza scadere nei sensi di colpa, che sono inutili, questo è un torto che abbiamo fatto loro”. Oggi, lavorando con l’associazione Emmaus, ripete che bisogna cambiare approccio. “La chiave è nel welfare generativo”, dice.

Letti allestiti dalla Comunità di Sant’Egidio nella chiesa di San Calisto a Roma, 13 gennaio 2017. (Michele Cirillo)

Tradotta, quella del welfare generativo è un’altra di quelle idee senza sopracciò che però possono cambiare le cose. Significa concepire un aiuto che responsabilizzi chi lo riceve e faccia nascere un processo produttivo. “La faccio semplice: se mi dai una casa per accogliere chi ha bisogno, come la mantengo? Facciamo un progetto in cui mi dai un appartamento e un bar sequestrati alla mafia, e io ho l’obbligo di farli funzionare in tandem. Così divento autonomo, includo le persone sia socialmente che economicamente, e non peso sulle tasse. Naturalmente, il discorso è diverso quando ci troviamo di fronte a persone con dipendenze, disturbi, malattie, ma anche in questi casi si può lavorare in un’ottica diversa. Mi rendo conto che curarli è la priorità, ma essere malati non significa essere parcheggiati per sempre, come avviene a molti di loro”.

Gli immobili sequestrati alla mafia a Roma e in gestione all’Agenzia nazionale (Anbsc) sono 422. Sono appartamenti, negozi, garage, fabbricati industriali e terreni confiscati in primo grado, in secondo grado o definitivamente. Quelli destinati al comune sono 206. Di questi, solo 78 vengono usati per scopi sociali. Pensare che siano la soluzione al problema è da ingenui: ma sono già lì, esistono, e cominciare a considerarli come degli spazi in grado di contenere storie come quelle di Marco, Renato, Paola, sarebbe un buon inizio per non lasciare morire la gente per strada, per cominciare a raccontare altre storie. Le associazioni da anni lamentano la mancanza di posti a Roma dove poter lavorare e far nascere nuovi progetti. Altrove, c’è chi ci sta già provando e i risultati sono incoraggianti.

Angelo ha 63 anni, abita a Pisa ed è finito a vivere in strada per via di un problema di alcolismo. Nell’aprile del 2015, un infarto lo ha colpito. ‘Gli operatori mi hanno chiesto se fossi interessato a entrare in una casa, pagando un centinaio di euro al mese di affitto con la mia pensione di invalidità. Accettai’. In quell’appartamento, Angelo dice di non aver più bevuto un goccio d’alcol; fa volontariato, e ha riallacciato i rapporti con la famiglia. (Redattore sociale, 7 dicembre 2016)

Nel nostro paese ci sono altre 556 storie del genere. Sono cominciate nel 2014 grazie alla Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (Fio.psd) e seguono altre strade rispetto a quelle che si arenano nei dormitori o nelle social housing. Per la Fio.psd le storie devono cominciare, o ricominciare, direttamente dentro un appartamento. “L’housing first è basato su un principio fondamentale”, spiega Deborah Padgett, ricercatrice dell’università di New York, “e cioè che la casa sia un diritto di tutti, e che dunque non possa essere concessa in modo condizionato. L’unica condizione dev’essere la capacità di mantenerla autonomamente: la responsabilità personale è fondamentale in questo percorso. Paradossalmente i dati ci dicono che il consumo di droghe e alcol è maggiore tra chi continua a frequentare i programmi tradizionali”.

Due anni dopo il lancio del programma housing first in Italia, il 90 per cento dei partecipanti ha tagliato i ponti con la strada; il 70 per cento ha livelli di salute fisica e mentale stabili; l’80 per cento dice di aver stretto nuove amicizie e ricominciato normali attività sociali. Per i comuni significa anche risparmiare. A Bergamo, il progetto Rolling Stones ha abbattuto i costi dai 50 ai cento euro al giorno per ogni persona seguita.

Storie simili succedono in Canada, negli Stati Uniti, in Danimarca, in Francia, in Spagna e in molti altri paesi europei.

In Italia hanno trovato spazio in 186 appartamenti di 27 città. A guardare la mappa del paese, ci si mette vergogna a vedere un buco proprio a Roma. A parte qualche progetto informale gestito da alcune associazioni, di strutturato non c’è niente. È ora che in questa città finiscano le storie di chi muore per freddo, e si cominci a raccontare storie nuove.

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