“Le prime ad andarsene sono state le mutande”, ride amaramente Araldo Lunari che, insieme alla moglie Margherita Lazzari e, adesso, ai figli Alice e Nicola, lavora all’azienda tessile di famiglia, che produce i capi di abbigliamento Lazzari. E spiega: “Quando hanno cominciato a spostare all’estero la produzione dell’intimo ho capito che sarebbe cambiato tutto”.
Siamo in auto, sull’autostrada che dall’aeroporto di Venezia ci porterà a San Bonifacio, provincia di Verona, dove i Lunardi-Lazzari vivono e lavorano. È un pomeriggio afoso, ci affiancano e superano grossi container di merce cinese, ai lati della strada capannoni ormai deserti e un po’ decadenti: “Alzarsi la mattina e andare a lavorare in un capannone? Nessuno può averne voglia”. Cerco di immaginare, dietro l’aspetto burbero e sornione, il ragazzo che nel 1977, insieme alla moglie Margherita, ha aperto il primo laboratorio sopra un vecchio cinema nel vicentino, spostandosi qualche anno dopo nel centro storico di un paese vicino Verona, in una casa colonica ristrutturata apposta: scelte insolite, come quella di non vendere all’infuori dei propri monomarca, aperti in alcune città venete e raggiungibili in automobile, per non spezzare la cura e l’attenzione su tutta la filiera.
Da qualche anno Lazzari vende anche online, mai tramite altri siti ma solo sul proprio, e dell’ecommerce si occupa Nicola, il secondogenito, che oltre a tutto il resto risponde alle clienti sforzandosi di mantenere quel filo diretto tra chi vende e chi compra che internet tende a rendere anonimo.
Superstiti fantasmi
“Delocalizzazione” è la parola chiave del nostro dialogo, mentre cerco di capire cosa, dei loro capi, nasce nel nostro paese, anzi per la precisione viene “fatto con cura in Italia”, come recita l’etichetta coniata dalla famiglia Lazzari in una grafia pulita e infantile, come il corsivo di quando eravamo bambini. E la risposta è: tutto. Però non ci sono bandierine tricolori, nell’etichetta, e soprattutto non c’è scritto made in Italy, in segno di protesta contro un’espressione ormai abusata e svuotata: “Il senso del made in Italy era contenere la storia e la valenza culturale delle lavorazioni, l’espressione fatto con cura è un modo di smarcarci da chi qui compie solo la fase finale della lavorazione, tipo stiro e rifinitura, e anche da chi geograficamente produce in Italia, ma in ambienti con condizioni di lavoro da terzo mondo”.
Nel libro pubblicato da Chiarelettere Addio. Il romanzo della fine del lavoro, in cui racconta una Sardegna svuotata dalla delocalizzazione, una regione dove i superstiti si aggirano come fantasmi, Angelo Ferracuti scrive che bisogna opporsi allo storytelling dei buoni, di chi ce l’ha fatta. Ha ragione, perché il canto apologetico è fuori luogo per raccontare un percorso pieno di difficoltà, e tuttavia bisogna pur dire che un’altra strada si può tentare, nonostante gli ostacoli e le perdite.
In questo paese diviso in guelfi e ghibellini nessuno si è mai preoccupato di chiedersi come mai le aziende chiudevano o scappavano
“Per carità, non siamo i buoni e non siamo contrapposti a nessun cattivo: ognuno fa le sue scelte”, precisa Lunardi, e racconta: “Una signora che in un negozio si stava provando un abito ha voluto conoscermi, complimentarsi perché le piacevano gli abiti e perché siamo stati bravi a rimanere qui a produrre. Le ho risposto: ‘Ma signora, forse siamo rimasti solo perché siamo pigri’; da lì, come un fiume in piena, mi ha raccontato la storia dell’azienda dove ha lavorato per quarant’anni, il dispiacere di vederla chiudere lasciando a casa settanta persone e disperdendo un capitale di competenze. Storia che già conoscevo: vedevo alle fiere l’ex titolare, mi teneva aggiornato sulle fette di produzione che gradualmente spostava all’estero, tentando invano di sopravvivere e non finire stritolato dai colossi del low cost, perché non è che in questo paese diviso in guelfi e ghibellini qualcuno si sia mai preoccupato di guardarsi intorno e chiedersi come mai le aziende o chiudevano o scappavano”.
Ha ragione Ferracuti a scrivere che la narrazione del vincente è triste e soprattutto falsa, perché nessuno vince davvero, nessuna azienda a misura etica e umana è al sicuro, tutti hanno la percezione di perdere, sempre, qualcosa. Perde chi crolla, cede e sposta tutto all’estero (“Non me ne viene in mente uno che abbia fatto fortuna, quasi tutti hanno bruciato risparmi, aziende e famiglie”), perde chi ogni giorno rimane in Veneto incollato a un’altra idea: “Chiuderò anch’io”, dice Lunardi, “ma me ne andrò per ultimo, voglio essere quello che spegne la luce”.
Bon ton con un’anima punk
Arriviamo al punto vendita di San Bonifacio dove si è appena concluso un video sui nuovi capi della stagione. Sarà diffuso su internet, attraverso i canali dei propri social network e del sito, la comunicazione in casa Lazzari è discreta, fuori moda: sapete dove trovarci, se volete. Protagonista una ragazza bionda, studentessa di ingegneria, “una modella a chilometro zero”, scherza Lunardi, “abita qui vicino”.
In negozio, abiti bon ton con dentro un’anima punk, orli rifiniti, stampe giocose e tagli perfetti. Lazzari ha clienti affezionate che ne mutuano lo stile e l’ispirazione, e oggi veste tre generazioni, nonne mamme e nipoti che si tramandano un’idea sartoriale pressoché scomparsa, spazzata via dalle scelte schiaviste della maggior parte dei marchi del lusso, dagli inferni di Prato (da dove parte un milione di capi al giorno), dagli spostamenti in Bangladesh, India, Nepal, dove tutto si produce prima, a minor costo, meglio: che vuol dire solo peggio.
Insisto: possibile che riusciate a non delocalizzare nulla, dopo anni in cui ci sentiamo ripetere che vivere di sola Italia è impossibile? I soli accessori non regionali sono le scarpe: il fornitore è marchigiano.
La verità è che questa famiglia schiva, sorpresa dalla mia curiosità e dalle mie domande, abituata a lavorare senza ricevere troppo interesse, rifiuta qualsiasi marchio di eroismo, eppure bisognerà dire che Lazzari resiste. Resiste a un’economia ribaltata: “Ora il prodotto interno lordo arranca sotto l’1 per cento, negli anni in cui abbiamo cominciato noi girava attorno all’8: una febbre dell’oro che ha segnato nel bene e nel male i nostri territori e le nostre vite. Lavoro per tutti e crescita urbanistica disordinata, una miriade di piccole o medie aziende con un saldo occupazionale che poi sarebbe rimasto positivo per anni”.
Il laboratorio Lazzari sembra un’antica sartoria
Resiste ai cambiamenti di stile, con la primogenita Alice che unisce quello che ha imparato da bambina dalla nonna sarta a nuove collaborazioni con illustratrici contemporanee: la prima è stata Olimpia Zagnoli, con una serie ispirata alla prima colazione (sui tessuti comparivano toast, uova strapazzate, tovagliette). A seguire l’inglese Julia Pott, l’americana Kendra Dandy, l’ungherese Anna Kövecses, tutte autrici di stampe originali che rendono bluse e abiti simili a libri illustrati.
Il laboratorio Lazzari sembra un’antica sartoria, non ci sono un ufficio stile da una parte del mondo e gente che realizza le idee altrui dall’altra, c’è una collaborazione agevolata dalla vicinanza, dal lavorare in pochi metri quadri. Oltre i quattro di famiglia, i dipendenti sono quattordici, dodici donne (dieci italiane, una romena e una croata) e due uomini.
Per capire come mai dati del genere siano una notizia e non la normalità, basta riportare un brano da un libro appena uscito per Utet, un libro illuminante per chiunque voglia capire qualcosa del mondo del lavoro oggi in Italia, Schiavi di un dio minore, scritto a quattro mani da Giovanni Arduino e Loredana Lipperini:
Vengono a galla come bolle notizie tipo quella dell’agenzia interinale di Modena che propone ‘contratti rumeni’. Veri. Veri lavoratori interinali rumeni in offerta: senza diritti, senza Tfr, senza tredicesima, senza la possibilità di ammalarsi e persino poco propensi ad ammalarsi. Lo leggi, se vuoi, in un volantino: ‘Vinci la crisi, cosa stai ancora aspettando: chi utilizza un lavoratore interinale rumeno risparmia’. Volete sapere come? ‘Beneficia del massimo della flessibilità e in più: niente Inail, niente tredicesima, niente Inps, niente Quattordicesima’. E per chi non si fosse ancora convinto: ‘Niente malattia, niente Tfr, niente infortuni, no problems [sic], niente consulenti paghe. Alla tua azienda non rimane che pagare undici mensilità e non più 14 più Tfr’.
Non siamo in Bangladesh ma nella “civilissima” Emilia-Romagna, dove il “made in Italy” di cui forse si ammanterà quell’azienda non significa nient’altro che: fatto (senza cura) in Italia. A volte, a fare una piccola rivoluzione è la scelta di un’altra etichetta.
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