Il presidente russo Vladimir Putin a Mosca, il 18 aprile 2014. (Alexei Druzhinin, Cremlino/Ria Novosti/Reuters/Contrasto)
Sulla crisi ucraina e sulla strategia politica e militare di Mosca è stato scritto di tutto. Putin è impazzito. No, è un realista. Punta ad allargare la sfera d’influenza di Mosca. No, cerca solo di rispondere alle umiliazioni subite negli ultimi vent’anni per mano statunitense. Anzi, il suo vero obiettivo è la sopravvivenza del regime. Le sue azioni sono ispirate da un’ideologia nazional-conservatrice di matrice ortodossa. Niente affatto, è semplicemente uno stratega astuto che cavalca la retorica nazionalista per fini geopolitici. O di interesse personale. O della sua cerchia di potere.
Comunque la pensino, su una cosa, però, più o meno tutti gli analisti sono d’accordo: quello che sta succedendo in Ucraina sta ridisegnando gli equilibri strategici usciti dal 1989 e apparentemente consolidati in venticinque anni di rapporti complessivamente accettabili tra Mosca e Washington. Qualcuno parla di un ritorno alla guerra fredda. Ma le analisi più brillanti raccontano di un nuovo tipo di scontro che non ha nulla a che vedere con le dinamiche della contrapposizione atomica, ideologica e codificata in base a una serie di regole condivise tipiche, appunto, della Guerra fredda.
A confermare che oggi siamo di fronte a un quadro del tutto nuovo c’è anche l’intricatissima ragnatela di simpatie e ostilità politiche che le proteste di Maidan hanno disegnato, all’interno delle democrazie liberal-democratiche dell’occidente e tra queste e la Russia. Nulla che sia spiegabile con l’appartenenza ai tradizionali schieramenti ideologici. Per capire la natura di certi rapporti, e di certe animosità, serve una buona dose di realistico cinismo e, in alcuni caso, un po’ di irrazionale idealismo.
In Germania, per esempio, la maggioranza dell’opinione pubblica è contraria al varo di sanzioni o contromisure politiche, economiche e diplomatiche contro Mosca, e molti tedeschi ammettono di comprendere le ragioni del Cremlino. Dietro a quest’atteggiamento ci sono senz’altro gli stretti legami economici tra i due paesi, ma pure suggestioni di ordine storico, legate a vicende del secolo scorso e ottocentesche e all’idea che Berlino debba necessariamente avere una relazione privilegiata con Mosca.
Io sto con Putin. Dove la situazione si fa più interessante è nei rapporti tra la Russia - non un partito, ma il paese nella sua interezza, incarnato e rappresentato dal suo presidente, potere e popolo che marciano insieme - e i movimenti europei di destra ed estrema destra. In Italia tutti abbiamo visto i manifesti di Forza nuova che inneggiavano alla democrazia nazionale di Putin. Ebbene, non sono solo i neofascisti italiani ad ammirare il capo del Cremlino. Quasi tutti i partiti dell’estrema destra europea considerano Mosca la capofila di un movimento paneuroeo che in nome dell’antiamericanismo e del rifiuto della società liberale rispolvera i vessilli della nazione, dell’identità, della sovranità e della tradizione.
Rapporti di simpatia e vicinanza reciproca esistono da tempo tra Mosca e i fascisti slovacchi del partito di Marian Kotleba, i bulgari di Ataka e i neonazisti greci di Alba dorata. Negli ultimi due casi, la continuità politica e ideologica non stupisce più di tanto: Bulgaria e Russia hanno da sempre legami storici e linguistici molto solidi, mentre il collante con i greci è rappresentato, tra le altre cose, dalla comune fede ortodossa, che è tra i pilastri della nuova ideologia nazionale di Putin. Ma il capo del Cremlino esercita un fascino particolare anche su leader di estrema destra dell’Europa lontana dai Balcani e dal mondo ex comunista: per esempio Marine Le Pen del Front national francese e Nick Griffin del British national party.
Le testimonianze di questa contiguità non mancano: il leader di Alba dorata Nikolaos Michaloliakos ha affermato che la Grecia dovrebbe essere lo sbocco naturale della Russia ai mari caldi, Le Pen è stata in vista ufficiale nel 2013 in Crimea e a Mosca, dove ha incontrato il vicepremier Dmitri Rogozin, ex ambasciatore russo alla Nato ed ex leader del partito nazionalista Rodina (Patria), mentre Griffin, invitato a monitorare le elezioni politiche russe del 2011, le ha definite “più trasparenti di quelle britanniche”.
Il caso ungherese. Nella storia d’amore tra gli estremisti europei e la Russia esistono però anche casi più singolari: per esempio quello dell’Ungheria, dove sia il partito di governo, Fidesz, guidato dal primo ministro Viktor Orbán, sia i neofascisti di Jobbik, nutrono più di qualche simpatia per la Russia. Ora, è evidente che tra la destra, più o meno radicale, e il regime putiniano esistono diversi punti di contatto, peraltro già ricordati: l’ostilità verso l’occidente e l’America, l’ossessione per l’identità, la tradizione e la sovranità, lo spiccato autoritarismo, l’insofferenza verso i diritti delle minoranze e le regole della democrazia liberale. Tutto vero. Nel caso ungherese, però, c’è qualcosa che non torna: come può un paese che ha subito i carri armati di Mosca nel 1956 e oggi non fa che sottolineare in ogni occasione l’importanza della sovranità ritrovata dopo cinquant’anni di occupazione, improvvisamente mettere tutto in secondo piano e abbracciare l’ideologia neoimperiale del vecchio nemico?
Nel caso di un partito con una base fortemente ideologizzata com’è Jobbik questa contraddizione si può anche spiegare: Bruxelles è la globalizzazione delle banche, che cancella le identità nazionali, Mosca invece, nonostante i trascorsi storici, oggi rappresenta la difesa della sovranità e della tradizione. E agli occhi dei neofascisti è questo che conta. Quello di Fidesz, invece, è un caso diverso e legato, in qualche modo, anche a scelte strategiche e politiche. All’inizio dell’anno Orbán ha affidato all’azienda russa Rosatom, controllata dallo stato, il contratto per la realizzazione di due nuovi reattori nella centrale nucleare di Paks, suscitando non poche polemiche nel paese. Poi, nel momento dell’annessione della Crimea, ha preso le difese di Mosca.
Certo, anche qui l’aspetto ideologico ha qualche peso: Orbán e Putin sono due leader risoluti, autoritari e fortemente legati all’idea di una società tradizionale e conservatrice. Eppure è difficile capire perché la storia non abbia un peso maggiore nell’orientare le scelte di Fidesz. Perché un leader che ha costruito il suo successo denunciando l’occupazione sovietica del suo paese dovrebbe improvvisamente tradire il suo passato politico? La risposta, che certamente non è univoca, può avere a che fare con l’altra metamorfosi vissuta da Orbán negli ultimi quindici anni, quella che l’ha trasformato da liberale anticomunista a populista euroscettico e ultranazionalista.
In questo caso un interessante parallelo può essere tracciato con la Polonia e con i conservatori del partito dei gemelli Kaczynski, che sono inevitabilmente una pietra di paragone per i leader ungheresi, considerate le simili esperienze storiche vissute e una certa comunanza di sentire collettivo. Ebbene, i nazionalisti polacchi non si sono mai fatti sedurre dalla Russia e sono rimasti convinti che la sovranità del paese vada difesa prima dalle minacce di Mosca che dalle intrusioni di Bruxelles.
Vladimir Putin a pesca in Siberia, il 20 luglio 2013. (Alexei Nikolsky, Cremlino/Ria Novosti/Reuters/Contrasto)
C’è poi anche un’altra contraddizione in questa saldatura di estremismi. È certamente normale che le forze della destra radicale di paesi diversi si alleino. Ma la particolarità è che in Russia le forze reazionarie e parafasciste hanno anche un forte legame con il passato sovietico, che in teoria dovrebbe essere il nemico giurato della destra europea di derivazione fascista. Anche, qui, però tutto passa in secondo piano nel nome della lotta comune all’americanismo e alla globalizzazione. E, soprattutto, nel nome di un progetto ideologico e geopolitico che da qualche anno fa proseliti negli ambienti dell’estrema destra in tutto il pianeta: l’eurasismo di Aleksandr Dugin.
Sempre più ascoltato anche dai vertici del Cremlino, il leader del Movimento internazionale eurasista, ha un passato nel Partito nazional-bolscevico di Eduard Limonov e un’idea di quello che dovrebbe essere la Russia non molto diversa da quella di Putin. Nel Libro Fondamenti di geopolitica, del 1997, scrive: “La sovranità dell’Ucraina rappresenta un fenomeno così negativo per la geopolitica russa da poter provocare, in teoria, un conflitto militare. […] Considerando il fatto che una semplice integrazione tra Mosca e Kiev è impossibile, e comunque non può sfociare in una struttura geopolitica stabile, la Russia dovrebbe impegnarsi in una riorganizzazione dello spazio ucraino secondo l’unico modello geopolitico logico e naturale”. Lo scenario è delineato in modo ancora più chiaro da Dugin nel 2008, in un discorso tenuto in Ossezia del Sud prima dello scoppio del conflitto con la Georgia e riportato dallo Spiegel: “Le nostre truppe occuperanno la capitale georgiana Tbilisi, poi tutto il paese e forse perfino l’Ucraina e la Crimea, che storicamente appartiene alla Russia”.
Tradotta in gesti politici concreti, quindi, l’ideologia di Dugin prende forma nell’annessione della Crimea e nel progetto putiniano dell’unione eurasiatica. E riesce a raccogliere intorno a sé una costellazione di politologi, politici e analisti pronti a difendere il diritto di Mosca di tutelare i suoi interessi: commentatori che si vedono spesso sulla tv satellitare Russia Today, per esempio l’euroscettico britannico John Laughland, già difensore di Milosevic ai tempi del processo all’Aja.
Propaganda e ideologia. Accanto a questo complesso ginepraio di contraddizioni c’è anche la sfacciata doppiezza della propaganda, e quindi dell’ideologia, russe: il Cremlino afferma che i suoi militari sono andati in Crimea per combattere contro i fascisti di Maidan, ma in casa usa una retorica ultranazionalista e xenofoba e plaude al risveglio nazionale europeo, che sarebbe merito dei neofascisti di Alba dorata, Jobbik e British national Party. A riguardo è molto eloquente l’articolo scritto per Izvestia da Oleg Bondarenko, politologo ed ex militante di Rodina, che abbiamo pubblicato sul numero 1047 di Internazionale.
Le attestazioni di stima della destra europea non sono ignote al Cremlino, che sembra interessato a consolidare certi legami e a costruire una rete con i partiti più filorussi in tutti i paesi del continente. Jobbik, Alba dorata, il Bloc identitaire francese e il Partito della liberta austriaco (quello di Jörg Heider, per capirci) saranno tra gli ospiti del Forum nazionale russo, che si terrà il prossimo ottobre a Pietroburgo, organizzato da un gruppo vicino al Cremlino (l’Intelligent design bureau di Andrej Petrov, dirigente di Rodina) per mettere a punto una dottrina nazionale per la Russia e il continente. Il Cremlino, inoltre, mantiene anche contatti, oltre a fornirgli supporto, con i partiti filorussi di tutta Europa. In fondo a Mosca non dispiacerebbe poter disporre al prossimo parlamento di Strasburgo di un nutrito gruppo di deputati eurofobi e russofili: ipotesi tutt’altra che remota, considerata la curiosità con cui guardano a Mosca molte delle formazioni euroscettiche e populiste del continente.
A complicare ulteriormente questo scenario, poi, c’è anche la tendenza di una certa frangia della sinistra radicale a schierarsi dalla parte dell’ultranazionalista Putin (e di Assad, e dell’Iran) nel nome della lotta all’imperialismo e all’Europa dominata dalla banche. Ma questa è un’altra storia, che ha connotati culturali e politici diversi.
Andrea Pipino è l’editor di Europa di Internazionale.
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